Amélie Nothomb, Biografia della fame

Intervista di Monica Capuani (L’Espresso) ad Amèlie Nothomb.

di Pina La Villa - martedì 3 maggio 2005 - 32198 letture

Il doloroso mondo di Amélie Nothomb

A un mese dall’uscita in Italia del suo ultimo romanzo ’Biografia della fame’, la scrittrice si racconta. L’infanzia felice, l’adolescenza devastante, l’anoressia e il salvifico approdo alla letteratura

di Monica Capuani, l’espresso

Il fenomeno Amélie Nothomb non cessa di stupire. A 37 anni, come se fosse perfettamente normale, dà alle stampe un’autobiografia dal titolo eloquente di Biografia della fame. Parodiando Flaubert, scrive "La fame, sono io" e mai affermazione fu più veritiera. Nothomb ha fame di cibi, d’amore, di emozioni forti, di libri, di esperienze, di paesi. Figlia di un diplomatico belga, nasce a Kobe, in Giappone, e ogni tre anni cambia paese, a seconda delle destinazioni stabilite dal ministero degli Esteri belga. Pechino, New York, poi il Bangladesh, la Birmania, il Laos. A Bruxelles mette piede solo a 17 anni e la trova un posto stranissimo. In Francia, Amélie Nothomb è una star, famosa per la sua bizzarria, adorata dal pubblico che il 1° settembre di ogni anno, quando puntualmente esce il nuovo romanzo, rinnova con lei un patto di assoluta fedeltà. 13 libri tradotti in 37 lingue, Nothomb ha venduto nel mondo 6 milioni di copie. Biografia della fame (uscito il mese scorso in Italia presso la casa editrice Voland) non ha fatto eccezione: in Francia, il libro che l’autrice alludendo alle sue peregrinazioni ha definito un’"autogeografia", è schizzato subito in testa alle classifiche. Forse anche perché è il suo libro più sincero, quello in cui racconta in maniera più diretta l’anoressia, l’alcolismo infantile, la potomania, la sindrome da spaesamento, l’infanzia gioiosa, l’adolescenza devastante e l’approdo confortante della letteratura.

Per la prima volta in Biografia della fame lei parla della sua anoressia in maniera diretta... In Dizionario dei nomi propri ero riuscita ad affrontare quel tema per la prima volta, narrando però la storia di un’altra donna, Robert. Io ho sofferto di anoressia dai tredici ai diciassette anni. E’ una malattia in cui scivoli senza accorgertene. Quando finalmente acquisti coscienza, credi che sarà un’esperienza. Ma non è così. Perché la sensazione che segue è che non ne uscirai mai. E’ una prigione in cui si muore. Cerchi i mezzi intellettuali per liberartene, ma non vedi alcuna via d’uscita. E’ spaventoso. La mia guarigione è stata un miracolo. Un giorno il mio corpo ha detto no e si è ribellato alla testa. E’ cominciata una lotta che è durata anni. L’unica via d’uscita logica dall’anoressia è la morte, quindi è difficile dire a un’anoressica come salvarsi. L’anoressia dipende spesso dalle madri, che sognano figlie come esseri leggiadri, che sfiorano appena il suolo. Mi scrivono tante ragazze, dicendo: "Peso 42 chili e mia madre continua a dire che sono enorme". Non è molto, ma io ho salvato una vita con una lettera. Ho scritto a una ragazza che quando ero in fondo a quel tunnel, avevo desiderato che qualcuno mi giurasse che si poteva guarire. Io l’ho giurato a lei: "Mi chiamo Amélie Nothomb, e sono la prova vivente che quella malattia devastante si può sconfiggere".

Come è cominciato quel calvario per Amélie Nothomb? A 13 anni ho cominciato a dimagrire. A 15 pesavo trentadue chili e l’idea di ingrassare cinque grammi mi disgustava a morte. Il cibo è l’incarnazione del male nelle fantasie di un’anoressica e preferisci la morte piuttosto che far entrare il male dentro di te. Capisci che è un rischio, perché hai un’estrema lucidità. Ti trasformi in uno scheletro, ti cadono i capelli a ciocche, hai dolori abominevoli a tutte le ossa, non ti tieni in piedi. Nello stesso tempo hai una forza sovrumana perché ti senti una creatura divina, che non ha più bisogno della materia. Poi, però, ti accorgi che non sei più niente, svuotata di ogni energia vitale. E allora, se non vuoi morire, ti chiedi: "Come farò ad accettare l’idea di mangiare, di riprendere peso?". Questa patologia, di pari passo con la bulimia che è la gemella, si aggrava sempre più tra gli adolescenti. Il sintomo più evidente dell’anoressia è il godimento nella sofferenza. Si hanno dolori tremendi, a volte anch’io li ho ancora perché, anche se sono guarita completamente, la malattia mi ha decalcificata. In quel martirio, ricordo una forma di fierezza. Quando contemplavo il mio corpo scheletrico di 32 chili allo specchio, mi dicevo: "E’ la mia opera d’arte". Masochismo allo stato puro.

Lei ce l’ha fatta, però...Sì, ma a che prezzo... Il periodo peggiore sono stati gli anni in cui mi sono dovuta riabituare a essere una persona fisicamente più o meno normale, che si nutre tutti i giorni senza vergognarsi. Ne sono uscita davvero a ventun anni, quando ho cominciato a scrivere. Ancora oggi non mangio come tutti gli altri, ma lo faccio con gioia, senza sentirmi in colpa. Faccio un pasto al giorno, la sera. Un’alimentazione del tutto anarchica, la mia, a base di cioccolato bianco e banane quasi sfatte.

Com’era Amélie Nothomb bambina? Ero insaziabile, divoravo tutto: la conoscenza, il cioccolato bianco, la matematica, che mi esaltava perché in pochi secondi riuscivo a moltiplicare cifre enormi. Ero superdotata, la scuola fino a 12 anni era troppo facile. Solo in educazione fisica ero una frana. I compagni di classe mi idolatravano, perché i professori di un’orribile scuola d’élite a New York dicevano che ero un modello da imitare e l’infanzia, si sa, è conformista. Ogni ragazzina sognava di essere la mia compagna di banco. A New York ho vissuto anni da imperatrice. Da adolescente, sono stata tragicamente rifiutata, come un paria. Un’infanzia da favola e un’adolescenza da incubo. Ho avuto la sensazione netta della fine dell’infanzia, è stata una caduta mistica da un universo di pienezza, potere e strapotenza. All’improvviso, a 12 anni e mezzo, lo status di divinità mi è stato violentemente strappato. Come se l’infanzia fosse un processo di costruzione, che l’adolescenza deve poi decostruire. Forse l’età adulta è una sintesi hegeliana di quelle due fasi antitetiche.

Dove viveva all’epoca? In Bangladesh, un paese in cui la morte era sotto gli occhi di tutti. La distruzione che avveniva dentro di me si rispecchiava nel paesaggio al di fuori. Mi piaceva la gente, poverissima ma di un’intelligenza vigile e profonda, che moriva per eccesso di popolazione. Ho vissuto lì tre anni, poi ci siamo trasferiti in Birmania, un paese diversissimo. Meno popolato, paesaggio meraviglioso, ma morto, assolutamente fermo nel tempo, di una grande miseria politica. Dopo tre anni, il Laos, dove non c’era quasi nessuno, non accadeva nulla. La colonizzazione vietnamita impediva qualsiasi diritto ai laotiani, gente straordinaria e raffinata. Si aveva l’impressione che tutti vivessero sotto l’effetto dell’oppio.

Quando è finita la sua adolescenza? A 21 anni, quando sono tornata in Giappone. La vita è tornata vivibile. E anche l’episodio di mobbing nell’azienda nipponica che racconto in Stupore e tremori è stato un’esperienza che mi ha aiutata a crescere.

Pensa che un’infanzia traumatica lasci un segno, al di là della memoria che ne rimane?Se in Metafisica dei tubi sono riuscita a ricostruire con un processo di scrittura quasi ipnotica il mio passato da 0 a 3 anni, credo che tutti in sé abbiano impressa a lettere di fuoco la loro storia nei primi anni di vita. Soprattutto se dolorosa.

Qual è il suo primo ricordo drammatico? La notizia, appresa a 2 anni e mezzo, che non avremmo vissuto per sempre in Giappone. I miei genitori mi spiegarono che non era il nostro paese e che un giorno lo avremmo lasciato. Fu uno shock. E fu lì che decisi che non avrei dimenticato più nulla, per conservare dentro di me quel paese adorato. Quell’esercizio mi ha regalato una memoria eccezionale.

Una sua passione? Bere una bottiglia di champagne e camminare per Parigi la notte con il naso all’insù, guardando le stelle.

E il cioccolato, naturalmente, come racconta in Metafisica dei tubi e in Biografia della fame?Be’, ancora oggi è alla base della mia alimentazione. Devo la sua conoscenza a mia nonna, che me ne portò una tavoletta in Giappone dal Belgio quando avevo due anni e mezzo. Fu la scoperta del piacere. Bisogna frequentare gente così nella vita, gente che ci inizia ai piaceri. Io procedo per accumulazione nel piacere. Non ho mai rinunciato al cioccolato bianco, ma vi ho aggiunto altre delizie. Recentemente ho scoperto i tartufi neri. Favolosi! La mia ultima scoperta. Ora non vedo l’ora di assaggiare quelli bianchi.

Quello che si dice di lei dipinge un personaggio di un’eccentricità quasi incredibile. Lei come si giudica? Quello che dicono è tutto vero. Quanto a me, trovo che vivere sia estremamente difficile e mi sembra un miracolo riuscire a rimanere in vita, un giorno dopo l’altro. Se in più dovessi anche sforzarmi di farlo all’interno della normalità... Non vivo come voglio, ma come posso, e questo è già una conquista formidabile. Forse la mia esistenza assume forme bizzarre, ma se si scava un po’ più in profondità c’è un’umanità che è quella di tutti. Il mio successo ne è testimone: al di là della mia apparente stramberia, molta gente si riconosce in me.

http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/index.jsp?m1s=hp


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Amélie Nothomb, Biografia della fame
1 agosto 2008, di : In pericolo di vita

Un mio amico mi ha detto che il libro Péplum non è altro che la trascrizione di chat che Amélie faceva sul Minitel, collegato all’italiano Videotel, molti anni fa. Questi chat li ha fatti con lui e ci sono tracce di queste conversazioni anche in molti altri libri della Nothomb. Ma il caso di Péplum è clamoroso. In pratica lei ha memorizzato tutti questi chat "colti" e li usa per scrivere i suoi romanzi. Ha talento, ma molte idee non sono sue. Persino "Rinri", protagonista del suo ultimo libro, non è altro che uno "pseudo" utilizzato sempre dal solito italiano che chattava con lei.