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Cambiamo la lapide...

...provando a nascondere la verità. Ricordiamo Giuseppe Pinelli, con il riassunto dei fatti a cura di Francesco "baro" Barilli.

di Redazione - mercoledì 18 novembre 2009 - 2921 letture

da www.reti-invisibili.net

Giuseppe Pinelli (ferroviere anarchico morto in circostanze misteriose nella notte fra il 15 e il 16 dicembre del 1969, precipitando dal quarto piano della questura di Milano) l’operazione di stravolgimento della memoria è stata particolarmente odiosa e particolarmente riuscita, tanto da dover parlare più correttamente di "cancellazione" più che di "stravolgimento" della memoria. Ogni volta che si cerca di riprendere in mano il filo degli avvenimenti che parte dal 12 dicembre 1969 (attentato in Piazza Fontana) ai giorni nostri ("caso Sofri"), passando per l’omicidio del commissario Calabresi, si tende a sorvolare sulla morte di Pinelli, quasi si trattasse di un "incidente di percorso", un episodio da dimenticare, ininfluente per la comprensione degli eventi… Invece la storia di Pinelli è fondamentale per capire l’evoluzione e la stretta connessione di quei fatti.

Credo che questa frase di Licia Pinelli, estratta dal libro-intervista che Licia rilasciò a Piero Scaramucci nel 1982, sintetizzi meglio di ogni altra la vicenda. "Pino è stato il granellino di sabbia che ha inceppato il meccanismo. Dopo la bomba di Piazza Fontana avevano cominciato la caccia agli anarchici, che erano la parte più debole… la morte di Pino è stata un infortunio sul lavoro, per loro sarebbe stato più comodo metterlo in galera con gravi imputazioni e tenerlo dentro per anni…"..

Ecco un breve sunto di quei fatti.

L’attentato in Piazza Fontana, alla Banca dell’Agricoltura, è del 12 dicembre 1969; il triste bilancio sarà di 16 morti e 88 feriti. Le indagini si orientano da subito verso gli ambienti della sinistra, in special modo verso gli anarchici. Numerose persone vengono fermate il giorno stesso. Fra queste c’è Giuseppe Pinelli, che nella notte fra il 15 e il 16 dicembre cade dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi, e muore poco dopo il ricovero al Fatebenefratelli.

Nella stessa notte il Questore Marcello Guida ed il Commissario Calabresi danno la notizia durante una conferenza stampa. Secondo la loro versione Pinelli si è suicidato, in quanto sul suo conto gravavano pesanti indizi. Questa versione comincia presto a fare acqua da tutte le parti. Il 27 dicembre Licia Rognini (moglie di Giuseppe Pinelli) querela il Questore Guida per diffamazione. Ecco un estratto dall’intervista che Licia Pinelli rilasciò a Piero Scaramucci nel 1982 "… io ero sicura al mille per cento che Pino non avesse fatto assolutamente niente di quello di cui lo incolpavano e quindi sono partita prima di tutto querelando il questore Guida per quello che aveva osato dire. Dopo avrei pensato alla morte… Probabilmente ero imbevuta della mia educazione, delle mie letture. Pensavo: prima l’onore, poi il resto…". Guida sarà assolto nel dicembre del 70.

Sempre nei giorni immediatamente seguenti la morte di Pinelli, "Lotta Continua" comincia ad accusare esplicitamente il Commissario Calabresi di essere il diretto responsabile della morte dell’anarchico.

Nel 1970 Calabresi querela per diffamazione il periodico; il processo denominato "Calabresi/Lotta Continua" comincia nell’ottobre dello stesso anno. Questo processo, nel quale il Commissario si presenta come parte lesa, diviene ben presto il palcoscenico sul quale ridiscutere il caso Pinelli.

Nel giugno del 71 la vedova Pinelli denuncia Calabresi e tutti gli agenti presenti ai vari interrogatori cui fu sottoposto il marito fra il 12 ed il 15 dicembre 69 per omicidio volontario: il giudice istruttore è Gerardo D’Ambrosio, che manda avvisi di reato a tutti i denunciati.

Il 17 maggio 1972 il Commissario Calabresi viene ucciso a Milano. Proprio quel giorno era prevista la presentazione al Palazzo Reale di Milano de "I funerali dell’anarchico Pinelli", quadro di Enrico Baj. Questa presentazione fu annullata in seguito alla notizia dell’omicidio di Calabresi e non fu più riproposta.

Il 27 ottobre 1975 D’Ambrosio chiude definitivamente la sua inchiesta, lasciando l’amaro in bocca a molti: leggendo per esteso la sentenza si ha l’impressione che il giudice abbia trovato una matassa troppo intricata da dipanare. Le sue ricerche chiudono con poche certezze; esclude categoricamente che Pinelli si sia suicidato (e quindi conferma che tutti quelli che dichiararono il contrario mentirono, ma senza approfondire le motivazioni che stavano alla base di quelle menzogne); esclude l’omicidio non trovandone le prove (e lo esclude con un vero bizantinismo: "la mancanza assoluta di prove che un fatto è avvenuto equivale alla prova che un fatto non è avvenuto") e ritiene "verosimile" l’ipotesi di un malore.

Scartata l’ipotesi del suicidio e pure quella dell’omicidio "volontario"; scartato pure il volo di fantasia di D’Ambrosio del 1975 (che salomonicamente parlò di un "malore attivo", per districarsi fra le scomode ipotesi di suicidio ed omicidio), fra le altre ipotesi che furono fatte restano le seguenti. Un interrogatorio "forzato" e svoltosi fuori dalle procedure legali, in cui a qualcuno saltarono i nervi giungendo a picchiare Giuseppe Pinelli fino a temere di averlo ucciso; da qui la repentina decisione di sbarazzarsi del corpo inscenando un suicidio più o meno verosimile. A favore di questa ipotesi ci sarebbero l’ora di chiamata dell’ambulanza (uno dei punti più controversi dell’intera vicenda e che anche la sentenza D’Ambrosio spiega poco e male: sembrerebbe che l’ambulanza sia stata chiamata pochi minuti PRIMA della caduta dal balcone) e la famosa "macchia ovalare" trovata sul collo del Pinelli (che i sostenitori di questa ipotesi addebitarono ad una percossa particolarmente violenta o ad un colpo di Karate). Una colluttazione finita tragicamente per pura fatalità, al termine dell’interrogatorio. O ancora: Pinelli aveva sentito o visto qualcosa che non doveva sentire e/o vedere (teoria questa che Pietro Valpreda, un altro degli anarchici accusati in un primo tempo per la strage, scomparso per malattia nel luglio 2002, confidò in un’intervista a Mauro Bottarelli).

Nel 1988 Leonardo Marino, ex componente di Lotta Continua, raccontò che pochi giorni prima dell’omicidio del commissario Calabresi incontrò Adriano Sofri a Pisa, il quale gli comunicò la decisione di uccidere il commissario. Secondo questa ricostruzione l’omicidio sarebbe stato materialmente compiuto da un commando composto da militanti di L.C.: Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e lo stesso Marino (con ruolo di autista). Non è questa la sede per affrontare il "caso Sofri", o per parlare delle tante contraddizioni che si possono trovare nel racconto di Marino. Basti dire che la vicenda processuale si è per ora chiusa, e che la Magistratura ha ritenuto credibile la versione del "pentito" Leonardo Marino, condannando per omicidio gli ex esponenti di Lotta Continua.

Nel maggio 2002 si è tornati a parlare (seppure indirettamente) del "caso Pinelli". Pochi giorni prima del trentesimo anniversario dell’omicidio Calabresi, il Corriere della Sera, sul proprio settimanale "Sette", pubblicò un’intervista con Gerardo D’Ambrosio. Il Magistrato in quell’occasione ribadì di essere assolutamente sicuro dell’estraneità di Calabresi (a qualsiasi livello) nella morte di Giuseppe Pinelli. Ma al di là dei giudizi che si possono esprimere sul convincimento di D’Ambrosio, è certo che il Magistrato commette un grave errore; ad un certo punto afferma: "Poi ottenni un’altra prova sull’innocenza di Calabresi. La testimonianza di uno degli anarchici fermati, Pasquale Valitutti: aveva visto Calabresi uscire dalla sua stanza prima che Pinelli cadesse".

Il punto è che Valitutti all’epoca dell’inchiesta disse ESATTAMENTE IL CONTRARIO (confermando sempre, successivamente, la stessa versione): NON SOLO Valitutti non aveva visto Calabresi uscire dalla stanza, ma affermò pure che (considerata la posizione che occupava nel corridoio) avrebbe senz’altro notato se il commissario fosse uscito. Dunque anche l’intervista a D’Ambrosio si rivelò un’occasione persa nell’ottica di ristabilire la verità sulla vicenda, diventando invece un altro elemento che va a confonderne la memoria.

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