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Bertrand Russell: l’ateo che credeva nella scienza

Il nemico da abbattere, affinché la libertà possa essere la norma del vivere quotidiano è, per lui, la religione in tutte le sue forme e formule.

di Salvatore A. Bravo - mercoledì 19 febbraio 2025 - 314 letture

Bertrand Russell è uno dei pensatori anglosassoni che rappresentano compiutamente il sistema liberale. Il nemico da abbattere, affinché la libertà possa essere la norma del vivere quotidiano è, per lui, la religione in tutte le sue forme e formule. Non dimentichiamoci, che negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale scrisse pubblicamente ad Hitler invitandolo a trattative di pace. Non ebbe risposta e in seguito, nel 1940, si “pentì” del gesto. Tali errori sono il sintomo di un errore di fondo, ovvero il non aver voluto o potuto identificare il “nemico” da superare. La religione diviene forma di sorveglianza autoritaria con la sua alleanza al potere e lo stesso nazismo non è che il risultato e l’espressione del capitalismo. Il pregiudizio anticomunista e antireligioso furono gli “idola” che lo indussero a patteggiare per il pensiero liberale di sinistra. Fu un socialdemocratico moderato che mai pose in discussione il sistema liberale. Ne riconosceva i limiti, ma secondo il filosofo continentale erano riformabili con una politica liberale e scientista.

Bertrand Russell fu un ateo che “credeva nella scienza”. Dopo la Seconda guerra mondiale fu sostenitore del disarmo nucleare, ma prima dell’appello per il disarmo, nel 1948, non escluse un attacco preventivo all’Unione Sovietica su obiettivi militari. Gli sfuggiva che fu il sistema liberale a usare, per primo, sui civili l’atomica e ad avviare la proliferazione della stessa. Astrasse il pericolo atomico dal sistema, per cui mai mise in discussione in modo radicale il liberalismo. La sua è la storia di un liberale “aristocratico e ribelle nei costumi” insignito del premio nobel per la letteratura nel 1950; egli è oggi uno dei pensatori liberali della sinistra liberale. La religione fu per lui il nemico al punto che ne individuò la genesi nella paura, nell’odio e nella presunzione:

“Nella Chiesa cattolica vige il tipo di ispirazione di cui godettero i profeti; vi si ammette tuttavia che fenomeni apparentemente di pura origine divina, possono venire dal demonio, ed è compito della Chiesa discriminare fra ispirazioni vere e false, proprio come è compito dell’intenditore d’arte distinguere un Leonardo autentico da uno falso. In tal modo la rivelazione viene ad essere soggetta all’istituzione. Retto è ciò che la Chiesa approva, iniquo ciò che essa disapprova. Così, in effetti, il concetto di rettitudine diventa un fattore discriminante tra la gente per bene e quella non per bene ed è fonte di avversioni e di antipatie. I tre impulsi umani alla base della religione sono dunque: paura, presunzione e odio. Si potrebbe dire che scopo della religione è di fornire una vernice di rispettabilità a questi istinti e a queste passioni purché essi si lascino guidare docilmente. Queste passioni, nel loro insieme, portano all’infelicità dell’uomo, e pertanto la religione è una forza del male, poiché permette di indulgere ad esse sia pur sotto il manto della virtù ipocrita, mentre basterebbe una sanzione per reprimerle almeno entro un certo limite. A questo punto, prevedo un’obiezione, degna di essere esaminata: paura e odio sono sempre stati essenziali caratteristiche umane, e il meglio che si può fare, è di indirizzarli in modo che riescano meno dannosi. Il teologo cristiano dirà che il comportamento della Chiesa a questo proposito è analogo a quello riguardante l’istinto sessuale che essa deplora” [1].

La malevolenza turba le buone relazioni, pertanto nella società serpeggia la paura, la causa di tale inquietudine non è mai la proprietà o il conflitto di classe. Il dominio di classe con l’iniqua distribuzione del potere decisionale è abilmente aggirato. Constata la paura crescente nel sistema, ma ancora una volta il sistema capitalistico non è oggetto di analisi. Non cura mai la causa, ma sempre i sintomi:

“Come si può impedire la malevolenza? Per prima cosa cerchiamo di scoprirne le cause, che, secondo me, sono in parte di carattere sociale e in parte di carattere fisiologico. Nel mondo è incessante la lotta per la vita e la morte; durante la grande guerra si trattava di decidere se dovessero morire di stenti e privazioni i bambini dei tedeschi o quelli degli alleati. Se si esclude la malevolenza in entrambe le parti, quale altro motivo c’era perché gli uni e gli altri non dovessero sopravvivere? Molti sono ossessionati dalla paura della rovina, specie se hanno figli. I ricchi temono che i loro beni siano confiscati dai bolscevichi, i poveri temono di perdere l’impiego o la salute. Ognuno è impegnato nella frenetica ricerca della “sicurezza” e si illude di poterla conseguire assoggettando i potenziali nemici. In ogni paese i reazionari fanno appello alla paura: in Inghilterra, alla paura del bolscevismo; in Francia, alla paura della Germania; in Germania, alla paura della Francia. Ma questi appelli alla paura non fanno che accrescere il pericolo” [2].

L’analisi dell’invidia è notevole per la mistificazione, poiché l’invidia sociale ha la sua causa nei miti del capitalismo e nella spietata competizione che attraversa il corpo sociale devastandolo. Buone istituzioni sociali, afferma, potrebbero limitare l’invidia, anche in questo caso non osa affermare che la proprietà privata e la ricchezza strappata con lo sfruttamento sono il motore immobile che tutto governa e stabilisce relazioni fondate sulla “malevolenza invidiosa”. La liberazione dei costumi senza la riforma economico e sociale non porta ad una società migliore ma solo all’edonismo dei ricchi da lui ampiamente testimoniato. Un residuo di invidia è ineliminabile, dunque, ma non osa dire il motivo. Naturalmente, se non si cambia in modo radicale il sistema e si lasciano inalterati, malgrado le riforme che “auspicava”, gli equilibri proprietari, è inevitabile che le “cattive relazioni permangono”:

“La paura, tuttavia, non è l’unica fonte della malevolenza; anche l’invidia e l’insoddisfazione vi hanno la loro parte. È proverbiale, a questo proposito, l’invidia degli storpi e dei gobbi. Anche l’uomo e la donna frustrati sessualmente sono portati all’invidia che si palesa sotto forma di condanna morale contro i più fortunati. I movimenti rivoluzionari sono, in buona parte, dovuti a invidia verso i ricchi. La gelosia è una particolare forma di invidia dell’amore. I vecchi talvolta hanno tendenza a trattare crudelmente i giovani perché spesso ne sentono invidia. Questo difetto si può combattere in una sola maniera, rendendo più felice e più intensa l’esistenza delle persone invidiose e incoraggiando nei giovani piuttosto l’iniziativa collettiva che la competizione. L’invidia peggiore è quella delle persone che non hanno avuto nella vita ciò che desideravano, nel matrimonio, nella discendenza o nella carriera. Questi motivi di insoddisfazione, in molti casi, potrebbero essere evitati con buone istituzioni sociali. Tuttavia, bisogna ammettere che un certo residuo di invidia non è eliminabile” [3].

Per pensare un sistema altro, in modo assoluto rispetto al capitalismo liberale, è necessaria la filosofia con il suo apporto veritativo. Definire la natura umana è massimamente rilevante per poter valutare il sistema capitalistico ed elaborare un sistema conforme alla natura umana. Da filosofo anglosassone diffidò sempre della metafisica e della filosofia che, secondo lui, erano fantasie fuorvianti e inutili. L’empirismo in lui diventava dogmatismo non riconosciuto e come tutti i dogmatici non riconosceva pregiudizi e limiti che ingabbiavano la sua immaginazione cognitiva di classe:

“L’essenza del mio principio è che la realtà, nel costrutto della metafisica, non ha relazione alcuna col mondo dell’esperienza. È qualcosa di vuoto e di astratto, da cui non si può trarre alcuna valida deduzione per il mondo dell’apparenza, per quel mondo, cioè, che racchiude ogni nostro interesse. Anche l’interesse puramente intellettuale, che è alla base della metafisica, è tale nella spiegazione del mondo dell’apparenza. Ma, anziché spiegare veramente questo mondo reale, tangibile e sensibile, la metafisica ne costruisce un altro fondamentalmente diverso, e così poco legato all’esperienza reale, che il mondo di tutti i giorni non ne rimane affatto influenzato, e continua per la sua strada, proprio come se non ci fosse nessun mondo della realtà” [4].

L’avversione contro la verità e la metafisica sono i capisaldi di una implicita “cultura reazionaria” che lo connotava. Liberale fino all’inverosimile nei costumi, oggi diremmo che il suo pensiero fa da sovrastruttura alla struttura economica, associava la rivoluzione a un residuo laicizzato dell’Apocalisse. La rivoluzione come categoria politica ha la sua fonte nel pensiero religioso apocalittico e di conseguenza è “il male”. Alla rivoluzione sostituisce il progresso per “piccoli passi”:

“Un’altra caratteristica della salvezza è che essa tien dietro ad un mutamento catastrofico, come avvenne per la conversione di san Paolo. I poemi di Shelley offrono un esempio di questa teoria della catastrofe salvatrice applicata alle società; giorno verrà in cui ognuno sarà convertito, gli “anarchici” fuggiranno e «la grande età del mondo comincerà di nuovo». Si può obiettare che le idee di un poeta non sono destinate a lasciare traccia negli eventi del mondo. Fatto è che la maggior parte dei capi rivoluzionari ha avuto idee molto simili a quelle di Shelley. Nel loro pensiero, l’infelicità, la crudeltà e la degradazione dell’uomo son tutte cose dovute a tiranni, preti, capitalisti o tedeschi; essi pensavano che distruggendo queste fonti del male si sarebbe verificato un generale mutamento nei cuori e la felicità avrebbe trionfato. In nome di questi princìpi, erano sempre pronti a fare «una guerra per finirne un’altra». I più fortunati fra loro furono gli sconfitti e i caduti; chi ebbe la sfortuna di riuscire vittorioso fu spinto al cinismo e alla disperazione dal crollo delle sue ardenti speranze. L’origine di queste speranze è da ricercare nella dottrina cristiana della catastrofe come prodromo di salvezza. Non voglio dire che le rivoluzioni non siano necessarie, ma è noto che non sono il mezzo più rapido per raggiungere lo scopo. Non ci sono scorciatoie per la vita retta, sia individuale sia sociale. Per attuarla occorre costruire a poco a poco con intelligenza, ponderazione e comprensione. È un problema di calcolo, di graduale progresso, di continuo tirocinio, di diuturni esperimenti. Soltanto l’impazienza fa credere nella possibilità di miglioramenti improvvisi” [5].

La logica dei “piccoli passi” della sinistra liberale è oggi la norma, sono passi impercettibili che nulla cambiano e per occultare il “progresso che non c’è” si usano i diritti civili e “l’edonismo senza cuore e lo specialismo senza intelligenza”.

Senza metafisica e verità nessun progresso civile è possibile, sta a noi riportare la verità razionale dove regna la palude del liberalismo scettico e senza prospettiva.

[1] Bertrand Russell, Perché non sono cristiano?, pag. 23. - È possibile trovare il pdf su FamigliaFideus.it.

[2] Ibidem, pag. 40

[3] Ibidem, pag. 41

[4] Ibidem, pag. 50

[5] Ibidem, pp. 38-39


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