Attuazione
Un commento di Milena Carone sul senso del termine attuazione a proposito della proposta di legge
Se ha fatto naufragio nella Secca del Pensiero come la mettiamo col mare aperto? L’unico vascello scampato, l’unico in salvo: Semplicità! (Emily Dickinson)
A t t u a z i o n e p e r n o i
Non occorrono spiegazioni per illustrare l’articolato della Proposta Norme di democrazia paritaria per le assemblee elettive. 1
Dal punto di vista della sua comprensione, della sequenza delle frasi e della loro possibilità applicativa, non vi è alcuna necessità di spiegare. Abbiamo formulato un articolato volutamente semplice, talmente semplice che alcune si sono premurate di chiederci se ci fossimo corredate delle opportune consulenze.
Solo una parola vorrei spiegare, come si spiega la vela nel mare aperto, quando c’è finalmente un buono di vento: attuazione. Perché nell’art. 1 scriviamo che quelle norme sono in attuazione dell’art. 51 della Costituzione. 2
Il Diritto, come la Politica, sono semplici. Il Diritto, come la Politica, dovrebbero essere semplici. La contraddizione tra queste due frasi è solo apparente.
Accade alle Costituzioni, dove si enunciano principi, usando verbi affermativi. Uno dei tanti è: tutti i cittadini sono uguali. Nessuno si scandalizzerebbe, di fatto nessuno potrebbe scandalizzarsi se venisse scritto: tutti i cittadini dovrebbero essere uguali. Con parole che non contraddicono, ma dicono di una realtà.
La Costituzione Italiana attende ancora molta attuazione. Certamente, non del solo 51.
Il Diritto, come la Politica, riguardano la vita di tutti noi, e dovrebbero essere semplici. Semplicità non contraddice e non teme la complessità. Purtroppo, ci si è abituati alla complicazione, scambiandola per complessità. La complicazione accade sotto i nostri occhi. Persone umane fanno uso complicato, volutamente complicato, di Diritto e Politica. Dovrebbero essere entrambi semplici. Da troppo tempo sono colpiti da un malanno. Se li potessi personificare, Diritto e Politica - senza distinzione di sesso… - da qualche tempo, li vedo chiusi in uno sgabuzzino a piangere, sconsolati, ripiegati su stessi.
Il Diritto Costituzionale ha subito oltraggi in questi sessantanni, soprattutto negli ultimi anni. È stato violentato senza ritegno. Con la riforma elettorale del dicembre 2005 - una riforma da riformatorio penale - la Costituzione è stata violata almeno 5 volte. La molestia del mancato ossequio dell’art. 51 non è stata la più grave.
Da allora, vedo il Diritto Costituzionale chiuso a singhiozzare. Allorquando poi, uno dei padrini di quella riforma, che mi rifiuto di nominare e di appellare onorevole, l’ha definita da se medesimo porcata, la Politica è corsa a raggiungere il Diritto, a chiudersi a piangere con Lui. Senza distinzione di sesso…
Attuazione. È parola molto usata. A volta abusata. Non manca mai all’inizio di articolati che dicono di se stessi di essere ossequianti della Costituzione o altri Principi Fondamentali. Accade anche a molte norme europee, di questi tempi.
Questo accenno alle norme europee mi obbliga - anzi, mi consente - a fermarmi ancora una volta, per uscire bene dal porto. E spiegare. Anche perché ho citato la riforma di quel dicembre 2005. Tutto il nostro lavoro è stato ispirato da quello di alcune giovani donne. Mi riferisco allo studio delle donne di squotiamola! 3 Non è un ossequio formale, né un blandire e attrarre oggi giovani energie in un progetto che ha radici lontane. È piuttosto una dichiarazione d’amore per lo Studio. 4
Proprio durante l’iter di quella riforma elettorale, a ridosso delle imminenti elezioni del 2006, quelle giovani donne stavano studiando. Il Diritto allo Studio è senza ombra di dubbio la cosa più femminista prodotta dalla legislazione. Femminista perché inconsapevole, per molti. Quelle Donne, dopo aver studiato, quando hanno sentito cosa stava accadendo, quando, alla fine di tutto, hanno letto anche delle lacrime di una Ministra della Repubblica, la stessa Ministra che le aveva mandate a studiare, quelle donne sono insorte. Ed è stato un tam-tam di centinaia di mail per l’Italia intera.
Le norme della nostra Proposta dichiarano di attuare l’art. 51 della Costituzione. Sono norme che non hanno nulla a che fare con le quote, le azioni positive a vantaggio di un sesso svantaggiato. Infine, non sono norme antidiscriminatorie. Sono norme che avremmo pensato anche senza quella riforma del 2003. In ogni caso, noi prendiamo alla lettera, e nella sua propria sostanza, la dizione pari opportunità. E andiamo oltre, sull’eguaglianza.
Noi diciamo che i sessi sono due nel Mondo e nel Diritto. E che la Cittadinanza è duale. Lo diciamo anche grazie agli studi e alle ricerche sul campo effettuate da istituzioni democratiche come quelle europee.
Diciamo che la presenza paritaria di cittadini e cittadine nei contesti decisionali (che per le assemblee elettive è un obiettivo e non un punto di partenza di questa proposta di legge) è una condizione di democrazia.
Se oggi siamo costrette a (se oggi possiamo consentirci di) aggiungere Paritaria è solo per… spiegare, appunto. Spiegare che un articolo come il 51, che nel 1948 parlava già di eguaglianza, oggi può e deve essere riletto, interpretato, attualizzato. Infine, attuato. Per divenire un articolo che consente di promuovere, nel dargli attuazione, la Democrazia paritaria.
Oggi noi possiamo farlo, cioè rileggerlo, interpretarlo, attualizzarlo e chiedere che venga attuato, sulla base di quegli stessi principi di evoluzione e apertura che i Costituenti hanno più e più volte ribadito e propugnato.
Purtroppo alla Costituzione, da troppo tempo, dopo una breve stagione felice, accade più facilmente di essere stravolta che attuata. Stravolta da leggi che dicono di attuarla. E da leggi costituzionali contrabbandate come riforme che rileggono la Costituzione, alla luce dei nostri giorni. Modificandola per attualizzarla.
È quanto accaduto anche alla riforma del Titolo V della Costituzione, nel 2001. 5
Diritto e politica ancora pagano quei guasti, venuti per attualizzare. Questa è l’attualità? No. O almeno, non dovrebbe essere. Il che è lo stesso. O almeno non contraddice, ma dice una realtà.
L’Articolo 51…
ha una vita affascinante e il suo studio ci ha condotto a scoperte inaudite, all’inizio; impreviste, e neanche (o molto poco) prese in considerazione durante l’iter parlamentare che ha condotto alla sua riforma, nel 2003.
Viene approvato dall’Assemblea Costituente, dopo molti travagli e altrettante sedute, in Plenaria nel maggio 1947 con una locuzione che verrà - caso quasi unico - lievemente modificata, poco prima della promulgazione. Sorte analoga ha avuto l’art. 48 sull’elettorato attivo. 6
Modificati certamente dal Comitato dei Diciotto che porta la stesura definitiva ad Enrico De Nicola per la firma, nel dicembre 1947. 7
Le modifiche porteranno ad inserire le seguenti locuzioni, mai prima discusse in aula:
uomini e donne (sostituisce di ambo i sessi approvata il 21 maggio) per l’art. 48; dell’uno o dell’altro sesso (sostituisce di ambo i sessi approvata il 22 maggio) per l’art. 51.
Quei due “di ambo i sessi” avevano visto anche una variante apostrofata: d’ambo i sessi, al termine di molte discussioni e altrettante modifiche, partite da un “senza distinzione di sesso…”
A questo va aggiunto un dato ineliminabile per comprendere il vero “perché” l’articolo 51 è stato concepito e poi partorito in quella forma: era un articolo che parlava di elettorato passivo, sì, e cioè di cariche elettive, ma anche di uffici pubblici. E le due cose viaggiarono distinte, per lungo tempo, nelle sottocommissioni. Senza distinzione di sesso… Per via di quell’articolo, la Costituente ci offre alcune delle sue pagine più interessanti, quando per esempio a Maria Federici toccò il compito di replicare al collega di partito Giovanni Leone, su capacità, idoneità, giorni particolari, biologia, militare, mestruazioni e altro e altro ancora. Sapere questo è determinante per comprendere perché il 51, partorito come un ibrido, è il punto di arrivo di mille travagli di parole su questioni differenti, discusse da persone differenti, in commissioni e sottocommissioni differenti. Sì, è determinante sapere l’origine. Anche per riformare. Soprattutto per attuare.
Si è scoperto anche altro, a proposito di quella locuzione: dell’uno o dell’altro sesso. L’art. 51 ha prodotto una stranezza che ho chiamato lapsus dell’avvenire. Ci siamo cascate in un primo momento anche noi. Ma non conta questo.
È un piccolo malanno venuto per non nuocere - e anzi un bel lapsus dell’avvenire – e che ha preso, nell’ordine (lo ricaviamo, per ora, dalle sole ricerche web) Ministeri, Giuriste, Docenti, Parlamentari e… last but not least, la Corte Costituzionale. Tutti questi soggetti, privati e pubblici, in Documenti ufficiali di Ministeri, in Atti parlamentari, Pareri di Diritto Costituzionale, Pubblicazioni, infine nelle proprie Sentenze, scrivono dell’articolo 51, citando con le virgolette e in alcuni casi spingendosi oltre, argomentando sulla locuzione: dell’uno e dell’altro sesso...
in vece di quella corretta, perché uscita dalla casa di De Nicola a dicembre del 1947:
dell’uno o dell’altro sesso…
Il fatto che ci siamo sbagliate anche noi, in un primo momento, è del tutto irrilevante. Sono compagnie che ci onorano. E questo è solo un pochino più rilevante. Sono compagnie che la dicono lunga, molto lunga, sull’articolo 51, sulla sua interpretazione, sulla sua modifica, infine sulla sua attuazione. E questo sì che è rilevante. In condizioni di eguaglianza...
La riforma del 51
L’articolo 51 non chiedeva, né necessitava, di essere riformato. L’articolo 51 chiedeva solo, come molti altri, di essere attuato. Chiedeva, per usare le efficaci e sintetiche parole di Letizia Gianformaggio, che si prendesse sul serio l’uguaglianza.
Da qualche parte, se non sta piangendo, l’articolo 51 della nostra Costituzione sta certamente sorridendo della sua riforma, nel 2003. Anche perché la stessa Corte Costituzionale – prima di quella riforma - si era pronunciata in un certo modo, innovando la sua interpretazione, vecchia di soli… 8 anni, rispetto alla sentenza del 1995.
Per correttezza, specifichiamo che il riporto virgolettato con quell’errore (dell’uno e dell’altro sesso) è contenuto soltanto nella sentenza n. 422 del 1995. Mentre, in quella del 2003, ciò non accade in quanto la Corte Costituzionale parla sì dell’articolo 51, ma senza più citarlo. Non vogliamo spingerci oltre, rischieremmo l’irriverenza.
Anche perché siamo grate a tutti questi soggetti, privati e istituzionali perché hanno tutti, a modo proprio, incarnato quel lapsus dell’avvenire.
Anche perché il punto dolens, in termini di mancata attuazione dell’art. 51 è ben altro.
Sul fronte parlamentare, l’interpretazione che nel periodo 1995-2003 si è andata affermando riguardo a tutto l’art.51 è stata inchiodata ad una lettura originalista e statica della Costituzione, avallata e aggravata dalla fase politica che in Italia stavamo vivendo.
Mi riferisco ad una condizione politico-parlamentare favorevole ad ogni stravolgimento possibile, ad ogni calpestamento immaginabile in nome di una attualizzazione della nostra Carta, e però (chissà perché) ferma e anzi a gambero rispetto a ciò che pure proveniva dall’Europa, quanto a parità nell’accesso a cariche e uffici pubblici, e che avrebbe autorizzato un’attualizzazione interpretativa ed un’attuazione legislativa conseguente.
È stata avallata una interpretazione al ribasso, appiattita se non inchiodata sul significato “antidiscriminatorio”.
Come davanti ad un ideale bivio, vi erano ragioni giuridiche e storiche che potevano far dire quello che noi ora diciamo che può essere fatto. Invece, hanno prevalso ragioni politiche - o meglio, di parte - per far dire altro, a uomini e donne. Se solo avessero avuto la volontà politica di farlo, alcune menti sarebbero state illuminate anche dallo studio attento di come, nella stessa Costituente, in appena un anno e mezzo dal giugno 1946 al dicembre 1947 ci si era evoluti, nelle parole e nei significati. Anche oggi, chiunque sia (e cioè, chi tra quanti dovrebbero essere) sinceramente affezionata/o alle sorti delle pari opportunità, dovrebbe andare a rileggere le parole di quei resoconti. 8
Le norme subiscono evoluzioni (e a volte involuzioni) sul piano interpretativo, come su quello applicativo. Il Parlamento Italiano nel 2003 ha fatto la sua scelta sull’art. 51. 9
“Tutti i cittadini possono…” come ha acutamente detto e scritto Gianformaggio in quello stesso 2003, “non indica un permesso, ma una capacità”. E quel “possono” indica un potere, non è descrittivo. E andava interpretato come: “tutti i cittadini devono essere messi in condizione di…” Altrimenti, se così non fosse, prosegue argutamente, “se così non venisse intesa, di quella formula - e mi scuso per l’irriverenza - si potrebbe ridere come di quella famosa “Tutti, ricchi e poveri, possono dormire sotto i ponti”. 10
In Parlamento si è voluto fare altro, approvando una riforma che, se non ha prodotto sfaceli sul piano giuridico, ha regredito la Politica tutta. Dando un duro colpo a quella delle Donne. Perché, se è pur vero che la politica istituzionale non esaurisce e non “contiene” tutta la Politica, può, in determinate condizioni, pregiudicarla.
Quella riforma era e si è rivelata un contentino, un regalino per l’8 marzo 2003. Una regalìa tanto inutile quanto ipocrita, perché allegramente ignorata nel 2005, da destra, centro e sinistra. 11
Si sarebbe potuto attuare l’art. 51 e la democrazia paritaria, con una legge ordinaria, che parlasse chiaro e non di quote riservate, senza bisogno di una riforma inutile, e quindi anche solo per questo controproducente, anche sul piano dell’autorevolezza delle proposte. È sempre controproducente tutto ciò che viene per aggiungere parole in una Costituzione che ne contiene già altre, più serie, ampie e pregnanti nel contenuto e nello spirito. Mi riferisco sì al secondo comma dell’art. 3, ma anche all’art. 117 come riformato nel 2001. 12
L’art. 51 lo si sarebbe potuto attuare, anche senza ricorrere ad una legge, come quelle Istituzioni europee auspicavano da tempo. Se solo i Partiti e le donne al loro interno ne avessero fatto proprio fino in fondo il senso giuridico e politico: presenza paritaria, meccanismi di democrazia nella selezione delle candidature. Credendoci fino in fondo. Trattandosi di principi fondamentali. Irrinunciabili. Non svendibili. Non contrattabili. Con le dovute conseguenze.
Si sarebbe potuto, e non s’è fatto. Anzi, da parte di alcune, si è fatto di peggio. Non si è ammesso che si “poteva” solo una certa cosa, per ragioni tutte esterne a sé. No: si sono fatte proprie, sono state abbracciate tutte le premesse “antidiscriminatorie” in un abbraccio rivelatosi mortale, sul piano politico. Arrivando a dire che quella certa cosa si “doveva”, quella certa cosa si “voleva”. Diventando più realiste del re.
Ciò che è accaduto durante il dibattito sulla riforma elettorale del centro-destra non poteva che essere l’esito, sul piano politico, di una scelta, di una valutazione, di uno sguardo che ha radici ben precise, presenti in tutte le formazioni politiche. Senza distinzione di sesso?
Evidentemente, non si trattava (neanche per chi ha pianto su impegno e delusione) di norme così fondamentali. Non me ne voglia Prestigiacomo, non infierisco su di lei per via delle lacrime, ma perché appena un giorno dopo si è piegata (come quasi tutte del resto) alla logica di schieramento, assicurando che Forza Italia avrebbe comunque avuto un occhio di riguardo per le donne in lista. Un occhio di riguardo.
Lo Sguardo poteva - e oggi deve - essere un Altro.
Se si volesse leggere questa nostra Proposta come una forzatura nel principio formale di uguaglianza, lo sarebbe anche, ma non in nome di un sesso svantaggiato da avvantaggiare. Lo sarebbe in nome della Democrazia, da rendere compiuta in nome della Cittadinanza duale.
Il fatto è che, per noi, la cittadinanza duale è l’uguaglianza, contiene e comprende la differenza – che è precondizione giuridica, ricordiamolo. 13
L’uguaglianza – presa sul serio – contiene la differenza e rifonda la democrazia. Paritaria in fondo è solo un aggettivo, è solo un buono di vento giunto a spiegare le vele di Uguaglianza e Democrazia. Due vele che finora sono state ripiegate e strapazzate in qualche hangar illuminista prima e guerrafondaio poi. Patendo destino pressoché uguale a quello di Diritto e Politica. E ancora soffrono, Uguaglianza e Democrazia, tremendamente, nel mondo.
La pace non esiste senza democrazia, la democrazia non vive senza le donne. Lo scrivevamo in un documento Udi del 2001, in un Tempo prima colpito e poi reso cieco. Oggi pensiamo che questa Proposta, nella sua lungimiranza, possa avere respiro e risuono anche fuori dei nostri confini.
Alcune note a margine delle riforme in corso d’opera
In sede istituzionale, si è nuovamente alle prese con riforme elettorali. E con un referendum sul capo. Con tutta probabilità, non ci si limiterà alla sola materia elettorale. Assisteremo ad un’altra, questa volta anche più corposa, riforma costituzionale. Sul piano del Diritto.
Nel frattempo, sul piano della Politica, la si monopolizza e immiserisce nelle polemiche sul “chi è il leader”, da una parte, e sul come mettere a frutto i risultati delle amministrative, dall’altra.
La nostra Proposta è stata meditata, studiata e discussa. Chi pensa che non sia possibile raggiungere un obiettivo di democrazia paritaria, non deve per questo sentirsi in obbligo di tacciare le nostre parole di “stranezza”, con istituzionale sussiego.
Noi comprendiamo il travaglio di alcuni parlamentari, uomini e donne. Ma nessuno deve abusare del proprio ruolo.
Soprattutto, nessuna deve sentirsi obbligata a diventare più realista del re, inventando svantaggio e aiuto, tutele e tempi, parole e parole su asili che non ci sono. Ci sarà anche del vero, anzi c’è sicuramente. Ma noi tutte e tutti sappiamo che non è questo il punto. E sappiamo perché siamo a questo punto.
Se finora non si è raggiunta, né – purtroppo – imboccata la strada giusta per raggiungere la Democrazia paritaria, è perché pervicacemente e sistematicamente si è praticato un “vantaggio” a favore di alcuni/e contro le ragioni di altri/e.
Attraverso un metodo sistematico che ha livelli di perfezionamento da fare invidia all’ingegneria genetica.
Che ha escogitato i meccanismi più biechi e ambigui di occupazione del potere, per grandi, medi e piccoli, a destra, centro e sinistra.
Con un metodo di cooptazione dei cosiddetti giovani che stride con la passione, la voglia di protagonismo e la capacità di molte cittadine (come del resto anche di alcuni cittadini, ma diremmo… a ciascuno il suo!) di partecipare alla vita democratica, dando il proprio contributo.
Un sistema - infine - cui non è estraneo un certo modo di gestire le Pari Opportunità.
Anche Europa, e da molto molto più tempo, parla di pari opportunità. La piega antidiscriminatoria che le pari opportunità italiane hanno preso negli ultimi anni ha un che di preoccupante, sul piano giuridico, ma ancor più su quello politico. Molti principi posti a base di alcune tutele, dalle quote alle azioni positive generalizzate sono stati “tradotti all’italiana” per non cambiare nulla, nella sostanza: inventando istituti, garanti, commissioni, comitati che si sono rivelati solo l’inglobamento di energie in un sistema “ad hoc”. E promuovendo una mole tale di convegni e carte patinate da disboscare da sola una buona parte di Amazzonia.
A svantaggio dell’autorevolezza, che infatti non c’è stata e pure poteva esserci, nella stessa “questione quote”. Gli ordini di partito, a destra e a manca, sono stati fatti propri.
Le ragioni degli schieramenti hanno prevalso e annientato perfino quel lievissimo accenno di trasversalità (parola che pure noi non amiamo, vedi doc. chiamata alla compromissione 04.05.07) che in altre occasioni aveva visto in qualche modo le parlamentari protagoniste, a partire da sé.
E ancora una volta, la forma è sostanza. Non era tanto la questione delle “quote” in sé a dare fastidio, a chiunque. Era per il modo in cui veniva gestita.
La Democrazia paritaria avrebbe avuto vita più facile se in alcune/i non viaggiasse il malsano pensiero che le quote avrebbero consentito (e/o domani consentiranno) almeno a loro stesse/i di mantenere un qualche posto da qualche parte.
Bisognerebbe avere il coraggio civico di dire e ribadire che queste sono le condizioni in cui ci si dibatte e “solo questo si può e non altro”. Invece di arrivare a dire che “questo è quello che si deve, questo è quello che si vuole”.
Italia non è il Ruanda, e meno male. Infatti nessuno chiede garanzie in termini di quote di elette.
Ma, per noi, è pur vero che le quote nelle candidature, anche le quote del 50%, prodotte così, in ambito antidiscriminatorio, e a “tempo mirato”, non danno autorevolezza a nessuna, non consentono di incidere, spostare equilibri. In una parola: fare Politica.
Il treno delle pari opportunità in Italia è giunto al capolinea. E di più. Ha prodotto qualcosa di buono, ma è andato troppo oltre. Ha deragliato nei fraintendimenti. Lo diciamo con la stessa lungimiranza di allora – ed eravamo in solitudine oltre che invisibili – quando assistemmo perplesse alla sua baldanzosa partenza.
Tutte le sigle, le appartenenze, tutti i circoli e le rappresentanze, anche le più insospettabili e snob, hanno preso posto su quel treno. Oggi, non poteva che diventare quello che è diventato: un carrozzone tirato a lucido e patinato, ma pur sempre un carrozzone che procura alla Democrazia paritaria molti più danni dei vantaggi che - onestamente e in buona fede – qualcuna pensa di procurare.
E’ lo sguardo che deve cambiare. E può cambiare, anche quando “si fa pari opportunità”.
Occorre “squotare” e scuotere la politica e magari – cito a memoria e non me ne vorrà Vania Chiurlotto, che come sempre al mio sguardo, con poche lapidarie parole è giunta al cuore del problema – avere il coraggio di “provare ad essere meno signore”. Meno politicamente corrette, di tanto in tanto. Occorre combattere il privilegio, tutti i privilegi, denunciare chi si appropria - di fatto - di un vantaggio e lo tiene stretto con tutti i mezzi parlamentari e non parlamentari a disposizione.
Sì, occorre scuotere le coscienze tutte, piuttosto che cullarsi sulle piccole tutele di uno svantaggio, su quella sorta di appannaggio per le diversamente abili.
Forse si rischierà (come pure abbiamo già scritto) il ridicolo? Forse, ma non è detto.
Noi sapremo trovare le parole per dire a donne e uomini che non parliamo di quote, che non siamo una lobby, e nemmeno prese dalla smania di andare a Bruxelles, come nella vicina circoscrizione. Anzi, il fatto che noi, nell’accostarci alla questione, lo abbiamo fatto con animo sgombro da “spasmi ed ansie” su come fare per aumentare la presenza femminile nelle assemblee elettive, è cosa che ha giovato alla serenità dello studio e ai suoi risultati.
Altre ed altri si occuperanno di altro. Dei collegi deboli, come della vita nei partiti. E tutti insieme di quella che ormai, con termine stantio, tutti chiamiamo questione culturale.
Piuttosto, nell’Anno Europeo delle Pari Opportunità per Tutti, mi chiedo:
Viste alcune premesse sulle derive dell’uso delle norme antidiscriminatorie, Visto che un Dipartimento ha visto la scomparsa, nella sua titolazione, delle parole “donne e uomini”, Visto che, col tempo, in Italia siamo giunte al Dipartimento dei Diritti e per le Pari Opportunità, Visto che alcune competenze sono state via via allargate fino a ricomprendere la tutela per la non discriminazione razziale ed etnica,
dobbiamo consolarci del fatto che l’art. 51 della Costituzione (contrariamente all’art. 3) parli solo di sessi? Oppure è ipotizzabile, tra qualche tempo e di questo passo, una proposta politicamente corretta che introduca una riforma costituzionale per arrivare ad avere quote di candidature in ragione di razza, lingua, religione, e magari perché no, in omaggio ad una pratica in voga, anche in ragione delle scelte sessuali, da ricomprendersi nelle costituzionalissime condizioni personali e sociali dell’articolo 3 secondo comma?
La questione, se può far sorridere, non è affatto peregrina. Dovrebbe far riflettere su cosa comporta utilizzare la Costituzione in un certo modo, invece che in un altro. La questione è stata già posta, in maniera meno scherzosa e più autorevole, da giuristi e giuriste.
Devo spiegare meglio sul punto, a proposito di razze ed etnie. Chi sa del nostro percorso, sa che nel 2003 abbiamo deciso anche di cambiare il nostro glorioso nome da Unione Donne Italiane in Unione Donne in Italia. Quindi, sa anche quanto per noi la questione del “chi è donna in Italia” sia cruciale. E non c’è proprio nulla da scherzare.
Il punto è un altro. Ha a che fare con gli obiettivi di una sapiente regia, neanche tanto occulta, che tende, scientificamente e praticamente, ad occultare la differenza sessuale costitutiva della cittadinanza duale, accanto alle tante altre differenze, alle tante altre disparità. Ai tanti …senza distinzione di cui parla l’art. 3.
Ma le donne fanno parte di tutte le maggioranze, di tutte le minoranze, di tutte le razze, di tutte le etnie. Oggi, anche per questo, noi diciamo: Cittadinanza duale.
Infine, non apprezzo affatto lo sport qualunquistico che porta molte a pronunciare: quelle che stanno là non mi rappresentano. L’ho sentito dire troppe volte. Non condivido né la forma né la sostanza.
Anche per questo noi parliamo di Presenza paritaria. Perché nel bene e nel male, sulle pochissime donne parlamentari si appuntano gli sguardi, la misoginia, le aspettative, l’invidia, il desiderio mai sopito per alcune di “rappresentanza femminile”. Desiderio che, lo abbiamo detto e ridetto, non ci appartiene. Il tutto, mescolato insieme, produce miscele esplosive e cortocircuiti nei rapporti.
Anche per questo noi diciamo Presenza paritaria. Per svincolare le poche che vanno - in stridente contrapposizione alle tante che votano evidentemente altro e poi si lamentano - dalle ansie da rappresentanza, così come noi tutte da quelle di rappresentazione.
2 giugno 2007 Milena Carone
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