Brevi note sulla scuola a uso dei giornalisti
Catania. Lo stadio Cibali il 2 febbraio, in piena festa di Sant’Agata, e la morte di Filippo Raciti.
La città reagisce. “I tragici avvenimenti di venerdì 2 febbraio sono l’ultimo e più inquietante segnale del degrado sociale, culturale e civile di Catania”. Si apre così l’appello alla “Catania democratica e civile” per un’assemblea cittadina il 9 febbraio a Piazza Spedini.
“L’imbarbarimento della società catanese pone energicamente la “questione democratica” nella nostra città; cultura e senso di solidarietà hanno lasciato il posto a egoismo sociale e violenza. E’ necessario che la città s’interroghi sui fenomeni che hanno in questi ultimi anni distrutto ogni forma di civile convivenza”
Di questa assemblea, e dei suoi sviluppi, poco si sa attraverso il giornale locale, “La Sicilia".
No, non è la città, non è il potere economico, politico e religioso, che l’hanno ridotta in questo stato, a interrogarsi e ad essere interrogata dal giornale. No, troppo difficile. La scuola, ecco, i professori, l’ultima ruota del carro, sono i colpevoli del disagio dei giovani, la scuola pubblica in cui professori senza spina dorsale e senza valori fanno finta di lavorare e invece minano col loro relativismo i valori di Dio, Patria, Famiglia tanto cari alla classe dirigente cittadina.
La ghiotta occasione viene data dall’intervento sul giornale di Pietro Barcellona, professore di filosofia del diritto nella facoltà di Giurisprudenza di Catania, a proposito dei fatti del 2 febbraio.
Fra le altre cose nel suo articolo Pietro Barcellona, fra i massimi politologi della sinistra, diceva che “si gioca con la morte quando la vita non vale niente”.
A questo punto il giornale ospita la lettera di alcuni studenti del liceo Spedalieri che, prendendo spunto da questa frase, fanno appello alla scuola e in particolare agli insegnanti, perché trasmettano loro “il senso della vita”, nonché i "Valori" e la "Verità".
Et voilà: il dibattito, come sta accadendo da qualche tempo anche sulla stampa nazionale, diventa un accusa forte e chiara nei confronti della scuola pubblica.
Il problema è che chi ha innescato il dibattito ha già in testa un’idea di scuola e un’idea di città, ed è quella che nasce da una città divisa nettamente in due, “La Catania dei poveri, no-drain no-job no-money, e la Catania visibile, abbastanza simile, dall’esterno, alle altre città italiane. La prima odia e serve la seconda. La seconda ha paura. Vivono entrambe alla giornata, concentrate sul prossimo pasto o sul prossimo appalto” (Riccardo Orioles, Casablanca, aprile 2007)
La Catania che ha paura pensa di trovare nella Chiesa e nelle sue attuali crociate la propria sicurezza, e vuole formare i propri figli nell’intolleranza del diverso (gli omosessuali, gli immigrati, le coppie di fatto), vuole prepararli alla spietatezza del mondo adulto - che conosce bene perché lo ha fatto - armati di una forte identità di classe. Vuole una scuola selettiva, competitiva (ma quando va male vuole avere a disposizione le scuole private, i cosiddetti diplomifici), che continui a sfornare avvocati (che nella Catania che “serve e odia” trovano la loro vasta clientela).
In assenza di un progetto di città e di scuola alternativo, l’ostacolo, per chi ha paura, è rappresentato dalla scuola pubblica, che, pur nella sua disorganizzazione e nell’assenza di strutture adeguate (cronica la ricerca di aule e edifici a ogni inizio di anno scolastico per la totale assenza di programmazione da parte della provincia) rappresenta l’unico spazio di esistenza per i ragazzi, per tutti , senza alcuna distinzione di sesso, razza e religione, come recita la nostra Costituzione.
Solo a scuola i ragazzi sono persone che possono trovare spazi di aggregazione che non siano lo stadio o la parrocchia (luoghi di appartenenza per alcuni e quindi di esclusione per tanti), spazi di vero dialogo oltre alle parole a senso unico strillate in TV .
E’ la scuola a soffrire del degrado della società italiana, sono gli insegnanti che quotidianamente vivono la schizofrenia fra i progetti per la legalità, la pace, le pari opportunità, le lezioni sull’etica e quelle sulla bellezza delle opere d’arte, in un mondo, quello dove i ragazzi vivono il resto del loro tempo, che ignora completamente legalità, bellezza, etica, pace, pari opportunità.
La nostra fatica, la fatica di noi insegnanti, è raddoppiata e aumenta sempre più col passare degli anni, è la fatica di disincrostare le parole e le intelligenze dei nostri alunni dalle banalità e dalle falsità correnti, e quindi è una ricerca di verità, non quella assoluta, rivelata, imposta dall’alto, ma quella che si costruisce nel dialogo, col discorso e le parole, col fare comune. Un agire fatto di intelligenza ma anche di affetti ed emozioni.
La nostra fatica è un ragazzo che si suicida perché i compagni lo additano in maniera sprezzante come omosessuale.
La nostra fatica è leggere il giornale e vedere che ad essere messa sotto accusa è la scuola.
Ma dico, siamo matti? Chi ha invaso la Tv e i giornali negli ultimi mesi di parole di disprezzo contro gli omosessuali? A me risulta che siano state le gerarchie ecclesiastiche e i bei campioni della destra nazionale, con l’appoggio esterno di Clemente Mastella.
Detto questo, però, il dibattito ospitato sulle pagine della Sicilia, che ha visto, dopo l’appello degli studenti, gli interventi di alcuni docenti e la risposta di Pietro Barcellona, rimane un fatto importante e un’occasione da non trascurare per trasformare l’attenzione strumentale e morbosa sulla scuola nell’apertura di un confronto sereno sul tema complesso e vitale dell’educazione.
(vedi segnale di fumo su Apocalisse e postumanesimo e dossier "Quale scuola per quale città")
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Cara Pina, mi dirai, sei fissata con questa storia dei rifiuti, la vuoi infilare dappertutto.... ed invece io voglio un pò giocare con le parole.
Consumare, rifiutare. E’ diventata la dicotomia di un brutto stile di vita. Usa e getta. Fa macho.
La TV riempie i cervelli dei ragazzi di spazzatura. TV spazzatura.
Rifiuti sono o erano anche i malati di mente "i rifiuti della società". Così come gli emarginati, i diversi.
Rifiutarsi di eseguire un compito, un ordine. Per contro credere obbedire combattere.... posizioni dogmatiche del muro contro muro: violente. Contro la dialettica della ragione.
Essere rifiutati: non essere amati, riconosciuti; un attacco all’identità...lo spauracchio di ogni adolescente ed anche aimè di noi adulti checchè se ne dica. Solitudine.
Ri-fiuto... fiutare ancora, che odore, vuoi vedere che sono io, come diceva Gaber in Schampoo.... mi sono fatto tutto di merda.
Bruciare i rifiuti: fare piazza pulita, sul rogo, come nel medioevo con le donne e i dissidenti, odore di carne che brucia. Organico e inorganico, tal quale. Fuoco che purifica, monda... nella morte sacrificale dell’oggetto, un attimo prima reificato dalla pubblicità, acquistato e conservato, poi gettato, voilà, morte termodinamica, spreco.
Abbandonare i rifiuti: non curarsene più, allontanare da sè, ignorare, qualcosa che era in nostro possesso, liberarsene con leggerezza, deresponsabilizzante. Voilà. Vola sacchetto, vola.
Così allontaniamo da noi troppo in fretta, l’oggetto, l’altro, lo usiamo e poi lo gettiamo, così come gli amori, la memoria, i nonni, gli animali, in una allegra mattanza.
I ragazzi sono schegge impazzite, sofferenti.
Differenziamo: accettiamo le differenze. Riconosciamo il valore delle cose, delle persone. Una ad una. L’organico a compostare, nel buio della trasformazione brulica la vita.
Riutilizziamo: non facciamo morire troppo presto la vita, gli oggetti d’amore, le persone, i manu-fatti... la morte quella vera è lì, davvero, ci attende quando meno ce l’aspettiamo.
Recuperiamo: gli oggetti, gli affetti, il tempo.
Conteniamo gli sprechi: conteniamo in un abbraccio i nostri ragazzi. Non sprechiamo le nostre vite.
Grandi gli insegnanti che se li godono, in gruppi, per 5 o più ore al giorno, loro sì li conoscono bene e soffrono nel veder disattesi i loro sforzi. E quando forse di fronte a tanto rifiuto recuperano un lampo di autocoscenza, forse hanno gettato un seme in quel ragazzo che non ha più un dove, un come, un quando.
Ma anche quando la classe insegnante non si riciclerà più allora saranno davvero guai seri.