CLANDESTINO A CHI? - La legge 94/2009 e l’ombra lunga del razzismo

di Giuseppe Tramontana - martedì 1 settembre 2009 - 4284 letture

“(…) Il Fascismo non è una tegola cadutaci per caso sulla testa; è un effetto della apoliticità e quindi della immoralità civile del Popolo italiano. Se non ci facciamo una coscienza politica, non sapremo governarci, e un popolo che non sa governarsi cade necessariamente sotto il dominio dello straniero o sotto la dittatura di uno dei suoi.” (Emanuele Artom, Diari di un partigiano ebreo, 26 gennaio 1944).

Dunque, il cappio attorno alla democrazia italiana si sta stringendo sempre più. C’è poco da scherzare, c’è poco da sorridere. O demonizzare. Come ricordava Brecht, si inizia sempre così. Con il perseguitare gli zingari, quelli che hanno un colore di pelle diverso, poi tocca agli omosessuali, agli oppositori, ai critici. Davanti all’indifferenza generale. Al cospetto dei bravi cittadini che si fanno i fatti loro perché loro non c’entrano, non sono omosessuali o drogati o zingari, sono bianchi, italiani, satolli, puliti, perbene. Loro capiscono, senza neanche rimorsi di coscienza. Si fa piazza pulita. Immondizia umana che merita di essere spazzata via. Per il nostro bene, per il nostro ideale di una società pura, per la sicurezza nostra e dei nostri bimbi, per tutelare le nostre donne insidiate per strada, per fermare lo stillicidio di rapine nelle ville e nelle tabaccherie, di furti nei supermercati e di portoghesi sui bus. Tutto perfetto. Lo dice persino la tivvù. E la gente intervistata dalla tivvù. Gente normale, come noi, italiani medi. Perbene anch’essi. Poi, succederà qualcosa. Il cerchio degli attentatori della nostra sicurezza si allargherà. Quelli che non sono allineati, quelli che nutrono dubbi, quelli che leggono Marx e Bukowsky e poi quelli che leggono Pavese o Tolstoj, quelli che ascoltano musica hard e poi i fans di Vasco Rossi e Ligabue o Zucchero, i ragazzi che si fanno una canna e quelli che manifestano per avere delle scuole decenti, gli operai che scioperano per qualche miserabile euro. Ed alla fine piglieranno persino quelli che non si sono mai schierati, gli indifferenti. Quelli che hanno sempre pensato che il governo ha sempre ragione, che se si prendono certe iniziative legislative un motivo ci sarà pure e che, se uno non fa male a nessuno, male non può riceverne da alcuno. Anche loro ci staranno nel calderone. Ma, a questo punto, neanche loro troveranno qualcuno in grado di difenderli. Così è stato. Così rischia di essere. Oggi, nessuno sembra particolarmente allarmato. Solo Di Pietro e pochi altri. Ed infatti – e incredibilmente – spesso diventa il bersaglio delle ire del più grande partito di opposizione. Cose all’italiana, non c’è che dire. Il PD vuole giudicare il governo dai fatti. Lasciamolo governare, vediamo che combina. Era un po’ quello che sostenne Benedetto Croce, allora senatore del Regno, a ridosso del delitto Matteotti, estate 1924. Lui aspettò. E giudicò. Solo che ci mise vent’anni per farlo. Il tempo di guerre coloniali, una guerra mondiale, persecuzioni, torture, esili, lacrime e sangue. Il tempo di una barbarie, insomma. Oggi, persino davanti ad un Al Capone tramutatosi in Al Pappone, nessuno in Italia osa pronunciare la fatidica parolina: dimissioni.

Che senso ha?

Dopo le leggi a tutela perenne dell’immunità di Al Pappone, per garantire il suo potere economico, per renderlo inattaccabile dai giudici, per aiutare amici e amiche con “scudi fiscali” e leggi sulle intercettazioni, ecco la legge 24 luglio 2009 n. 94, la cosiddetta legge sulla sicurezza. Ed all’interno di questo ‘pacchetto’ un ruolo determinante lo riveste il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, ossia la clandestinità (art. 1, comma 16, lett. a)): “salvo che il fatto costituisca più grave reato – recita la norma - lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del presente testo unico nonché di quelle di cui all’articolo 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68, è punito con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro.” Un bel colpo, non c’è che dire. Ma che senso ha questo reato? E, soprattutto, la clandestinità può atteggiarsi a reato? Insomma, che cos’è un reato? Secondo la dottrina più avveduta, come suol dirsi, è reato un fatto umano che aggredisce un bene giuridico ritenuto meritevole di protezione da un legislatore che si muove nell’ambito di valori costituzionali, sempre che la misura dell’aggressione sia tale da far apparire inevitabile il ricorso alla pena e sanzioni di tipo non penali non siano sufficienti a garantire un’efficace tutela. Quindi, un reato è tale se il fatto commissivo o omissivo aggredisce beni giuridici, implicitamente o esplicitamente, tutelato dalla Costituzione. Già da questo piccolo accenno appare palese come – nel caso del reato di clandestinità – manchi l’offesa ad un bene costituzionalmente protetto. Infatti, l’entrata nel territorio dello Stato non fa parte, in sé, di questi beni. “Dopo l’ingresso nel nostro ordinamento dell’ ‘aggravante della clandestinità’, palesemente affetta da vizio di costituzionalità – scrive l’Unione delle Camere Penali Italiane, in un documento dell’8 febbraio 2009 - assistiamo oggi alla criminalizzazione di una condotta, quale l’ingresso illegale nel territorio dello stato, evidentemente priva di qualsivoglia connotato di offesa a beni costituzionalmente protetti.” E se lo dicono gli avvocati… Ma, un passaggio merita considerazione: la criminalizzazione della condotta. Infatti, si addita al pubblico ludibrio, all’esecrazione ed alla condanna, sia morale che giuridica, il mero comportamento di ingresso illegale (cioè senza previa autorizzazione) nel territorio dello Stato. E’ possibile? Certamente no. Fermo restando che, tra i compiti di cui delle pubbliche istituzioni devono farsi carico, vi è anche quello di “regolare la materia dell’immigrazione, in correlazione ai molteplici interessi pubblici da essa coinvolti ed ai gravi problemi connessi a flussi migratori incontrollati” (Corte Cost. sent. n. 5/2004), tali adempimenti del legislatore devono attenersi alla rigorosa osservanza dei principi fondamentali del sistema penale. Tutte cose evidentemente disattese dalla legge 94/2009. Infatti, come ha messo in rilievo l’appello dei giuristi del 30 giugno 2009, la clandestinità non può essere un reato. Rendere una “condizione individuale”, quella di migrante, motivo di incriminazione, per i giuristi “assume un connotato discriminatorio”, contrastante non solo con il principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione, ma anche con “la fondamentale garanzia costituzionale in materia penale, in base alla quale si può essere puniti solo per fatti materiali.” Stesso discorso, peraltro, era stato sviluppato in un incontro affollatissimo tenutosi a Roma il 4 giugno 2008 a cui avevano partecipato oltre che Epifani, per la CGIL, esponenti dell’ARCI, ed i direttori degli istituti penitenziari, degli Uffici di esecuzione penale esterna e degli ospedali psichiatrici giudiziari. Tuttavia, qui, bisogna tornare al punto nodale. Che reato commette un cosiddetto clandestino? Che cosa mette in pericolo o lede? Quale fatto materiale lesivo di beni giuridicamente tutelati gli si può ascrivere a suo carico? Recentemente la Corte Costituzionale, con la sentenza del 5 marzo 2007, n. 78 ha ribadito senza mezzi termini che la condizione di mera irregolarità dello straniero non può essere qualificata come sintomatica di pericolosità sociale. Qualora ciò avvenisse, la conseguenza sarebbe l’applicazione a tali cittadini stranieri di regimi restrittivi della libertà e di altre sanzioni penali “non già sulla base di indici rivelatori di una particolare pericolosità sociale – secondo modalità già sperimentate nell’ambito dell’ordinamento penitenziario – quanto sulla scorta di un dato ‘estrinseco e formale’, quale il difetto di titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato.” Insomma, si prendono cannonate le mosche. Con rischio di stravolgere tutto il panorama costituzionale, anche a discapito di chi mosca non è. Ma andiamo avanti. Tra le altre cose interessanti che abbiamo citato a proposito della definizione (accademica?) di reato, un’altra merita attenzione: l’extrema ratio. Cioè, connotato essenziale della qualificazione di una determinata condotta come reato (e della relativa applicazione di pene e sanzioni) resta l’impossibilità di tutelare il bene protetto se non facendo scattare la norma penale, con conseguenti processi, tribunali, carcere, secondini e compagnia cantando. Nel caso della clandestinità – c’è da chiedersi – questo comportamento è dettato proprio dall’extrema ratio? Calpestare illegalmente il Sacro Suolo Patrio è un delitto tale da poter contrastare solo a colpi di codice penale? La risposta è scontata, se manca persino il bene oggetto di aggressione. Ma non basta. In realtà, come hanno evidenziato giuristi ed avvocati, la previsione di questo reato è assolutamente inutile. Infatti, chi può pagare una pena pecuniaria come quella prevista dalla norma di legge? Gente disperata, affamata, che fugge dalla miseria, dallo spavento, da guerre e devastazioni, gente che spende i quattro denari accumulati per comprarsi un lacerto di speranza a bordo di fragili gusci di pistacchio, affidandosi a contrabbandieri di carne umana, schiavisti parassiti e cannibali, questa gente – dicevamo – come può pagarsi un’ “ammenda da 5.000 a 10.000 euro”? Come può? Non può, semplicemente. Inoltre, se, alla fine, l’obiettivo resta la misura dell’espulsione, che senso ha prevedere reati, processi, tribunali, quando questa misura può essere azionata già oggi per via amministrativa? Già, che senso ha?

Contro chi?

Di sensi, l’Unione delle Camere Penali ne ha individuato almeno uno: propaganda. E’ solo per “l’esclusivo ed evidente scopo di farne bandiera di consenso” che sono state varate queste misure insulse ed inutili. Ma qualcuno va oltre. Si parla di lotta senza quartiere contro la povertà. O meglio contro i poveri. Ma anche in questo caso, dal punto di vista giuridico, l’assurdità del quadro normativo appena emerso è inequivocabile. “Gli squilibri e le forti tensioni che caratterizzano le società più avanzate producono condizioni di estrema emarginazione, sì che (…) non si può non cogliere con preoccupata inquietudine l’affiorare di tendenze, o anche soltanto tentazioni volte a ‘nascondere’ la miseria ed a considerare le persone in condizione di povertà come pericolose e colpevoli.” Queste sono parole della corte Costituzionale (sent. n. 519/1995) con le quali venne placato ogni tentativo di criminalizzazione della mendicità. Sono parole, come hanno sottolineato giuristi del calibro di Zagrebelsky, Onida, Ferrajoli, Neppi Modona, Spataro, Pepino, Palombarini, Rodotà ed altri, in quel famoso ed inascoltato appello contro il reato di clandestinità, che “offrono ancora oggi una guida per affrontare questioni come quella dell’immigrazione con strumenti adeguati alla loro straordinaria complessità e rispettosi delle garanzie fondamentali riconosciute dalla Costituzione a tutte le persone.”

Come prima, più di prima.

Sicurezza, dicevamo. E in nome di questa sicurezza, ad esempio, si delegano (o appaltano) alle ronde i controlli sul territorio. In pratica si legittimano individui privati a farsi giustizia da sé. Ufficialmente il loro compito è quello di segnalare agli organi di polizia locale, ovvero alle Forze di polizia dello Stato, eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”. Ora, a parte la beffa della segnalazione a quegli stessi organi di polizia ai quali si negano nuove assunzioni ed aumenti di stipendi, mi chiedo: ma che fine ha fatto l’esercito? Ricordate, proprio un anno fa di questi tempi, il dibattito si accendeva sull’opportunità di inviare o meno l’esercito nelle grandi città: da Padova a Verona, da Roma a Palermo. Alla fine, La Russa la spuntò: servono per assicurare maggiore sicurezza, affiancare polizia e carabinieri. E allora? Tutti se ne sono dimenticati, nessuno ne parla più, e adesso spuntano le ronde. E dire che, in rapporto alla popolazione, l’Italia ha la più alta concentrazione di forze dell’ordine del mondo: manco la Cina o, all’opposto, il Liechtenstein. E sempre in nome della sicurezza, l’art 1, comma 15 della Legge 94/09, aggiunge all’articolo 116 del codice civile le seguenti parole: “nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano.” Cosa vuol dire? Siccome l’articolo 116 del codice civile tratta del matrimonio dello straniero nello Stato italiano, questa piccola aggiunta significa che uno straniero non può sposarsi se non è in possesso del permesso di soggiorno. Tutto ha un sapore vagamente razzista, anzi da leggi razziali. Non è possibile che due persone, una italiana e una straniera, si sposino solo per amore. No. La straniera lo farà per un tornaconto, per avere la cittadinanza. Roba da stato etico. Si impediscono, i matrimoni tra italiani e stranieri irregolari. E al diavolo le ragioni del cuore, la cultura della solidarietà, la libertà personale e l’esigenza di tutela della famiglia. Nel 1938 (R.D. 17.11.1938-XVII, n. 1728 – Provvedimenti in difesa della razza italiana), si parlava di razza ariana (italiana) ed altre razze, oggi si parla di clandestini. Ma il risultato è identifico: si vietano i matrimoni, ci si intromette nella sfera più intima e riservata delle persone, nei loro sentimenti, per soffocare ogni loro libertà sotto i dettami farneticanti di uno stato etico. Ma il nostro legislatore è andato oltre. Oltre il 1938. L’articolo 6 comma 2 della legge 286/1998 (nota come Legge Turco-Napolitano), stabiliva che “fatta eccezione per i provvedimenti riguardanti attività sportive e ricreative a carattere temporaneo e per quelli inerenti agli atti di stato civile o all’accesso a pubblici servizi, i documenti inerenti al soggiorno di cui all’articolo 5, comma 8, devono essere esibiti agli uffici della pubblica amministrazione ai fini del rilascio di licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero comunque denominati.” Cioè, per le iscrizioni ai registri dello stato civile – ivi compreso il riconoscimento dei neonati – non era necessaria l’esibizione (e quindi il possesso) del permesso di soggiorno. Bene. Cosa ha fatto il legislatore della 94/09? Con l’art. 1, comma 21, lett. g), ha modificato l’articolo della Turco-Napolitano: “all’articolo 6, comma 2 – dice la nuova norma - le parole: ‘e per quelli inerenti agli atti di stato civile o all’accesso a pubblici servizi’ sono sostituite dalle seguenti: ‘, per quelli inerenti all’accesso alle prestazioni sanitarie di cui all’articolo 35 e per quelli attinenti alle prestazioni scolastiche obbligatorie.’” Come dire, si può partorire e si può iscrivere il figlio alla scuola dell’obbligo, ma non lo si può riconoscere. Incredibile, ma vero. E qui, bisogna dire, come hanno fatto notare sia gli intellettuali che hanno promosso dell’appello contro il ddl sicurezza (primi firmatari Camilleri, Tabucchi, Maraini, Fo, Rame, Scaparro, Amelia, Wu Ming, Ovadia) sia il giurista Domenico Gallo, neanche il fascismo era arrivato a tanto. Il fascismo non privava le madri ebree dei figli, né le costringeva all’aborto per evitare la confisca dei loro bambini da parte dello Stato. Eh, sì perché questo potrebbe essere il destino di questi piccoli non riconosciuti. Essere, nella migliore delle ipotesi, merce di adozione a beneficio delle ricche, ma non abbastanza prolifiche, famiglie italiche. Le ipotesi peggiori, non voglio neanche prenderle in considerazione. Ognuno può farne da sé.

In fine

Ultima, ma non meno importante, questione che merita attenzione è quella che riguarda le conseguenze e l’impatto che questo reato avrà sulla giustizia. Da più parti, dal CSM alla solita Ucpi, si è fatto notare che tale reato creerà una massa così abnorme di gente da processare, di processi da istruire e celebrare, che la giustizia ne sarà paralizzata. Senza contare i costi per gli avvocati d’ufficio, ai quali moltissimi di quei poveri cristi dovranno affidarsi, per i verbali, le registrazioni, le traduzioni, le vidimazioni, la cancelleria, ecc… E’ strano, hanno motivato il varo della legge sulle intercettazioni, con i relativi tagli alle stesse, con l’alto costo di tali strumenti a carico del bilancio della giustizia (hanno sostenuto il 65%, ma in realtà sono appena il 2,9%, e spese per di più ampiamente rientrate dopo la celebrazione dei processi e le condanne dei colpevoli), e poi si sperperano tanti soldi per processare dei poveracci, che spesso non sanno nemmeno di infrangere la legge perché verosimilmente non conoscono le leggi italiane, accusandoli di un reato inventato di sana pianta e fuori da ogni costituzionalità. E queste spese non verranno recuperate, naturalmente. Chi vuoi che paghi o rimborsi, il povero naufrago eritreo morto di fame? E intanto la giustizia verrà paralizzata. Sembra un ragionamento perversamente in perdita: tutto costi e nessun beneficio. A meno che il beneficio non stia proprio nel paralizzare la giustizia… Ora, che nell’immediato, appellarsi ad esigenze di sicurezza sia solo un pretesto per creare consenso attorno a sé è palese. Nell’anno 2008 – ma il fenomeno è rilevante già a partire dal secondo semestre dell’anno precedente – gli omicidi volontari hanno fatto registrare il minimo storico, i furti sono diminuiti del 39,72% rispetto all’anno precedente e le rapine del 28,8% e ad analoghe conclusioni si perviene per le estorsioni, le minacce, i danneggiamenti, insomma per tutti quei reati che creano allarme sociale (dati Ucpi, 2009). E allora perché soffiare sul fuoco della caccia allo straniero? Semplice. Lo si fa – come insegna la storia – per individuare nel diverso la causa omnium malorum, dandolo in bocca all’opinione pubblica, attraverso un meccanismo storicamente ben sperimentato, dai pogrom zaristi alle persecuzioni antisemite. Un diverso possibilmente debole e facilmente identificabile, ricattabile e perseguitabile. E, poi, chi se ne frega del clandestino, chi vuoi lo difenda? Nell’immaginario comune, il clandestino – per definizione e demonizzazione – è malvagio, parassita, è colui che attenta alla nostra vita, ali nostri beni, che spaccia, stupra, ruba, danneggia, e persino se lavora, facendosi pagare in nero e di meno, danneggia chi lavora onestamente. E’ facile – fin troppo – accusarlo di ogni misfatto e battere le grancasse contro di lui. E per chi solleva qualche dubbio, seppur di carattere umanitario, c’è sempre il classico rimbrotto a muso duro: e perché non te li porti a casa tu? Sì, sì, sono sporchi, puzzano, lordano, si drogano e fanno drogare, sono ladri, puttane, papponi, rapinatori, stupratori… Bisogna difendersi, magari – come suggerisce su Facebook, la pagina di “Lega Nord Mirano” – torturandoli. Solo perché clandestini. Perché sono, non perché fanno. Proprio come con gli ebrei. Clandestini, poi, per modo di dire. Perché si scrive clandestino, ma si legge straniero tout court. Nessuno lo ammette esplicitamente, ma tutti lo sanno. E, nella cultura simil-filo-leghista della micro-patria, la figura dello straniero può declinarsi come meglio aggrada, di volta in volta. Si va dall’africano, al cinese, al meridionale e, perché no?, a quello del paese vicino. Il meccanismo della persecuzione che sta emergendo è infatti molto simile. Non a caso, nei più recenti studi sul neofascismo e neonazismo in Europa, la Lega Nord viene inclusa tra le formazioni xenofobe e di tendenze neonaziste del vecchio Continente (es. R. O. Paxton, Il fascismo in azione, Milano, 2006). Con una particolarità rispetto a tutte le altre formazioni di questa risma presenti in ogni dove sul nostro continente: la Lega è la sola che fa parte di una compagine di governo. E’ il sonderweg, la particolarità, italiana, non c’è che dire.


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