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Altri Confini. Il PCI contro l’europeismo

Altri confini : Il PCI contro l’europeismo (1941-1957) / Luca Cangemi ; prefazione di Giorgio Cremaschi. - Roma : DeriveApprodi, 2019. - 106, [VI], br. ; 21 cm. - (Ricerca). - ISBN 978-88-6548-278-0.

di Giovanni Di Benedetto - mercoledì 4 settembre 2019 - 2899 letture

Il momento storico che attraversiamo oggi in Europa è segnato da una fase di regressione economica, politica e sociale che appare, a tutta prima, inarrestabile. È una congiuntura recessiva che non investe soltanto le determinanti economiche ma che si configura nel complesso come una vera e propria crisi di civiltà. Gli squilibri e gli scompensi sono tali da provocare un profondo disagio in larghe fasce della società e allo smarrimento, alla depressione e alla solitudine individualistica non sembra si possa rispondere se non reiterando le solite ricette a base di austerità e i soliti luoghi comuni sull’impossibilità di trascendere, anche solo col pensiero, i dogmi del mercato e del capitale: trovare il modo di elaborare nuovi paradigmi e nuove concezioni del mondo sembra essere diventato impossibile, di modo che risulta essere sempre più arduo avanzare proposte che possano evocare una potenziale fuoriuscita da una tale condizione di stallo. Di fronte ad essa anche la sinistra appare incapace di proporre un modello altro di società, in grado di prefigurare un orizzonte teorico e uno scenario economico vagamente alternativi. Come se dalla presunta ineluttabilità delle politiche di austerità dovessero seguire soltanto obbedienza individuale e rassegnazione sociale.

In questo contesto si colloca la ricerca di Luca Cangemi che ha scritto un bel libro intitolato Altri Confini. Il PCI contro l’europeismo (1941-1957) edito da DeriveApprodi (Roma, 2019). Il testo tratta della posizione assunta dal PCI di Togliatti negli anni ’40 e negli anni ’50 del secolo scorso, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, dalla divulgazione del manifesto di Ventotène ai trattati di Roma che istituiscono la Cee il 25 marzo 1957, con la firma dei trattati istitutivi della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) e della Comunità economica europea (Cee) e con l’obiettivo di arrivare a un mercato comune (Mec). Vale la pena di ricordare, innanzitutto, come le radici culturali del federalismo di Altiero Spinelli, che ambiva a spostare il livello della sovranità dagli Stati nazionali a uno Stato europeo, affondino nella cultura liberale e einaudiana, con un forte pregiudizio nei confronti di tutte le forze organizzate della sinistra. Ma Spinelli, inizialmente, non riesce a egemonizzare il discorso politico. Piuttosto, il quadro storico risulta dominato dalle tensioni crescenti della guerra fredda e del piano Marshall, ed anche segnato in modo formidabile dalle lotte anticoloniali contro Francia, Olanda e Belgio. Significativamente, Cangemi ricorda come processo di integrazione europea e stagione di lotta vigorosa dei grandi movimenti di liberazione anticoloniale procedano parallelamente.

Cangemi sostiene che con il piano Marshall la natura del progetto europeista viene piegata, nell’Europa occidentale, agli interessi e alle strategie degli Stati Uniti d’America, orientati risolutamente in senso antisovietico e responsabili, quindi, dell’acuirsi della logica dei blocchi. La scelta atlantica risulta in tal modo complementare e indisgiungibile dall’impianto, la cui matrice economica sarà risolutamente liberista, che prefigura l’integrazione europea. Si trattava di un processo di vera e propria “ristrutturazione monopolistica che unificava, al più alto livello, i maggiori centri capitalistici” e che “avrebbe colpito in modo devastante le economie dei paesi più deboli e in particolare quella dell’Italia, provocando un abbassamento dei livelli occupazionali e del tenore di vita degli strati popolari, rendendo impossibile una via autonoma allo sviluppo sociale ed economico e, in definitiva, svuotando la stessa indipendenza nazionale. Alla subordinazione di settori chiave dell’economia e un «super governo che non sarà emanazione di alcuna assemblea elettiva» e sarebbe stato strumento degli interessi forti dei paesi più sviluppati e dei gruppi monopolistici dominanti, viene contrapposta dalla sinistra una linea economica ispirata al produttivismo e alla protezione dell’economia nazionale, in specie dei suoi settori più deboli.”(68).

La valutazione da parte del Partito comunista italiano del processo di integrazione che si sarebbe istituito con il mercato comune europeo è complessa e attenta a non appiattirsi su formule vecchie e stantìe. Essa coglie prontamente l’accelerazione prodotta dal progetto del mercato comune ma è lungimirante nella capacità di inscriverla dentro un organico tentativo di ristrutturazione capitalistica di segno reazionario. Di fronte a tutto ciò “Togliatti indica risolutamente come elementi ispiratori della politica del Partito «gli interessi della classe operaia e del popolo italiano, la difesa permanente della pace e dell’indipendenza della nazione, i doveri della solidarietà internazionale»”(67), consapevole che il Mec avrebbe potuto produrre un approfondimento degli squilibri del sistema economico e industriale italiano, caratterizzato come era (e com’è) da un andamento diversificato degli asset produttivi e delle aree territoriali. Inoltre, il PCI sembra avere chiaro che, accettando i trattati entro l’orizzonte geopolitico dell’atlantismo, l’Italia avrebbe dovuto abdicare definitivamente a una politica contraddistinta dalla ricerca attiva della pace e dal superamento dei blocchi militari contrapposti.

Cangemi continua ricordando che nella risoluzione, resa pubblica il giorno prima della firma dei Trattati, “profonda è la critica della direzione comunista rispetto agli effetti dei nuovi organismi europei sull’economia e sulla società italiana. L’accusa politicamente centrale rivolta ai trattati è quella di provocare una «neutralizzazione» di fatto del contenuto sociale della Costituzione, sottomettendo l’economia nazionale agli interessi degli aggregati monopolistici stranieri, alleati con i settori privilegiati del padronato nazionale. E diventerà, così, impossibile una strategia autonoma di riforme di struttura capaci di assicurare un sviluppo intenso e armonico del sistema produttivo, attenuando gli squilibri fra città e campagna, fra zone sviluppate e zone arretrate, e un miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari. Al contrario – afferma la nota della direzione del Pci – vi è «il reale pericolo che tutta l’economia italiana, fatta eccezione per alcuni grandi settori monopolistici, venga a essere trasformata in un’ampia area depressa».”(78).

Ma, oltre la critica, il PCI sembra altresì in grado di adottare iniziative concrete rivolte non solo ai propri gruppi parlamentari, alle organizzazioni periferiche e ai militanti, ma capaci, anche, di attraversare trasversalmente il corpo largo della società italiana, con l’ambizione di avanzare, di fronte all’opinione pubblica, un piano di lotte e di proposte adeguate a tutelare quegli ambiti dell’economia nazionale chiaramente minacciati dalle mire del capitale monopolistico straniero. Peraltro, sottolinea Cangemi, la posizione «antieuropeista» del Pci appare, all’indomani dell’entrata in vigore dei trattati di Roma e delle elezioni nazionali del 1958, tutt’altro che una posizione isolata, anacronistica e residuale visto che, sul piano internazionale, essa si colloca in sintonia non solo con le posizioni del blocco socialista ma anche con quelle delle sempre più forti lotte di liberazione in Africa e Asia, e anche con forze diverse nella stessa Europa occidentale. Insomma, Togliatti e il gruppo dirigente del PCI elaborano, di fronte all’offensiva atlantista e europeista insieme, un’iniziativa politica lucida e avveduta che ha la capacità, ponendo la cornice giuridica e ideale della Costituzione al centro della ricostruzione e del progresso dell’Italia e facendo leva sulle contraddizioni interne e esterne della Comunità europea, di evidenziare i rischi concreti di una rovinosa e temibile subordinazione ai grandi interessi capitalistici.

È già successo, a chi scrive, di leggere i libri di Luca Cangemi e di sottoporsi all’effetto spiazzante prodotto dalle riflessioni contenute nel suo L’elefante e la metropoli, (Edizioni Dedalo, 2012). L’incipit del libro raccontava di una strana processione che nella città di Catania, il cui emblema è la statua di basalto nero raffigurante un elefante, festeggia Ganesha, il dio dalla testa d’elefante dell’induismo. Era un curioso mescolamento che accostava l’induismo, i subalterns studies e l’effigie di Gramsci per parlare di oppressi e subalterni e della loro capacità di costruirsi un’autonomia culturale. Il fatto è che i libri di Cangemi producono nel lettore una strana sensazione di spiazzamento perché hanno la peculiare capacità di parlare, attraverso temi e problematiche apparentemente lontani, dei grandi problemi del presente.

Questo metodo di lavoro, che immagino l’autore adotti consapevolmente, ha il significativo vantaggio di offrire prospettive inclinate e sguardi obliqui che possono rivelarsi straordinariamente fecondi. Nel caso di specie Cangemi ha la capacità di toccare il cuore del problema più importante del tempo presente e ci offre forse delle idee da cui ripartire per costruire una visione dell’Europa alternativa sia a quella liberal-liberista sia a quella nazionalista e populista delle destre fasciste e leghiste.

Cangemi suggerisce che occorre avere la capacità di elaborare una visione altra degli scenari politico-sociali e delle variabili economiche, che sia complessa e sappia guardare alle trasformazioni profonde del capitalismo europeo con le sue contraddizioni interne e esterne. Il punto di avvio non può che essere la consapevolezza dell’irriformabilità dell’attuale Unione monetaria europea, come dimostrano le strategie e i provvedimenti di politica monetaria e economica dettati nel corso della crisi economico finanziaria iniziata nel 2008 e ancora in atto. Occorre ripartire da questo giudizio e ripensare il rapporto tra questione nazionale e questione internazionale, in modo da potere situare il proprio baricentro teorico e pratico avendo contezza delle concrete condizioni politiche del conflitto di classe e rifuggendo da formule astratte applicabili uniformemente in ogni tempo e in ogni luogo o da dicotomie sterili e astratte come quella su cui si misurano le ragioni degli euristi e quelle dei sovranisti. Ben sapendo, tuttavia, che la moneta unica, l’euro, è il dispositivo principale, non l’unico per carità, dell’architettura economico-finanziaria dell’Unione europea, che istituisce una gabbia che impedisce l’attuazione di politiche economiche di carattere espansivo in grado di contrastare la spoliticizzazione dell’economia, la logica dell’austerità, la stabilità dei prezzi e la disciplina di bilancio dei singoli Stati.

Da questo punto di vista, vien da chiedersi se è o non è in un rapporto contraddittorio il perseguimento dei fini dei Trattati europei, che si prefiggono il pareggio di bilancio e la stabilità dei prezzi e l’indipendenza della BCE, e il rispetto dei principi della nostra carta costituzionale che sancisce il diritto alla piena occupazione e all’utilità sociale dell’impresa. Su questa tensione contraddittoria forse si può decidere, una volta per tutte, di ricostruire un terreno di lotta politica per azzerare le inclinazioni liberiste, come il pareggio di bilancio, introdotte negli ultimi anni all’interno della Costituzione, ridando valore agli aspetti più avanzati di uguaglianza sociale e di rispetto sostanziale dei diritti sociali, del lavoro e dell’ambiente in essa contenuti.


Vedi anche: Sulla deriva dell’europeismo.



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