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Aspettando Godot: la strage di Via D’Amelio e i mandanti occulti

Quanto emerge dalle pagine vergate dai magistrati nisseni è solo l’ulteriore conferma di un problema politico e morale che pare irrisolvibile in questo Paese

di francoplat - mercoledì 12 aprile 2023 - 1639 letture

«La strage di Via D’Amelio è stata una strage di Stato, una delle tante stragi di Stato perpetrate nel nostro disgraziato paese da Portella della Ginestra in poi, l’Agenda Rossa è stata sottratta da uomini che vestivano la divisa di questo Stato e non da mani di uomini della mafia, il depistaggio è stato messo in atto da uomini dello Stato».

Parla, anzi scrive Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, sulle pagine de “Il Fatto Quotidiano”, giovedì 6 aprile scorso, cioè il giorno dopo che il Tribunale di Caltanissetta deposita le motivazioni della sentenza del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio. I giudici della Corte nissena, in sostanza, hanno spiegato in un documento di circa 1500 pagine le ragioni per le quali, il 12 luglio 2022, avevano considerato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei e assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo, tre poliziotti su cui gravava il sospetto di calunnia aggravata in merito alle indagini sulla morte del magistrato palermitano. Va precisato che l’accusa era di calunnia aggravata e non di depistaggio in quanto tale fattispecie penale è stata introdotta in seguito, con la legge n. 133 dell’11 luglio 2016.

Quanto emerge dalle pagine vergate dai magistrati nisseni è solo l’ulteriore conferma di un problema politico e morale che pare irrisolvibile in questo Paese, quello della reiterata, insistita tendenza e della costante tentazione da parte di una galassia di gruppi di potere – occulto e non – di scardinare l’ordine liberal-democratico della Repubblica sorta all’indomani del ventennio fascista e della guerra di liberazione. Non a caso, Salvatore Borsellino, in un articolo denso di grumi amari e rabbiosi, ma ancora tenaci e volitivi, contro chi vuole deliberatamente impedire che questa verità affiori nettamente, evoca Portella della Ginestra, strage così lontana, nel tempo, e così vicina nello scenario nebuloso che l’avvicina ad altri fatti di sangue impuniti e sconcertanti. A questi fatti, con il corollario delle ombre spesse che l’avvolgono, appartiene la vicenda di Paolo Borsellino e della sua scorta.

Come può un lettore medio, mediamente interessato al passato del suo Paese e mediamente dotato di un certo senso civico, non sentir salire la carogna ( si perdoni l’espressione grezza) quando, a distanza di oltre trent’anni dai fatti, legge ciò che ha imparato da avvenimenti precedenti, dai falliti tentativi di colpo di Stato, dalla strategia della tensione – che si prolunga sino alla strage di Bologna, secondo una recente sentenza del tribunale romagnolo –, dalla stagione corleonese, dallo stesso lungo sviluppo del fenomeno mafioso? Quando legge, cioè, seguendo alla lettera le motivazioni sopra citate, che «la ricostruzione del passato è stata spesso manipolata al fine di fornire una interpretazione dei fatti che è funzionale alla tutela di interessi non alti, ma altri rispetto alla ricostruzione autentica di tanti eventi cruciali e cupi degli ultimi decenni di storia del nostro Paese».

Interessi altri e non alti, scrivono i giudici. È di per sé interessante questa precisazione, alla quale si possono associare, in sede di breve analisi, altri cavilli lessicali e concettuali che, nel complesso, indicano una posizione ondivaga da parte dei magistrati, ossia la necessità di sottolineare, nero su bianco, che le indagini e l’iter processuale relativi alla vicenda di Via D’Amelio sono stati imprecisi e non per caso, appunto funzionali a interessi estranei a Cosa nostra, e, al contempo, quelle pagine paiono dire, in sintesi, “purtroppo, data la distanza temporale dai fatti, non è più possibile raggiungere una verità giudiziaria accettabile”. Non si trova questa frase tra le pagine della motivazione, è quanto vi legge chi scrive ed è quanto ribadisce Salvatore Borsellino: «oggi, dopo trent’anni di lotta, di verità nascoste e di giustizia negata, non posso accontentarmi di una sentenza che enuncia le colpe di uno Stato complice e depistatore, ma senza indicarne i colpevoli ed evidenziano anzi le difficoltà, a trent’anni di distanza, di poterli individuare».

Siamo alle solite. Qualcuno è colpevole, qualcuno, come si è detto, estraneo alle mafie, eppure chi sia questo qualcuno, è impossibile saperlo. Perché? Di un «clima di diffusa omertà istituzionale» parlano i giudici nisseni a proposito dell’inchiesta sulla morte di Borsellino e la sua scorta: silenzi, reticenze, “non ricordo” – 121 sono stati quelli di Maurizio Zerilli, poliziotto del Gruppo Falcone e Borsellino, davanti ai magistrati – verità enunciate e poi ritratte – quelle di Vincenzo Scarantino, l’ex falso pentito – oppure, ancora, le tante versioni in perenne contraddizione tra loro fornite da Giuseppe Ayala sull’intera vicenda e sulla sparizione dell’agenda, in particolare. E, poi, la figura dell’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, che guidava le indagini. Secondo i giudici, il funzionario in questione «pose consapevolmente in essere una lunga serie di forzature, abusi e condotte certamente dotate di rilevanza penale», ma, precisano successivamente, ciò «non consente di ritenere che La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta». Dunque? Dunque, un «anello intermedio della catena», che avrebbe riconsegnato la borsa del giudice – sottratta dall’auto da Giovanni Arcangioli – alla famiglia dopo mesi, lasciando un importante reperto «a decantare su un divano» e contribuendo allo «sviamento investigativo delle prime indagini».

Quando si parla di cavilli e zone d’ombra della motivazione presentata alcuni giorni fa, si fa riferimento proprio a questo. La Barbera non avrebbe agevolato la mafia impedendo di scorgere le convergenze di quest’ultima con soggetti o gruppi di potere – altri, non alti, s’intende – ma avrebbe contribuito a sviare le prime indagini, spesso quelle più importanti, impedendo così di comprendere se e quali convergenze ci fossero. Un colpo al cerchio e uno alla botte, come ribadisce un passaggio quasi fatalista del documento in questione concernente ancora La Barbera, l’anello intermedio della catena: «sarebbe stato importante poter risalire quella catena per poter apprendere appieno scopi e obiettivi dell’attività di cui si discute». Sarebbe stato, ergo non è più possibile.

Riassumendo, l’analisi del Tribunale di Caltanissetta giunge a queste conclusioni, peraltro tutt’altro che nuove: la strage di Via D’Amelio non sarebbe stata compiuta per opera dei soli mafiosi, prova ne è tanto la sparizione dell’Agenda rossa quanto la presenza, riferita dal pentito Gaspare Spatuzza, di una persona estranea a Cosa nostra al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo; presenza anomala e misteriosa di un soggetto non legato alla consorteria criminale siciliana che «si spiega solo alla luce dell’appartenenza istituzionale del soggetto». Senza Spatuzza, va osservato, non ci sarebbe stato probabilmente alcun processo sul depistaggio. Per quanto riguarda l’agenda rossa, la riflessione dei giudici è inequivocabile: a farla sparire non sono state mani mafiose, «a meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine», e quindi si tratta di qualcuno appartenente alle istituzioni, che avrebbe agito in tal modo «per alterare il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via D’Amelio».

Eppure, la convinta e ricca argomentazione a favore della tesi di una strage ordita da menti diverse da quelle dei Corleonesi sotto di sé presenta il vuoto, se alle ombre di contorno si cerca di far indossare dei panni definiti e precisi, degli statuti identitari. Gli uomini in nero, verrebbe da dire, come quelli della serie fumettistica di Martin Mystère – il “detective dell’impossibile”, personaggio creato da Alfredo Castelli per la casa editrice Bonelli – una sorta di setta plurisecolare con l’obiettivo di evitare che vengano svelate scoperte che potrebbero turbare l’ordine precostituito. Incrociare alcune delle osservazioni del documento firmato dal Tribunale di Caltanissetta, fa davvero venire in mente fantasmagorie complottistiche, figure misteriose e inquietanti, grandi burattinai che manovrano nell’ombra coscienze e comportamenti, restando celati, discosti, lontani dagli anelli intermedi della catena, ai quali quello stesso documento riserva un giudizio, in fondo, caustico: foglie mosse dal vento.

E poiché il vento non è imputabile, perché per sua natura sfuggente e invisibile, al popolo italiano non colluso con questa tragedia perpetua che è la strozzatura della vita libera in un paese democratico non resta che accogliere questa verità vergata per categorie generali, astratte, prive di identità. Salvatore Borsellino, dal canto suo, non intende restare a guardare, ad aspettare che il vento venga imputato in un processo, non intende accontentarsi di una sentenza che, «pur riconoscendo le complicità dello Stato, dice che è passato troppo tempo per poter indagare (…) Non possiamo accettarlo, in nome di quell’Agenda Rossa, per la Verità e per la Giustizia, continueremo a combattere, e fino all’ultimo giorno della nostra vita».

Aspettiamo Godot, allora, o i Tartari del deserto di Buzzati, aspettiamo una verità storica che si sovrapponga a quella giudiziaria e, in parte, la sconfessi precisandola, quando meno stringente sarà la necessità di capire cosa sia accaduto e cosa stia ancora accadendo, quando non sarà più importante per nessuno capire chi abbia orientato le cosche mafiose, perché la saldatura tra queste e gli “uomini in nero” sarà tale da rendere indistinguibili questi e quelle o perché le mafie avranno dismesso il loro servizio permanente effettivo perché non più funzionali a chi loro concede fiato e ossigeno per vivere. Per il momento, dobbiamo accontentarci di un sapere parziale che non accontenta, perché dentro chi si sente offeso da questi oltraggi alla giustizia suona chiara e distinta la consapevolezza che una parte dello Stato è intrisa di criminale volontà di sopraffazione delle libertà comuni in nome di interessi personali e di parte. Anche questo si legge, in fondo, nel documento nisseno.


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