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Bruno Pizzul, un artista svizzero e l’infinito struggimento di una notte spagnola

Allo stadio Dall’ara di Bologna l’artista e performer Massimo Furlan mette in scena la finale dei mondiali dell’82. Special guest: Bruno Pizzul, che abbiamo intervistato.

di Ivan Carozzi - mercoledì 27 luglio 2005 - 9992 letture

Mercoledì 20 Luglio 2005, Bologna. Fa più caldo che sul pianeta Marte. Mai così caldo da centoventicinque anni, secondo alcuni giornali. Gli automobilisti imbottigliati nel traffico sudano e perdono peso, i passanti setacciano l’ombra dei portici, i coni gelato si sciolgono fra le dita dei bambini, un’orchestrina romena improvvisa un refrigerante concerto sotto il chiosco di un bar. Scene da canicola urbana che non c’entrano niente col fatto che oggi sono trascorsi ventitre anni e nove giorni da Italia-Germania, la finale di calcio dei campionati mondiali dell’82.

Ma stasera, allo stadio Dall’ara, accadrà qualcosa che ci riporterà indietro nel tempo, infileremo un cunicolo spazio-temporale che ci restituirà la calda emozione di quella notte al Bernabeu di Madrid. Nello stadio bolognese andrà infatti in scena ‘Furlan/Numero 23’, una struggente performance ideata e interpretata dall’artista italo-svizzero Massimo Furlan. Si tratta della ricostruzione astratta e stilizzata di un sogno infantile, uno di quei sogni intrepidi che galleggiano a mezz’aria sopra gli album delle figurine. Un sogno finalmente realizzato, oppure, di nuovo, fatalmente mancato. Furlan tenterà di ri/giocare la mitica finale del Bernabeu, ma non nelle proprie fantasie o nel cortile di casa. Stavolta lo farà in un campo da calcio vero e proprio. Così Furlan vestirà la maglia azzurra numero 23, mentre dalla tribuna stampa Bruno Pizzul (proprio lui) commenterà un deja vù lungo novanta minuti. Lo farà non guardando quanto si svolge sul campo da gioco, ma tenendo gli occhi su di un monitor dove scorrono le immagini della vera Italia-Germania. Gli spettatori, sistemati nella sola gradinata, lo ascolteranno per mezzo delle radioline portatili distribuite all’ingresso dello stadio al prezzo di cinque Euro.

Nessuno sa esattamente che cosa accadrà, in che cosa consisterà questo esperimento sulla memoria collettiva. La gente intanto arriva allo stadio piuttosto numerosa. Una volta seduti ci si sintonizza sulle frequenze di Radio Città del Capo, l’emittente che ha organizzato la diretta. Si aspetta il collegamento con Pizzul e nell’attesa vengono trasmesse alcune canzoni dell’epoca, filologicamente ineccepibili. Men at Work, il Michael Jackson di ‘Thriller’, il Cocciante di ‘Celeste Nostalgia’ e i Gazebo di ‘I Like Schopin’. Tutte indimenticabili hit dell’estate ’82.

Alle 21 in punto ecco che dagli altoparlanti irrompe la registrazione del tifo, con tanto di cori e trombe da stadio, ed ecco che entra in campo Furlan, eroicamente e desolatamente solo. Come da copione partono gli inni nazionali e Furlan si dispone di spalle alla gradinata, così che non è dato vedere se stia cantando, oppure se stia serrando le labbra o se le muova a casaccio. Il pubblico sta al gioco e si alza in piedi, qualcuno mette la mano sul cuore, mentre sulle note dell’altro inno, quello della Germania Ovest, partono bordate di fischi e sberleffi. Il calcio d’inizio lo batte Furlan, anzi: ‘il giovane diciassettenne Furlan, messo in campo a sorpresa da Bearzot’, come ci tiene a sottolineare Pizzul.

La finale mondiale è cominciata, ma c’è un particolare: il terreno di gioco è deserto. In mezzo al verde tosato, oltre al numero 23 Furlan, c’è soltanto una sedia da ufficio collocata sul limite dell’aria di rigore e la classica bottiglia d’acqua appena oltre la linea laterale. Non c’è neppure il pallone. Una messa in scena davvero ascetica. Come si usa dire nelle cronache sportive, Furlan non toccherà palla per tutta la partita. Eppure corre lungo la fascia, si dà un gran da fare, scivola in tackle, osserva l’azione da centrocampo con la schiena dritta e lo sguardo panoramico di un Gaetano Scirea. Prende anche un sacco di botte. Gli avversari, come furie invisibili, si accaniscono su caviglie e polpacci, e lui cade a terra e proprio come nelle partite vere chiede l’intervento dell’arbitro sventolando il braccio per aria. Più di una volta rovina contro a quella sedia, solitaria e totemica, posta sul limite dell’aria di rigore. Una sedia che sembrerebbe fare le veci dell’arcigno centrale Ulrich Stielike. Furlan ha anche qualche occasione da gol, ci va vicinissimo, ma poi sciupa tutto. Quando l’arbitro Coelho assegna un rigore agli azzurri, è lui che si precipita sul dischetto, anche se alla fine spunta un immaginario Cabrini che lo dissuade dal batterlo. ‘Beh, lascia stare, magari la prossima volta’, ironizza Pizzul, facendosi interprete del pensiero di Cabrini e compagni. Non è Furlan che deve battere il rigore, infatti, perchè il sogno, per sua stessa natura, non può che mancare la realtà.

Ma sogno e realtà, fiction e cronaca, possono mescolarsi in vario modo. Anche in modi che non erano stati previsti. Così accade che Pizzul commetta uno di quegli errori che alla RAI non gli avrebbero mai perdonato. Il gol di Paolo Rossi, infatti, arriva un po’ troppo presto, al decimo minuto del primo tempo, anziché al decimo del secondo tempo. Così il vecchio telecronista si accorge di avere sbagliato cassetta, ma rimedia con mestiere, si scusa con gli spettatori, con il suo consueto aplomb, e alla fine infila una frase che lascia affascinati e di stucco: ‘Può accadere di tutto. Ci troviamo dentro ad un sogno già sognato’. Doppiate la frase con il timbro di voce e l’impostazione di Pizzul e guardate che effetto vi fa. E la partita va avanti, per il resto dei novanta minuti, senza altri incidenti.

Fra il pubblico parte qualche ola, ma l’attenzione, com’è inevitabile, si disperde. E’ dura tenere gli occhi puntati su di un uomo che corre e scalpita lungo un prato per novanta minuti, un uomo che si aggira fra sciami di fantasmi in pantaloncini e scarpette da pallone. Così, tenendo un orecchio alla radio, la gente prende a chiacchierare del più e del meno, degli anni ’80 e di Pertini, mentre si attende il momento dei gol di Rossi, Tardelli, Altobelli. Tre tuffi al cuore. Quando segna la Germania, qualcuno dice che si mette male, dice che ora i tedeschi ci rimontano e pareggiano. Nella teoria cinematografica più pura questa cosa la chiamerebbero sospensione dell’incredulità. Ci avviamo verso l’89’, il sogno sta per finire. Pizzul annuncia che Bearzot, a sorpresa, ha richiamato in panchina Furlan, per far spazio al vecchio barone Causio.

Furlan, dalle parti del centrocampo, sembra non approvare la scelta del commissario tecnico con la pipa. Mette le mani sui fianchi e punta lo sguardo a terra. Poi i riflettori dello stadio si spengono, e appare una porta luminosa a bordo campo, da cui si proietta una sorta di abbagliante corridoio di luce che raggiunge il centrocampo. Un cunicolo temporale? Furlan si avvia, mesto, a testa bassa, verso quella porta luminosa, che come in Stargate lo ricondurrà dal dorato 1982 al complesso e penoso 2005, alla sua realtà di quarantenne che un giorno, tanto tempo fa, avrebbe voluto essere al Bernabeu e sollevare quella bellissima Coppa del Mondo. L’ultimo minuto si gioca al buio. C’è solo la voce da merlo indiano di Pizzul a illuminare lo spazio e a rievocare il barbaglio di luce del Bernabeu e la gioiosa figura canuta, d’azzurro vestita, del presidente Pertini.

Finisce in un grande applauso e poi il pubblico sfila all’uscita, sotto lo sguardo di un nutrito schieramento di polizia, come nelle partite vere. Prima della chiusura Furlan è andato a raccogliere il saluto della gradinata. Dietro di lui, come Sancho Panza con Don Chisciotte, il grande Bruno Pizzul, in maniche di camicia, al quale abbiamo rivolto qualche breve domanda.

Pizzul, questa volta ci ha spiazzati. Qual è stata la sua prima reazione quando Furlan le ha proposto il progetto?

In realtà, prima di telefonarmi, mi aveva mandato in ambasciata Tillmann (il numero uno dei telecronisti svizzeri che ha prestato la sua voce per il ‘Furlan/Numero 23’ di Losanna). Comunque, detta per telefono, non avevo nemmeno capito bene di che cosa si trattasse. Poi, visto che il ragazzo era pieno di entusiasmo e di buona volontà, ho detto che via, gli do una mano...Non abbiamo neppure lavorato molto alla preparazione dello spettacolo. Forse in futuro si potrebbe costruire meglio se riuscissimo a recuperare l’audio originale del Bernabeu. L’effetto sarebbe ancora più suggestivo. Tra l’altro Furlan è bravissimo, anche in queste condizioni particolari, a seguire l’azione e a materializzarsi nelle fasi salienti del gioco.

Che ricordo conserva di Italia-Germania?

La partita la vidi da tifoso, davanti al televisore. Avevo seguito la semifinale di Siviglia, i miei impegni erano finiti e avevo chiesto alla RAI di lasciarmi tornare in Italia, visto che ero davvero stanco. I miei capi mi risposero che avrei fatto meglio ad andare a Madrid, nell’eventualità che a Martellini fosse venuto un croccolone o roba del genere. Ma io non ne volli sapere. Ero stanchissimo e non vedevo l’ora di tornarmene a casa. Al di là della partita, che naturalmente ricordo con gioia, mi è rimasto impresso che negli aeroporti incontravo Italiani che se ne andavano in Spagna e non facevano che dirmi ‘Ma dove vai, Pizzul? Dove vai?’

Ultima domanda. Lei, come Nando Martellini, Carlo Nesti ed altri, venite da una scuola ben precisa. Il vostro stile è composto, sobrio, molto RAI, se mi passa l’espressione. Successivamente all’esplosione mediatica del calcio, anche la retorica della telecronaca è cambiata. E’ diventata più adrenalinica, pirotecnica. Che cosa ne pensa di questa evoluzione?

La telecronaca di oggi è senz’altro più urlata e sopra le righe rispetto a quella di un tempo. Credo che sia una conseguenza del fatto che è soprattutto il linguaggio delle immagini ad essere diventato più complesso e frammentato. Ne deriva che anche la conduzione, per reggere il passo delle immagini, debba diventare più veloce e frenetica.


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