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Anzianità sociale

Il miraggio della pensione di anzianità prova a far proporre nuove soluzioni da parte del governo. Intanto, si è già trovata la scappatoia.

di Redazione Lavoro - mercoledì 3 giugno 2015 - 3744 letture

Attraverso le pagine del nostro giornale, abbiamo appreso e, in certi casi, abbiamo trasmesso ai nostri lettori, le contorte normative sulla previdenza italiana, oggetto delle più recenti e delle future campagne elettorali dei vari schieramenti politici. Di recente, una commossa ministra Fornero aveva dato quello che, ingenuamente ipotizzato, potesse essere identificato come il colpo di grazia alla nostalgica forma di pensionamento, passata agli annali con il nome di pensione d’anzianità.

L’attributo "anzianità" conteneva intrinsecamente, quella nota di rispettosa e nostalgica idea di meritato riposo, frutto di un sostanzioso e congruo numero di anni di lavoro, come riconoscimento imprescindibile al quale sembrava impensabile poter rinunciare. La storica riforma Fornero, che conteneva l’art. 24 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, archiviato come il "Salva Italia" di turno, come spesso capita, aveva trovato tutti d’accordo nell’essere recepita e lo stesso decreto finì per essere convertito nella legge 214 del 22 dicembre di quell’anno.

La Fornero non fece tutto da sola e la manovra pensionistica non aveva previsto soltanto il "salva vita", ma grazie anche alla collaborazione dell’allora nominato presidente del consiglio Monti, furono apportate sostanziali modifiche alle precedenti riforme che, già qualche anno prima, avevano fatto intuire la graduale scomparsa di questa tipologia di pensione.

Si iniziò a cambiarle il nome, passando ad un meno invasivo "pensione anticipata". Una modifica che risultò subito in contrasto con il provvedimento cardine di quella riforma: l’innalzamento del limite di anni di anzianità lavorativa, che passò da 40 a 41 anni e 1 mese (donne) e a 42 anni e 1 mese (uomini), con decorrenza dal 1° gennaio 2012. Non paghi, però, del risultato ottenuto, i due legislatori pensarono bene di accostare alla riforma una personalizzazione all’elegante concetto della "speranza di vita", in base alla quale, ai 3 mesi già previsti per l’anno 2013, ne fu aggiunto un altro, ed uno ulteriore per il 2014.

Non vogliamo soffermarci sulle altre sfumature che la riforma contiene, sapendo che rischieremmo di ingarbugliare le già confuse idee dei nostri lettori su questa materia. Accenniamo soltanto alla recente vicenda che ha riguardato il blocco dell’adeguamento all’inflazione per gli anni 2012 e 2013 per le pensioni che nel 2011 avevano un importo lordo superiore a 1.402 euro. Un accorgimento che, per dovere di cronaca, la Corte Costituzionale ha giudicato con due opposti metri di giudizio, in tempi diversi, ma tra loro molto ravvicinati. Il primo il 20 gennaio 2015, con la dichiarazione di inammissibilità del referendum abrogativo presentato dalla Lega Nord; il secondo, il 30 aprile scorso, quando la Corte Costituzionale, sentenziò che il succitato D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 era "incostituzionale".

Intanto, mentre la "speranza di vita" sta evolvendo con il passare degli anni - dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2015, ha raggiunto i 41 anni e 6 mesi (donne) e i 42 anni e 6 mesi (uomini) - uno dei problemi che si è presentato agli aspiranti pensionati italiani, è stato quello di come, da un lato rassegnarsi all’idea dell’impossibilità di poter collezionare oltre quaranta anni di vita lavorativa e, dall’altro, "sperare" di sopravvivere fino a 63 anni e 9 mesi (donne) e 66 anni e 3 mesi (uomini) per ambire a conseguire la pensione di vecchiaia, che ha mantenuto il requisito minimo di 20 anni di contributi. Questi ultimi due requisiti anagrafici, in presenza di lavoro autonomo, si innalzano a 64 anni e 9 mesi (donne) e rimangono invariati per gli uomini, per consentire la parificazione tra i due sessi e tra le tipologie di lavoro, che si completerà dal 1° gennaio 2019, con 66 anni e 7 mesi per tutti (salvo ulteriori adeguamenti dettati dalla speranza di vita).

La creatività e l’imperfezione della normativa che regola i rapporti tra cittadini e lo stato, ancora una volta, è venuta a soccorrere le anziane e gli anziani italiani, in odor di pensione. La soluzione era lì, sotto gli occhi di tutti. Utilizzata a più riprese, in base alle proprie caratteristiche economico-sociali. Fonte delle più spregiudicate campagne elettorali anti-straniero. Ritoccata e attualizzata alle esigenze di una società, ormai ben addentrata nel terzo millennio. Banale ma sufficientemente atta allo scopo. Stiamo parlando, ovviamente, della soluzione alternativa dell’Assegno Sociale.

Ma cos’è l’Assegno Sociale? Una breve descrizione consultabile sul sito dell’Inps recita: "L’assegno sociale è una prestazione economica, erogata a domanda, in favore dei cittadini che si trovano in condizioni economiche particolarmente disagiate con redditi non superiori alle soglie previste annualmente dalla legge. Ha sostituito, a decorrere dal 1° gennaio 1996, la pensione sociale. Il diritto alla prestazione è accertato in base al reddito personale per i cittadini non coniugati e in base al reddito cumulato con quello del coniuge, per i cittadini coniugati".

Un’analisi più approfondita rivela che per ottenere l’assegno nel 2015, è necessario avere i seguenti requisiti:

• 65 anni e 3 mesi di età; • stato di bisogno economico; • cittadinanza italiana; • per i cittadini stranieri comunitari: iscrizione all’ufficio anagrafe del comune di residenza; • per i cittadini extracomunitari: titolarità del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (ex carta di soggiorno); • residenza effettiva, stabile e continuativa per almeno 10 anni nel territorio nazionale.

Tralasciano il requisito anagrafico, che accosta l’A.S. alle problematiche sopra descritte sulle pensioni a contributi, sugli altri requisiti è bene precisare:

- il limite di reddito per il 2015 è di 5.830,76 euro (singolo) e di 11.661,52 (coniugato); precisiamo che l’importo annuo si determina per differenza tra il limite massimo e il reddito posseduto;
- la cittadinanza italiana è un problema esclusivo per i cittadini extracomunitari che, per perfezionarlo, devono dimostrare di aver soggiornato in Italia regolarmente da almeno 5 anni, possedere un reddito annuo non inferiore all’assegno sociale stesso e aver superato un test di conoscenza della lingua italiana;
- la residenza effettiva e continuativa per almeno 10 anni costituisce, senza dubbio, l’intenzione del legislatore di limitare ulteriormente l’accesso a questa forma di assistenza da parte del cittadino straniero.

Possiamo aggiungere che l’importo mensile dell’A.S. è di 448,52 euro per tredici mensilità; importo che può essere maggiorato di 12,91 euro (sotto i 70 anni di età) e di 20,75 euro (oltre i 70). Altra cosa da non sottovalutare: non prevede nessuna forma di tassazione, né partecipa alla formazione dell’imponibile annuo ai fini fiscali. In buona sostanza, una sorta di regalia statale esentasse.

La facilità di accesso a questo forma di assistenzialismo, in modo particolare per le cittadine e i cittadini italiani, rappresenta davvero l’uovo di Colombo da porre in contrasto alle riforme pensionistiche già vissute, e che nel futuro prossimo, andremo a confrontarci. Le testate giornalistiche si sono occupate diverse volte del fenomeno delle separazioni consensuali, quando uno dei due coniugi richiedenti possedeva un reddito che escludeva il diritto alla prestazione. Un’altra furbata è rappresentata dal lavoratore autonomo (commerciante/artigiano), che alla soglia del compimento del requisito anagrafico, cede la propria attività agli eredi per ritrovarsi l’anno successivo a reddito zero, quindi con facoltà di presentare regolare domanda.

Rimane una dubbia, quantomeno bizzarra considerazione: ma se gli ex aspiranti percettori di pensioni di vecchiaia e anzianità hanno la possibilità di vedersi liquidato l’assegno sociale, sul quale non è prevista tassazione, da cosa è rappresentato il risparmio economico-sociale rispetto a una pensione scaturita da anni di contribuzione versata?


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