Alain De Benoist, Costanzo Preve, Giuseppe Giaccio: Dialoghi sul presente
Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo l’introduzione del volume Dialoghi sul presente, a cura di Alain de Benoist, Costanzo Preve e Giuseppe Giaccio (Controcorrente, Napoli 2005).
Mi sono imbattuto per la prima volta in Costanzo Preve poco più di vent’anni fa. L’occasione fu la lettura di Nuova destra e cultura reazionaria negli anni Ottanta, libro edito dall’Istituto storico della Resistenza di Cuneo che raccoglieva gli atti del convegno omonimo svoltosi nella città piemontese dal 19 al 21 novembre 1982 (convegno che, detto en passant, fu accolto da giudizi non molto positivi nell’ambiente della Nd) e nel quale figurava un suo intervento su Heidegger (“Una tragedia moderna: Martin Heidegger nel 1933”).
Rimasi favorevolmente colpito quando seppi che aveva accettato di dialogare con Marco Tarchi (che della Nd era l’esponente più noto) a Torino, durante un dibattito svoltosi in un liceo del capoluogo sabaudo. Nella relazione di cui sopra, infatti, niente lasciava presagire una simile e lodevole, dati i tempi, apertura al confronto. Poi più nulla fino al 1997, quando lessi due suoi saggi, usciti in quello stesso anno e scritti in collaborazione con Massimo Bontempelli: Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero (CRT, Pistoia) e Nichilismo, Verità, Storia (CRT, Pistoia). Si tratta di testi filosofici insoliti rispetto al consueto panorama culturale, nei quali si intuisce all’opera un ingegno curioso e desideroso di fare quello che per uno studioso dovrebbe essere la norma, ma che, sfortunatamente, è troppo spesso l’eccezione, ossia scavare, analizzare, comprendere, sforzarsi di dare un contributo alla conoscenza dei problemi.
Questo esercizio crea sovente dei fastidi e molti preferiscono evitarlo, preferendogli un altro e più comodo e fruttuoso esercizio, quello del meretricio intellettuale. Con un simile retroterra, era pressoché inevitabile che il “guastafeste” Preve finisse con l’incrociare lungo la strada altri guastafeste come Alain de Benoist, Marco Tarchi e l’autore di queste note (ho poi avuto modo di conoscerlo non solo intellettualmente, ma anche personalmente a Torino, nel gennaio 2002, ad un dibattito cui partecipammo entrambi). Nel post-scriptum inserito nell’edizione italiana di Amleto o Ecuba (il Mulino, Bologna 1983), Carl Schmitt spiega molto bene chi è il guastafeste: un aggressore che “disturba una divisione del lavoro che corre ormai su ruote ben oliate, disturba il funzionamento senza attriti dell’ingranaggio della ricerca. [...] L’esperienza e la ragione mi dicono che il disturbare il lavoro, l’offendere i tabù e il minacciare i monopoli sono azioni particolarmente adatte ad essere criminalizzate”.
Se mettiamo a confronto le posizioni espresse dal Preve degli inizi degli anni Ottanta, così come si evincono dal contributo di Cuneo menzionato in precedenza, e quelle del Preve di oggi, comprendiamo subito in che senso egli sia un guastafeste e su quali basi si siano creati i presupposti per i dialoghi di cui questo libro è un riflesso. Nel testo su Heidegger, Preve situa la sua analisi ancora all’interno del sistema politico lineare-assiale tradizionale (destra/centro/sinistra), di cui si sente pienamente parte e che si prefigge di difendere. Questa difesa era per lui qualcosa di essenziale, al punto da ritenere “un pericolo attuale la completa perdita di sensibilità culturale e filosofica per la distinzione fra le identità storico-culturali di destra e di sinistra”.
L’abolizione di tale distinzione rappresentava una “falsa scorciatoia” che poteva aprire la strada a un ritorno del fascismo; la linea di frattura destra/sinistra costituiva una “bussola”, gettata via la quale “non rimangono che le oscure ondate del mare in tempesta”. All’epoca, dunque, Preve aderiva toto corde alle posizioni “conservatrici” di Revelli e Ferraresi, cui rendeva esplicitamente omaggio, e prendeva altrettanto esplicitamente le distanze da quelle di Massimo Cacciari, che aveva invece accettato un confronto con la Nuova destra, che della perdita di significato e di pregnanza di quella distinzione aveva fatto uno dei suoi cavalli di battaglia e spingeva, sia in Italia che in Francia, verso la creazione di nuovi campi conflittuali e quindi in direzione dell’uscita dalla mentalità del dopoguerra.
Questo equivaleva a rimettere in discussione il principio di legittimità su cui si fondava la “Repubblica nata dalla Resistenza” (e, più in generale, la divisione del mondo stabilita a Yalta), non perché se ne disconoscessero le ragioni ufficiali (la lotta contro i regimi totalitari e l’instaurazione della democrazia), ma perché il mondo era nel frattempo profondamente mutato, ed erano venute alla ribalta altre questioni, che oggi sono sotto gli occhi di tutti e che non potevano più essere ricondotte allo schema destra/sinistra (che diventava così, ipso facto, un modello conservatore, cui faceva ovviamente ricorso chi rifiutava il cambiamento o sperava - si illudeva ? - di addomesticarlo dentro le coordinate solite).
Ciò che quindi la Nuova destra proponeva, in primis all’ambiente dal quale in larga parte provenivano i suoi animatori (il neofascismo, il radicalismo di destra), ma anche ad altri ambienti inquieti di sinistra, era la presa d’atto della chiusura del dopoguerra ed una piena immersione nel presente, non certo per aderirvi, bensì per trarvi gli elementi di nuove polarità antagonistiche e democratiche. Di fronte a questa analisi, sia la destra che la sinistra hanno fatto, nel complesso, orecchie da mercante. Entrambe, prima dei rispettivi “sdoganamenti”, erano appiattite sul passato, sulle rispettive memorie storiche (il fascismo e il comunismo), che garantivano loro anche una rendita di posizione elettorale alla quale non intendevano rinunciare, e quindi non potevano/volevano recepire un discorso tutto incentrato sulla necessità di creare nuovi soggetti del cambiamento politico e sociale. Dopo gli “sdoganamenti” - in seguito al crollo del muro di Berlino, alla discesa in campo di Berlusconi e alla cosiddetta svolta della Bolognina - la situazione è cambiata solo in superficie, nel senso che l’appiattimento si è semplicemente trasferito dal passato al presente.
Le rendite di posizione, che prima venivano desunte dal Ventennio o dalla Resistenza, ora sono costituite dall’acritica adesione alla retorica dei diritti umani, al liberalismo nelle sue varianti di destra - cui si applica di solito l’aggettivo “selvaggio” - e di sinistra, che ha invece un aspetto più buonista, ma anche più ipocrita, e alla politica di espansione imperialistica degli Stati Uniti, spacciata di volta in volta come ingerenza umanitaria, lotta al terrorismo o difesa della democrazia. Il severo bilancio relativo alla destra e alla sinistra tracciato da Alain de Benoist alla fine degli anni Novanta e all’alba del terzo millennio nell’introduzione del saggio L’écume et les galets (Le Labyrinthe, Paris 2000), rimane tuttora valido. La destra di governo appare all’intellettuale francese caratterizzata da una “inestinguibile sete di non-essere.
Priva di identità, non sapendo più che dire né cosa difendere, essa ha oggi raggiunto un punto di decomposizione estremo”. La destra radicale viene invece paragonata a “un disco rigato” che “ricicla sempre lo stesso discorso, gli stessi riferimenti, senza comprendere cos’è il lavoro del pensiero, né accorgersi che il mondo è cambiato”. Quanto alla sinistra classica, la sua colpa è quella di aver rotto con le aspirazioni del socialismo, di essersi omologata al discorso liberale, diventando opportunista. Anche l’estrema sinistra è rimasta coinvolta nello scacco, finendo col confondere la politica con la “guerriglia filantropica”.
Muovendo da un retroterra diverso, Preve finisce col convergere nella denuncia del carattere ormai obsoleto e fittizio della triade destra/centro/sinistra cui ancora aderiva negli anni Ottanta. Egli non si prefigge, tuttavia, un abbandono della matrice culturale originaria, cioè Marx e il comunismo, bensì una sua originale interpretazione in base alla quale Marx viene presentato come il filosofo di una “scienza filosofica imperfetta” fondata sui concetti di alienazione, prassi e libera individualità e su una concezione “aporetica” della storia imparentata con gli antichi greci e con l’idealismo naturalistico, più che con il materialismo e il positivismo. A Marx e al comunismo capita però, secondo questa lettura proposta da Preve, quello che capitò al cristianesimo primitivo: a Gesù, cioè all’annuncio messianico, subentrò Paolo, che trasformò il suo messaggio “in una realtà qualitativamente diversa”.
Lo stesso fece anche Engels, e da Marx siamo passati al marxismo, ossia a una “teoria illusoriamente perfetta”, che dava una “impressione di compiutezza assoluta” e conteneva in sé una quasi-religione dei dominati (la massa proletaria) e una pseudo-scienza dei dominanti (la burocrazia di partito). Quando è risultata evidente la debolezza di tale costruzione teorica con l’afflosciamento del “comunismo storico novecentesco 1917-1991”, come ama definirlo Preve, allora il ceto burocratico si è riciclato in sinistra liberale al servizio del capitalismo globalizzato, mentre i dominati sono stati “consegnati ad un destino di sbandamento e disgregazione”. Alle derive della destra e della sinistra, de Benoist ritiene si debba reagire con una grande lessive des idées, ovvero, come si preferisce dire in Italia, con una “nuova sintesi” di pensiero. Preve, da parte sua, parla, in Filosofia del presente (Settimo Sigillo, Roma 2004), di un “invito allo spaesamento”.
Queste espressioni sono accomunate dalla consapevolezza della necessità di operare un rimescolamento delle carte che, ovviamente, non viene prospettato ai soggetti politici e culturali tradizionali, i quali hanno un evidente interesse al mantenimento dello status quo, ma a quanti continuano a considerarsi antagonisti e non hanno perciò rinunciato a porsi in modo critico rispetto ad una realtà che oggi ha assunto il volto della globalizzazione, dell’espansione unilaterale del dominio statunitense nel mondo, dello sfruttamento intensivo di risorse non rinnovabili, della perdita della biodiversità e del conseguente impoverimento della natura, della estrema concentrazione della ricchezza in poche mani, dei movimenti migratori di masse crescenti, di una democrazia sempre più svuotata di contenuto, dell’assottigliarsi, al di là della retorica ufficiale, della sfera delle nostre libertà a causa dell’uso di strumenti di controllo potenti e invasivi (Echelon).
Le figure che dovrebbero incarnare la reazione a questo stato di cose, ossia il ribelle jüngeriano (secondo de Benoist) e il rivoluzionario (secondo Preve), lasciano intendere, nella loro diversità, che se nella pars destruens dei rispettivi approcci vi sono ampie assonanze, in quella propositiva, probabilmente, vi è una certa divaricazione. Il che è del tutto normale nel dibattito delle idee. Quello che ci preme, in questa sede, sottolineare è che, purtroppo, finora questo dibattito è stato condotto da singoli e che non si è ancora riusciti a creare nuove convergenze (e divergenze) fra soggetti collettivi. Eppure, almeno potenzialmente, tali soggetti esistono; lo dimostra il fatto che gli organi di espressione della cultura delle Nuove sintesi (Éléments, Krisis e Nouvelle école in Francia e Diorama e Trasgressioni in Italia), sia pure in mezzo a mille difficoltà, continuano ad avere un seguito e che anche sul versante di sinistra non mancano uomini e iniziative che manifestano una certa insofferenza verso i consueti steccati.
Si pensi a un Alain Caillé o a un Serge Latouche, intellettuali che, in ambito transalpino, provenendo da sinistra, si sono spinti, senza varcarli, ai limiti dello sconfinamento in quella terra di nessuno da cui possono nascere le inedite aggregazioni di domani[1]. O, in Italia, a un settimanale come Carta, le cui idee in materia di critica all’ideologia dello sviluppo e il cui appoggio alle tesi “bioeconomiche” di Nicholas Georgescu-Roegen - idee e appoggio difficilmente inquadrabili nel contesto di una sinistra “classica” - gli sono valsi i fulmini del quotidiano di Rifondazione comunista Liberazione. Assistiamo, peraltro, a uno strano paradosso: proprio coloro che amano atteggiarsi ad anticonformisti, innovatori, rivoluzionari, e che dovrebbero perciò, in linea di massima, essere interessati all’ipotesi di una sostanziale messa in discussione di eredità consunte e incapacitanti, ne sono, in realtà, i difensori più accaniti.
Facciamo qualche esempio per capire meglio. Di fronte alle analisi e alle provocazioni della Nuova destra, in Italia e in Francia, l’ambiente del radicalismo di destra e del neofascismo, da cui la Nd ha preso le mosse per poi uscirne, non ha saputo fare altro che o chiudersi a riccio a difesa dei sacri confini minacciati, continuando a riversare nei cervelli del suo pubblico in buona parte materiali di scarto (apologie e nostalgie), o utilizzare strumentalmente quelle analisi, decontestualizzandole e quindi snaturandole. Un caso tipico sono i concetti di differenza, identità e comunità sui quali Alain de Benoist si è a lungo soffermato, offrendone una versione all’altezza dei tempi, compatibile con le nozioni di democrazia, federalismo e multiculturalismo sulle quali oggi tanto si discute. Il suo impegno può essere riassunto nello sforzo di intenderli come una finestra che ci mette in comunicazione con il mondo e con gli altri, anziché isolarcene, facendoci rinchiudere nelle nostre certezze vere o presunte.
Ebbene, invece di sentirsi stimolato al cambiamento da questi approfondimenti culturali, l’ambiente destro-radicale non ha fatto altro che appropriarsi di queste parole per veicolare, in versioni più alla moda ed accattivanti, le idee di sempre, dando così la possibilità agli osservatori in malafede, o semplicemente pigri, di concludere che, in fondo, quelli di de Benoist e della Nuova destra erano solo tentativi di mascherarsi, di penetrare nel campo progressista per seminarvi scompiglio. Nella cosiddetta sinistra antagonista, la situazione non è molto più rosea. Qui l’attaccamento alla sinistra raggiunge livelli quasi feticistici. Dal marxiano feticismo delle merci, questa componente della sinistra è passata al feticismo della sinistra. Solo in questi termini “sacrali” - nei termini, cioè, di una paura di contaminarsi - si può spiegare la teoria delle due destre elaborata da uno degli autori di riferimento di questa area, Marco Revelli[2].
Siccome la sinistra istituzionale si è fatta corrompere dal discorso del “nemico”, deponendo le armi su temi tradizionalmente rilevanti per la sinistra e la sua identità come lo stato sociale e la difesa dei ceti più deboli, essa non è più degna di definirsi tale, di appartenere al mondo puro e incontaminato della vera sinistra, essendosi trasformata in destra, una seconda destra, meno becera forse, ma pur sempre destra. Questo consente a Revelli e ai suoi fans di continuare a coltivare la loro diversità, di sentirsi i migliori, ma ha un effetto bloccante, perché permette al sistema di continuare a girare intorno all’asse destra/sinistra che lo perpetua. Lenin, in Stato e rivoluzione, lo aveva compreso perfettamente, e questa è una delle poche lezioni positive che la sinistra antagonista potrebbe trarre dalla sua opera. In Francia, a dire il vero, si è registrato qualche timido passo in avanti, sebbene anche lì sia diffuso il timore della contaminazione. Dopo la sconfitta della sinistra alle elezioni presidenziali del 21 aprile 2002 che videro Jean Marie Le Pen raccogliere il 16,9% al primo turno elettorale - il che costrinse la sinistra a votare per Chirac al secondo turno - il settimanale Politis, che si rivolge a un pubblico grosso modo corrispondente a quello italiano di Carta, aprì un dibattito sulla sconfitta subita dalla “sinistra plurale” (gauche plurielle) nel quale si inserirono voci interessanti come quelle di Alain Caillé e Serge Latouche[3]. Ascoltiamole.
Per Caillé, la parola “sinistra” continua ad avere un senso nello spazio della politica istituzionale - che per Revelli è, invece, come si è visto, quello delle “due destre” - ma al di fuori di esso, la sinistra è ormai un “significante” senza significato, vale a dire una parola che non veicola più valori precisi, non riesce più a “cristallizzare la speranza”. La nota distinzione proposta da Norberto Bobbio che identifica la sinistra con posizioni di tipo ugualitario, in particolare con l’uguaglianza economica, non è più operante dal momento in cui proprio a sinistra si affermano bisogni di tipo non ugualitario riconducibili al riconoscimento delle proprie identità.
Occorre dunque trovare un nuovo “significante”, ossia un nuovo contenitore - anche se Caillé confessa di non saper dire quale - che “esprimerà il fatto che il politico non può più essere circoscritto al solo campo della politica, che lo supera da parte a parte attraverso molteplici esigenze etiche”. Anche Latouche ritiene che, in ambito istituzionale, lo schema destra/sinistra sia ancora proponibile e sensato. Al di fuori di esso, troviamo invece una sinistra contestataria che, tuttavia, ha il grave limite di porsi sullo stesso terreno del capitalismo globalizzatore, proponendosi solo di elaborare una versione più “umana” della globalizzazione, e una sinistra, nella quale Latouche si riconosce, che si prefigge di uscire dall’immaginario economico, di criticare a fondo lo sviluppo e di battersi per una “società della decrescita” che dovrebbe riconoscersi in un programma delle sei “R”: rivalutare, ristrutturare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questo programma è, però, talmente eterodosso da aver scandalizzato, a sinistra, un buon numero di benpensanti.
Sempre in Francia, è stato da poco pubblicato un libro, Comment ne plus être progressiste... sans devenir réactionnaire (Fayard), del giornalista di Le Monde Jean-Paul Besset, che rappresenta, probabilmente, quanto di più forte e chiaro è stato finora detto oltralpe da sinistra sull’esaurimento della polarità politica tradizionale. Besset paragona la destra e la sinistra ad automobili dalle carrozzerie leggermente diverse, ma dallo stesso motore. E questo motore si chiama crescita, produzione, progresso. A suo parere, non abbiamo bisogno né dell’una né dell’altra, perché entrambe rifiutano di incamminarsi lungo la strada che ci porterebbe fuori dal vicolo cieco in cui ci siamo cacciati: decrescita, limiti, sobrietà, moderazione. “Bisogna dunque affrettare la loro morte politica, come quella di ogni forza reazionaria”, per sostituirle con una “social-ecologia”, neologismo che richiama quello di social-democrazia.
La “social-ecologia” dovrebbe accompagnare i tempi nuovi che intravediamo all’orizzonte come ha fatto la socialdemocrazia nell’era, ormai esauritasi, dello sviluppo. La social-ecologia è dunque “l’eco della realtà del tempo presente”. Si condivida o no la prospettiva delineata da Besset, egli coglie bene l’esigenza, per ogni forza che voglia puntare sul cambiamento, di situarsi nel presente. Esigenza di cui sono evidentemente consapevoli, ciascuno con le sue peculiarità, i coautori di questo libro che vuole essere, in fondo, un atto di speranza, una ennesima scommessa sulla necessità di ampliare il confronto democratico a tutto campo, senza aprioristiche esclusioni.
Giuseppe Giaccio
NOTE
[1] Ad Alain Caillé va riconosciuto il merito di aver avviato, tredici anni fa, su La Revue du MAUSS, un dibattito con Alain de Benoist, capofila della Nouvelle droite, ripreso in Italia dalla rivista Diorama letterario nei numeri 154 (gennaio-febbraio 1992) e 159 (luglio 1992).
[2] Cfr. Marco Revelli, Le due destre, Bollati Boringhieri, Torino 1996.
[3] Cfr. Alain Caillé, “Au-delà de la gauche”, in Politis di giovedì 12 dicembre 2002, e Serge Latouche, “Sortir de l’économie”, in Politis di giovedì 9 gennaio 2003.
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