Anarchia

La vita selvaggia, il soggetto nomade

di Alberto Giovanni Biuso - domenica 14 gennaio 2007 - 6876 letture

«Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza. Però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni»; così De Andrè in Storia di un impiegato. Il potere è l’ordine che ci viene impartito, è la spina conficcata nelle nostre vite e dalla quale cerchiamo di liberarci trasmettendo l’ordine all’altro, come ha intuito Elias Canetti. Il potere è una delle prove più evidenti della difettività e della finitudine umana. Nondimeno, esso rimane forse una dolorosa necessità. A chi, però, affidare questo compito triste?

Opporsi –e basta- al potere rischia di far rimanere nella logica di quella che Serge Latouche ha definito “megamacchina”, diventando parte dello spettacolo, nutrimento per l’apparenza che costituisce gran parte di ciò che oggi è chiamato “politica”. “Metapolitica” vuol dire invece che «le parole più silenziose sono quelle che portano la tempesta. Pensieri che incedono con passi di colomba, guidano il mondo» (F. Nietzsche). Non è la struttura sociale a generare le idee ma, alla lunga, sono le idee a produrre la struttura sociale. Il trionfo della megamacchina non avviene nel momento in cui domina la pura forza della dittatura ma quando viene meno la consapevolezza che viviamo in una gabbia, cioè quando la gabbia diventa talmente perfetta, quando ognuno si rispecchia così compiutamente in essa, da dare l’impressione dello spazio aperto. Pensare significa cercare di capire quali sono le dimensioni, la consistenza e la solidità delle sbarre e, quindi, tentare di trovare una chiave che le apra, una potenza che le distrugga. Concretamente questo vuol dire, ad esempio, che il lavoro culturale o la relazione sociale possono essere vissuti come luoghi in cui non solo mostrare le crepe del potere stesso ma anche cominciare a vivere facendo a meno di esso.

Liberalismo e socialismo si presentano ormai come le uniche prospettive politiche e sociali legittimate a stare sull’agone delle idee, nella pratica dell’amministrazione quotidiana, nei sentieri delle speranze umane. Con una prevalenza sempre più netta del liberalismo, sostenuto dalla più grande potenza del pianeta e dai suoi alleati, al quale sembra far da contraltare critico ciò che rimane di un grande fuoco –l’idea comunista- nella forma di una cenere socialdemocratica, “moderata” e riformista. Ma Proudhon e Bakunin avevano già compreso che il socialismo senza libertà sarebbe stata la peggior forma di tirannide e «il capitalismo è più capace del socialismo di realizzare l’unità del pianeta. L’umanità diventa necessariamente unica quando si trasforma in mercato» (A. De Benoist). A fondamento di queste due posizioni stanno principi identici ed è tale eguaglianza dei principi a rendere liberalismo e socialismo l’espressione del Pensiero unico della contemporaneità, un Pensiero che -nel silenzio delle minoranze e nel fragore dello spettacolo- domina il presente e sul quale non tramonta mai il sole. Ma nulla è valido sino alla perfezione, durevole fino all’immobilità, giusto sino all’assoluto. E la purezza razziale del nazionalsocialismo, l’eguaglianza economica del comunismo, la libertà delle democrazie dei bombardieri, ignorando questo limite contengono tutte il germe del totalitarismo, nazionalsocialista, comunista o liberale che sia.

Al di là di tali forme l’identità molteplice della persona, che è sempre in divenire e sempre sull’orlo dell’altro, conduce alla dissoluzione della «gabbia d’acciaio» (M. Weber), della burocratizzazione tipica delle società contemporanee nelle quali il singolo deve continuamente dimostrare chi è, che cosa fa, a cosa serve, a chi è utile. Simili forme sociali sono messe in crisi dalla singolarità della vita selvaggia e nomade, che si sa tale e che, quindi, si affida alla complessità, alla sua capacità di pensare e di inventare forme. Il soggetto nietzscheano è questa vita selvaggia, non il soggetto del dominio, non il soggetto politico in senso classico -di destra, di sinistra, democratico, liberale…- ma un soggetto totalmente “impolitico” che tuttavia diventa il luogo stesso in cui una collettività, una società, assume consapevolezza di sé.

«Noi vogliamo per tutti pane, libertà, amore, scienza» scrisse Errico Malatesta ne Il programma anarchico e durante uno sciopero del 1912 uno striscione delle operaie tessili di Lawrence recitava: «Le anime come i corpi possono morire di fame: dateci pane ma dateci anche rose!». Il pane dell’economia è indispensabile ma è poca cosa per la nostra sete di felicità ed è necessaria la rosa del significato. «Vivre libre, ou mourir» è parte di tale gioia.

www.biuso.it


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Anarchia
14 gennaio 2007, di : Freigeist

Bellissimo articolo :-)

Interessantissimo soprattutto il nesso felicità-rosa del significato.

    Anarchia
    16 gennaio 2007, di : Pietro

    Illuminante il discorso di Biuso sulla pervasività del potere e sul ruolo, che definirei "politico" del soggetto "impolitico" di cui parla. Ci sarebbe, però, anche da chiedersi perchè ci facciamo ingabbiare così volentieri nelle spire del potere, e nel chiedermelo non posso non richiamare alla mente l’analisi, per me fondamentale, di Erich Fromm in "Fuga dalla libertà." Pietro Spalla, Palermo
Anarchia
21 gennaio 2007

Il Fascismo, inteso come PENSIERO prima che AZIONE, e’ l’unica forma di governo in cui mi riconosco.
    Anarchia
    22 gennaio 2007, di : Freigeist

    embè??? che c’entra il fascismo con l’anarchia(che non è nè una forma di pensiero nè una forma di azione, ma una vera e propria nietzscheana "temperie spirituale", un modo d’essere, una tra le tante, infinite possibilità che si prospettano all’individuo che giunge ad un elevato livello di cultura e consapevolezza, ossia al soggetto nomade)?