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Baldoni e la condanna delle pallottole di carta

Sono passati più di tre anni dal rapimento e dall’uccisione del corrispondente italiano Enzo Baldoni in Iraq; molte le domande rimaste senza risposte, poche le probabilità che i suoi resti rientrino in Italia. La storia di un giornalismo differente e del cronista-volontario.

di Cesare Piccitto - venerdì 25 aprile 2008 - 4189 letture

“BOOOM! proprio sotto al mio naso. Un lampo, uno scoppio, una nuvola di fumo nero” avrebbe scritto così Baldoni. Avrebbe parlato così, ai cronisti accalcati al suo arrivo all’aeroporto di Ciampino, al rientro dall’Iraq. Purtroppo il pezzo che tutti avremmo voluto leggere o ascoltare da lui, non c’è mai stato. Quell’agosto del 2004 apprendemmo, dalla TV Al Jazeera, del rapimento del corrispondente del settimanale “Diario”. Era partito alla fine di luglio per raccontare quella guerra, come reporter e volontario della croce Rossa. Un viaggio per osservare e raccontare, come aveva fatto in passato, guardando attraverso i suoi occhiali. Così ha fatto anche in Iraq.

Stava sempre meno nel comodo hotel Palestine, sempre di più lì dove c’era bisogno che i fatti venissero raccontati; andava lì dove c’era bisogno di volontari. Il giorno precedente al rapimento era talmente impegnato ad organizzare un convoglio della croce rossa a Baghdad per portare cibo e medicine a Najaf, che non ebbe nemmeno il tempo di raccontarcelo sul suo Bloghdad. Si accordò con i ribelli sciiti per una proposta di mediazione da portare in Vaticano al fine di far cessare i bombardamenti; riuscì a portare gli aiuti alla popolazione, ma sulla strada del rientro qualcosa andò storto. La sua auto fu investita dall’esplosione di una bomba posta sul ciglio della strada. L’autista e interprete Ghareeb giustiziato sul posto, Enzo venne sequestrato e poi ucciso, per mano del sedicente “Esercito Islamico in Iraq”.

Su questa vicenda, avvenne però qualcosa di inquietante e senza precedenti. Si diffusero da subito notizie, ufficiali e non, che parlarono di un Baldoni a zonzo per Baghdad nonostante quell’esplosione, sprezzante dei pericoli. Voci false e distorte proseguirono fino a diventare parole scritte, colonne e titoli di giornali. Una su tutte la campagna denigratoria e delegittimante del quotidiano Libero. A pochi giorni dal rapimento arrivò in Italia il primo video dell’ostaggio, lesse le condizioni dettate dai suoi rapitori. L’indomani Libero titolò: “Vacanze intelligenti” a firma dell’allora vice direttore Renato Farina, testuale: «Gli esperti dell’intelligence atlantica hanno molti dubbi su tutta la vicenda. Il volto del prigioniero non rivela contrazioni inevitabili per chi si trovi sull’orlo dell’abisso. Non appaiono intorno all’italiano uomini armati e mascherati. Potrebbe esser una recita». Pochi giorni dopo lo stesso quotidiano, la stessa firma, rincarò la dose: «Non si va alla ventura come facili prede. Poi il prezzo lo pagano persone che non contano niente (l’interprete autista), la propria famiglia, e il governo. Torna Baldoni, e limitati agli aperitivi in piazza San Babila. E in vacanza cogli pesche dell’agriturismo di famiglia». Leggendo, si resta sgomenti. Quando si apprenderà poi che Farina è stato per anni regolarmente pagato dallo stesso Sismi che negoziava per la liberazione di Baldoni, da sgomenti si diventa inquieti.

Proseguendo nella campagna d’odio, ventiquattrore ore dopo l’uccisione, Libero titola: “Il pacifista col kalashnikov” a firma del direttore Vittorio Feltri, testuale: «Scusate cari lettori, più pirla di così è inimmaginabile. Ti guadagni la pagnotta (e non solo quella) ideando e realizzando spottini consumistici per le multinazionali odiate a sangue; le odii al punto di farti fotografare armato con un paio di beduini; poi arriva agosto, le schifose multinazionali (che ti strapagano) ti garantiscono (contrattualmente) lunghe ferie e tu, pistola, vai a trascorrere in Iraq nei panni del samaritano islamico e complice di chi vuole decollarti». Dopo quasi quattro anni quegli articoli possono sembrare insignificanti ma, contestuali al periodo di guerra preventiva e di confusione politica, non lo erano.

Quegli stessi colleghi di Enzo ripetevano, in qualsiasi contesto o ospitata TV, il loro leitmotiv. A quel quotidiano si unirono timidamente altre realtà editoriali, che contribuirono a condannare pubblicamente Baldoni, lasciandolo sempre più solo con il suo boia. Tutti gli altri rapimenti, in quegli stessi mesi, fortunatamente finirono positivamente. Ma per Baldoni andò da subito in maniera differente. E’ mancata per lui una imponente e commovente mobilitazione di tutta la società.

Quel tragico agosto finì con l’esecuzione del cronista italiano. Seguirono tanta finta commozione, speculazioni politiche e una valanga di retorica da ogni parte. Seguiti da altro silenzio: nessuna traccia né notizie su dove fosse finito il cadavere. Vennero alla luce, su un sito internet islamico, solo una macabra foto ritraente il cadavere sfigurato del cronista seguito da un video di dubbia esistenza. Di certo, ci sono dei frammenti ossei, che l’analisi del Dna conferma appartenenti a Enzo.

In una recente intervista Scelli, all’epoca commissario straordinario della Croce Rossa italiana, al microfono di Anna Geronimo per Img Press, ribadisce: «Ho promesso alla famiglia Baldoni di riconsegnare loro quel che resta del corpo di Enzo e non vi ho mai rinunziato». Nell’impossibilità di avere altre rilevanti novità, non ci resta che aggrapparci alla memoria. Ricordare quegli equivoci e quelle ironie feroci di certa stampa italiana senza la quale, forse, avremmo potuto avere un compatta e mobilitata opinione pubblica. A noi, oggi, non resta che custodire il suo unico e grande insegnamento: «Lasciamo che siano i fatti a parlare. Il resto sono chiacchiere e politica, tutte cose da cui voglio tenermi lontano».


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