Berlusconi firma il decreto per Berlusconi
Un bel regalo di Natale per Silvio Berlusconi. Il decreto che salva Rete4, proprietà del premier, è stato offerto dal ministro Gasparri, infiocchettato da Gianni Letta in un’affannosa mediazione tecnico-politica con il Quirinale. Il presidente del Consiglio controfirma il suo conflitto di interessi.
Anche se ieri nel Consiglio dei ministri, nei quindici minuti dedicati al decreto «d’urgenza» per salvare una delle sue reti, il padrone di Mediaset è uscito dalla stanza, insieme allo stesso Letta, ed è scivolato nel suo ufficio a Palazzo Chigi. E senza arrossire, governo e maggioranza dicono: non voleva interferire nel suo conflitto di interessi. È toccato al vicepremier Gianfranco Fini (che Costituzione alla mano si era rifiutato di firmarlo) presiedere il Consiglio dei ministri in quel momento.
Il decreto appare a tutta l’opposizione, alla Fnsi e all’Usigrai, come «una truffa», nonostante Gasparri abbia assicurato di aver «risposto al Capo dello Stato e alla Corte».
È una proroga per Rete4 di almeno cinque mesi, uno stop all’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale del novembre 2002 che fissava il 31 dicembre come termine ultimo per l’invio sul satellite di Rete4. Sarà l’Autorità delle Comunicazioni a dover decidere se resta o no una rete eccedente, in base allo sviluppo del digitale terrestre. Un pluralismo virtuale, secondo il meccanismo della Gasparri. Ma nel decreto non è fissata una data entro la quale l’Autorità dovrà dire che tre reti in mano a un solo proprietario sono troppe.
Fatta la legge, trovato l’imbroglio, dice il proverbio. Qui tutto gira intorno ai maggiori poteri per l’Autorità delle Tlc, presieduta da Enzo Cheli (cosa che fa storcere il naso al leghista Calderoli). In questo c’è sì un richiamo alle richieste di Ciampi, ma in modo ambiguo: «Entro il 30 aprile 2004» l’Autorità deve verificare l’offerta dei programmi digitali terrestri. Nei quattro mesi, in riferimento all’attuale legge Maccanico, si permette alle «reti eccedenti» (Rete4) di trasmettere e a una rete Rai di raccogliere pubblicità. L’Autorità deve accertare «la quota di popolazione raggiunta dalle nuove reti digitali terrestri; la presenza sul mercato dei decoder a prezzi accessibili; l’effettiva offerta al pubblico su tali reti anche di programmi diversi da quelli diffusi sulle reti analogiche».
Dopo il 30 aprile l’Autorità ha un mese di tempo per scrivere una relazione al governo e al Parlamento, ma se dovesse accertare che nulla di tutto ciò è avvenuto, «adotta i provvedimenti» della Legge Maccanicoe spedisce Fede in orbita. Non si dice quando. Dov’è il trucco? Sono molti. La copertura del 50% della popolazione con il digitale può essere anche fittizia: per «l’illuminazione» delle povere famiglie basta dare il via a un impianto (che la Rai è stata costretta a predisporre dalla legge Gasparri ancora in aula), anche se nelle case non c’è un decoder. E perché gli italiani dovrebbero comprarlo in tempi di magra, anche con le agevolazioni della Finanziaria? Infine l’offerta dei programmi: non devono essere «in replica simultanea» di quelli trasmessi nelle normali tv analogiche. Possono però essere in differita. Il digitale è virtuale, una scatola vuota, per ora.
La carenza più grave: non è fissato il termine entro il quale l’Autorità deve intervenire: «Sarebbe irrispettoso pensare che Cheli ci metta degli anni...» Eppure spesso è successo. Il ministro Gasparri ieri era di nuovo arzillo, dopo la sberla presa da Ciampi, e a Palazzo Chigi offre ai giornalisti un elenco di 14 decreti salva tv: «Da Pertini a Prodi a D’Alema...noi arriviamo per ultimi». Eppure «che fatica...neppure i Dieci Comandamenti» avrebbero avuto tanti passaggi parlamentari, scherza. Il decreto non è di quelli «a perdere», sarà convertito in legge (potrebbe diventare una «gasparrina» che aggira la sentenza della Corte), mentre le Camere dovranno rivedere la Legge Gasparri quella vera, che la stessa sentenza tende a bypassare.
Certo la legge tornerà in aula il 26 gennaio, «sia pure con riferimento ai rilievi del Capo dello Stato», dice la relazione. Modificherà il Sic?, chiede una cronista nella conferenza stampa: «Ogni giorno ha la sua pena, se ne discuterà in Parlamento...», risponde il ministro. E il conflitto d’interessi? «problemi che rendono appassionante il dibattito».
Nel quarto d’ora dedicato al decreto «salva Fede» il ministro Buttiglione ha provato ad opporsi: l’Udc preferiva la proroga «secca» di due mesi, per poi correggere il testo in Parlamento. Poi si è rassegnato alla ristrettezza di tempi (e all’urgenza di non fare uno sgarbo di Natale al premier, evidentemente). Plaude in coro Forza Italia, mentre An praticamente tace. Dice Gasparri: «Avremmo anche potuto adottare un provvedimento solo con i tempi complementari per Rete4 e RaiTre» (le due righe di proroga secca che il Quirinale ha respinto al mittente), «ma abbiamo scelto di dar un segnale di risposta al messaggio del presidente Ciampi, e si rispetta la sentenza della Corte Costituzionale». Per il ministro «cessa il regime transitorio», quella proroga che la stessa legge Maccanico ha dato alla rete Mediaset e che la Consulta ha definito «illegittima».
Ma il decreto, se non transitorio, sembra permanente: Fede sul satellite non ci andrà mai, è facile prevedere. O meglio, Berlusconi avrà sempre tre reti, se non di più. Gasparri vanta un atto di bon ton istituzionale, in realtà il Quirinale ha voluto che il decreto dicesse di più: ora è soddisfatto perché è legato alla sentenza della Consulta e perché richiama due punti da lui evidenziati: tempi certi per la verifica e poteri di intervento per l’Autorità. Il Capo dello Stato dovrebbe firmare il decreto nei giorni di Natale. Il premier lo siglerà ad occhi chiusi prima di volare alle Bermuda
Natalia Lombardo [L’Unità]
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