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C’era una volta in Bhutan

Regia di Pawo Choyning Dorji, con Tandin Wangchuk, Kelsang Choejey, Deki Lhamo, Pema Zangmo Sherpa, Tandin Sonam (Taiwan, Francia, USA, Hong Kong, Bhutan, 2023, durata 107 minuti)

di Piero Buscemi - giovedì 10 ottobre 2024 - 1955 letture

Il titolo scelto per la distribuzione del film in Italia, sembra proprio un omaggio al nostro Sergio Leone. Una scelta forse legata alla caratteristica del regista romano a sviluppare una trama che, spesso, assumeva il valore di un lungo prologo per rivelare allo spettatore il messaggio del film solo nell’ultima mezz’ora di visione. O forse solo per lo stesso stile narrativo che ci collega a una fiaba.

Riguardo, poi, al Bhutan, più corretto geograficamente e politicamente chiamarlo "Regno di Bhutan", nome con il quale è conosciuto nel resto del mondo, è uno di quei Paesi non molto conosciuti dagli amanti del turismo esotico in Asia, preferendo località più gettonate, confinanti proprio con questa piccola monarchia, quali l’India e la Cina.

Questo film ha un pregio che supera di interesse l’approfondimento storico della vicenda raccontata, quello dello stile utilizzato dal regista Pawo Choyning Dorji per raccontare una storia semplice, prossima a una favola che la stessa ambientazione paesaggistica suggerisce. I paesaggi sconfinati dai colori che richiamano Van Gogh, i personaggi creati come figure semplici, ingenue, che trasmettono un senso di arretratezza, se paragonato allo sviluppo tecnologico e sociale registrato in altre parti del mondo nello stesso periodo storico.

Siamo nel 2006, quando effettivamente in Bhutan il re in carica Jigme Singye Wangchuck abdica a favore del figlio Jigme Khesar Namgyal Wangchuck e il regista immagina l’indizione di elezioni politiche, fatto mai successo fino a quel momento. Una novità che va a unirsi all’utilizzo di internet, una forma di modernità sconvolgente, anche in un luogo così lontano dalla nostra realtà. E come tutte le novità che sconvolgono il quotidiano millenario di un popolo, provoca incertezze, insicurezze, paure per un futuro incerto che contrasta con un presente assuefatto, forse non l’eccellenza di uno stile di vita, ma un punto fermo al quale aggrapparsi.

E allora la genialità del regista che emerge dallo spaesamento e dal disagio di quella gente, che non ha mai votato, che non sa come si fa, che non sa se sia un bene o un male, perché quello che non conosci non puoi giudicarlo. Ad arricchire la narrazione scenica, la figura del Lama locale che, davanti a questi sconvolgimenti, incarica un monaco fedele a procurargli due fucili che, a sua detta, gli consentiranno di "rimettere le cose a posto".

Due contraddizioni in parallelo, un popolo che non riesce a rinunciare a quel potere monarchico e teme quella "libertà" decantata come democrazia dal mondo occidentale, una figura mistica e guida spirituale che, da una dottrina di pace e meditazione quale può essere il Buddhismo, stravolge il nobile pensiero del Buddha con una richiesta che ha l’amaro sapore della violenza.

La svolta è l’arrivo di un mercante d’armi, statunitense per eccellenza, che prova ad acquistare un antico fucile risalente alla guerra di Secessione americana. Dapprima riesce, con l’aiuto di un locale, a mercanteggiare il prezzo del fucile con un anziano del luogo e si fa accompagnare in una banca per prelevare la somma pattuita. L’anziano, però, dopo la visita del monaco in missione per conto del Lama, regala l’arma ricevendo in cambio un sacchetto di noci. Da qui il titolo originale del film The Monk and the Gun.

Il mercante d’armi, nel tentativo di recuperare il fucile, promette al monaco buddhista di procurargli i due fucili richiesti dal Lama. La brochure con le foto del campionario balistico che consulterà il monaco per scegliere i fucili, è una delle trovate più sarcastiche del regista. La scelta del monaco ricadrà su due kalashnikov, dietro la quale qualsiasi congettura è plausibile.

Dal nostro punto di vista, senza ovviamente anticipare il finale del film, l’apice del sarcasmo dal retrogusto realistico e amaro, il regista lo raggiunge quando l’accompagnatore del mercante d’armi americano, nel tentativo di convincere il monaco ad accettare lo scambio, pronuncerà la frase ironica "Quest’uomo viene dagli Stati Uniti, il Paese di Lincoln e di Kennedy". Una garanzia di fiducia. Dipende dai punti di vista, ovviamente...


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