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Addio a Emiliano Liuzzi. Il ricordo dei colleghi del Fatto: “Emi ci facciamo un pezzetto”

L’articolo ricordo del giornalista scomparso, pubblicato su Il Fatto Quotidiano.

di Redazione - mercoledì 6 aprile 2016 - 4807 letture

“Ci si fa un pezzetto”. Emiliano avrebbe detto così. Diceva sempre così. Faceva sempre così. Perché era un cronista. E così facciamo anche noi, che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo e di lavorarci insieme. Dal 2011, quando è entrato nella famiglia del Fatto Quotidiano, diventando responsabile della sezione Emilia Romagna de ilfattoquotidiano.it dopo due anni da direttore-fondatore al Corriere di Livorno, le esperienze al Tirreno e alla Nuova Sardegna e una carriera in giro per l’Italia dopo il master in giornalismo alla Columbia University. Il nuovo impegno Emiliano lo ha raccontato con queste parole, nella biografia che aveva scritto per il suo blog: “Sono arrivato al Fatto grazie a Peter Gomez. ‘E’ il tuo posto’, mi ha detto un anziano collega. ‘Probabile che ti stessero aspettando’. Sono stato anche disoccupato per un anno, giusto il tempo per capire che non sono stato io a dare una vita al giornale, ma è il giornale che ha dato una vita a me. Non bevo alcolici, in compenso fumo un pacchetto al giorno. Allo sport praticato preferisco San Siro, trotto o galoppo, non faccio distinzione. Non ho una mia città: vivo dove c’è da lavorare”. E quindi Livorno. E quindi Bologna. Poi Roma, dal 2013, dove ha curato la nascita de Il Fatto del Lunedì. E dove è morto stanotte, per un infarto. Aveva 46 anni. Troppo pochi, ma vissuti al massimo. E sempre col sorriso.

“Ci si fa un pezzetto”. Per ricordarlo alla sua maniera. Storie, aneddoti e pensieri dei suoi colleghi del Fatto

•Emiliano era uno degli ultimi. Era uno di quelli veri. Era uno che il giornalismo lo aveva fatto per strada, da cronista e da uomo. Io lo avevo conosciuto a Livorno, quasi vent’anni fa, inseguendo con lui uno scoop. Eravamo diventati amici subito. E non era stato difficile. Nessuno amava la vita come lui. I suoi racconti su quello che gli era accaduto, su quello che aveva visto o saputo, erano sempre degli affreschi affascinanti, colorati e ironici. Dei dipinti vividi delle nostre esistenze che era facile ascoltare per ore. Le sue parole ricostruivano l’eroismo della gente, le passioni delle persone, a partire dalle sue. Davano un senso a tutte le nostre debolezze. Emiliano amava gli esseri umani, s’infiammava per i diritti degli ultimi, ma riusciva a entrare in empatia con tutti. Anche con quelli che in fondo considerava dei cattivi. Per questo era un bravo giornalista. Sapeva parlare con chiunque e chiunque parlava volentieri con lui. Aveva una curiosità infinita e un amore infinito per questa professione che lo aveva spinto a rischiare tutto per fondare un giornale, il Corriere di Livorno. Un piccolo quotidiano da cui se ne era andato quando l’editore aveva tentato di condizionare il suo lavoro. “Con i tuoi soldi ti ci puoi pulire il c…” gli aveva detto prima di sbattere la porta. Pure per questo, sei anni fa, gli avevo aperto subito la nostra. Perché Emiliano aveva carattere e talento. Perché guardava la vita con il giusto disincanto. Ne coglieva il lato divertente, ne scopriva i paradossi e ne disvelava le emozioni. Perché capiva che qui siamo solo di passaggio. E che per questo vale sempre la pena provarci. Fino in fondo. Che la terra ti sia lieve. Ciao Emiliano (Peter Gomez)

•Emiliano, appena l’ho saputo mi è venuto di telefonarti, di chiederti cosa ti era successo. Di domandarti dove sei adesso. Come abbiamo fatto mille volte nelle nostre interminabili chiacchierate notturne. Sei stato un bravo giornalista. Ma soprattutto hai aiutato gli altri a essere bravi. Mettevi gli altri, i giovani colleghi, prima di te. Senza ostentazioni, ti veniva naturale. Sapevi creare una squadra e far nascere amicizie, legami. Eri capace di sorvolare sui difetti altrui, di tirare fuori il meglio da ognuno di noi. Me lo dicevi sempre: è difficile la vita, ci sono cose tanto più grandi del nostro orgoglio, delle nostre piccole miserie, della carriera o di una firma sull’articolo. Bisogna essere indulgenti, provare a capire gli altri. Vedere, prima di tutto, che cosa hanno di buono. Ci siamo scambiati tante parole. Scherzavamo anche su questo, sulla fine, sul senso che non si riesce a trovare pur se bisogna vivere. E tu vivevi, tanto, ma con candore. Con un fondo di malinconia negli occhi azzurri. Sento ancora il tocco della tua mano sulla spalla quando c’era qualcosa che non andava. Vorrei poter ricambiare adesso (Ferruccio Sansa)

•Sono migliaia le telefonate che ci siamo fatti in questi anni. Quasi tutte iniziavano per ragioni di lavoro. Quasi tutte si prolungavano e terminavano con i tuoi consigli, i tuoi punti di vista. Sull’attualità, certo, ma soprattutto su aspetti più privati. In te trovavo sempre la disponibilità ad ascoltare, cosa rara con i ritmi frenetici del nostro lavoro e delle nostre vite. E quando riagganciavo mi restava sempre in mente una frase che mi aveva spiazzato, a volte grottesca (e ti facevo sorridere ripetendola alla prima occasione scimmiottando il tuo accento toscano), a volte profonda. Non racconto aneddoti anche se ce ne sarebbero molti, ma ti assicuro che custodirò il ricordo di questo pezzo di strada insieme. Ciao Emi… (Simone)

•A te dobbiamo tutto. Eri uno dei pochi che riuscivano a insegnare i segreti del mestiere senza mai atteggiarti a maestro. Eppure potevi permettertelo. E poi ti piaceva burlarti di noi, Emiliano, e anche stamattina quando abbiamo saputo, abbiamo sperato che fosse uno dei tuoi tanti scherzi. Ci hai insegnato a usare le parole, ma ora non ne abbiamo per te. Ti vogliamo bene, amico. (David Marceddu, Giulia Zaccariello, Martina Castigliani, Annalisa Dall’Oca, Silvia Bia e tutti i cronisti del Fatto Quotidiano Emilia Romagna)

•Dicevi che le cose o si imparano in strada o niente. Nell’inverno del 2013 ci hai prese e sballottate per tutta l’Italia all’inseguimento di Grillo e dei suoi comizi. C’eravamo sotto la pioggia battente di Ferrara o la neve di Bergamo. Una sera hai chiamato: “Grillo va sul Vajont, andiamo anche noi”. Le tue non erano richieste, ma comunicazioni: se vuoi fare la giornalista, o così o niente. Abbiamo seguito il camper di Grillo in tutti i paesini sperduti e abbiamo ascoltato ogni discorso. Una mattina mentre noi cercavamo le dichiarazioni, tu sei scomparso e sei tornato con l’intervista. Un’ora sul camper mentre noi fissavamo quella porta chiusa con la rabbia di non poter essere lì dentro con te. Era la prima di Grillo. L’hai scritta in quaranta minuti seduto in un bar dove c’era solo casino. Ti abbiamo riportato il computer mentre giocavi a flipper con la sigaretta in bocca: “Riletta? Andava bene? Ora dobbiamo inventarci qualcosa di diverso per domani”. (Martina Castigliani e Giulia Zaccariello)

emi•Tre marzo 2013, hotel Saint John di Roma. E’ il giorno del primo meeting degli eletti in Parlamento del Movimento 5 Stelle. La ridda di giornalisti è inimmaginabile, le facce dei vari Di Battista, Di Maio, Taverna ancora semi-sconosciute. L’albergo è letteralmente preso d’assalto così come i neo-parlamentari che guardano stralunati verso le decine di telecamere puntate su di loro. A un certo punto la direzione dell’hotel, incalzata dalle proteste dei clienti, decide di cacciare le varie troupe che stanno bivaccando nella hall. Non la squadra del Fatto Quotidiano/ilfattoquotidiano.it. Non in virtù di qualche accordo segreto con Grillo e Casaleggio, ma perché Emiliano, la sera prima, ha pensato di prenotare una stanza al St. John. Così, quando l’arcigno portiere arriva da noi per farci sloggiare, Liuzzi risponde etereo: “Ma come? Noi siamo vostri clienti”. E così, grazie alla sua intuizione, abbiamo sbaragliato la concorrenza delle altre testate. Un genio. (Lorenzo)

•Novembre 2012. Nicolò è nato da un mese. I miei venerdì pomeriggio li passo sui treni che da Milano portano a Napoli. Stazione centrale di Bologna. Dai finestrini sporchi di un Frecciarossa la scenetta è di esilarante dolcezza: Emiliano accovacciato, il figlio in piedi tra le sue braccia, entrambi guardano verso destra. E ridono a crepapelle, fissando qualcosa che non conosco. Lo chiamo. “Uè uè, ma di cosa state ridendo?”. E lui, con quella voce che ti mette buonumore a prescindere dalle parole: “Dei treni che passano. Al piccolo piacciono da morire, si diverte un mondo. E io, beh, se ride lui rido anch’io”. Sorriso contagioso di un uomo dallo stile contagioso. Che era impossibile non stimare. (Pierluigi)

•Quando qualcuno se ne va così all’improvviso come è capitato a Emiliano Liuzzi è difficile richiamare ricordi felici o aneddoti spiritosi per evitare che ci sia soltanto il lutto ad accompagnare il ricordo di un collega con cui abbiamo condiviso anni intensi al Fatto. Però almeno una cosa vorrei evocarla, anche per i tanti che conoscevano Emiliano soltanto dai suoi articoli o dalle sue interviste. Mi ha ha sempre colpito di lui la capacità di vivere allo stesso momento in epoche diverse, di essere ben ancorato nel presente ma anche immerso in una stagione che – anagraficamente – non poteva essere la sua, quella degli anni Settanta, dei cantautori, dei movimenti, di cui parlava e scriveva come se l’avesse vissuta, come se lui ne fosse un protagonista o almeno un reduce. Aveva l’abitudine spiazzante di portare nella stessa riunione la proposta di una notizia sul Movimento Cinque Stelle e mentre intanto lavorava a un’intervista con quelli della Pfm o con il suo caro Francesco Guccini per poi dedicarsi, subito dopo, a qualche notizia sulle ultime disavventure di quelli della Banda della Magliana. Emiliano è stato uno di quei giornalisti fortunati che hanno saputo trasformare le proprie passioni nell’oggetto della propria professione, e la professione in una delle proprie passioni. Tra queste c’è stata, senza dubbio, anche la televisione, soprattutto negli ultimi anni. Scherzavamo spesso, in redazione, sull’incredibile capacità di Emiliano di allontanarsi un attimo, col suo passo felpato, e riapparire un istante dopo sullo schermo sempre acceso nel nostro open space, ora a La7, ora a Sky, ora a Mediaset, o sulla Rai. E’ stato uno dei fondatori e delle colonne del Fatto del Lunedì, esperimento di successo che ha sempre avuto – nel suo alternarsi di inchieste, cultura e spettacoli – anche la cifra del giornalismo che piaceva a Emiliano. Serio e rigoroso quando serve, leggero ogni volta che si può. (Stefano Feltri)

•Aveva dentro, quando lo ascoltavi, quando ti spiegava una notizia o ti raccontava che cosa aveva detto in uno studio televisivo o scritto in un tweet, quello che tutti noi che facciamo questo mestiere vorremmo e dovremmo avere. La voglia di essere giornalisti, sino in fondo, sempre. Qualcosa che all’inizio forse abbiamo posseduto tutti (qualcuno forse no), ma che poi abbiamo cominciato a trascurare. Lui no. Ecco, parlare con Emiliano serviva a riscoprire quel sentimento, quella sensazione. A non dimenticarlo. Ciao Emiliano, ci siamo conosciuti troppo poco ed è colpa mia. Eri un buono e questa è la cosa più importante. (Ettore Boffano)

•L’ultima volta che ci ho parlato l’ho cazziato: Emiliano faceva sempre di testa sua, se eri fortunato ti avvisava alla fine quando le cose erano bell’e apparecchiate. La penultima volta invece mi aveva telefonato lui apposta per dirmi che gli mancavano le nostre pause-salotto a lavoro, insieme alle altre colleghe. Era così Emiliano, un professionista e un amico affettuoso, una persona pulita, generosa, sempre sorridente. Sapeva alleggerire, incoraggiare e soprattutto non giudicava mai. Ti porto con me, Emiliano, anche se anche stavolta hai fatto di testa tua. (Paola Maola)

•”Come stai Emiliano?”. Cominciavano sempre così le nostre telefonate. Glielo dicevo io prima che me lo chiedesse lui con quella voce così livornese, ruvida ma spalancata al mondo nonostante tutto. Si dice, a ragione, che i giornalisti, inclusi i migliori, eccedano in cinismo e difettino in umanità. Ma ogni regola ha le sue eccezioni, e chiunque abbia conosciuto Emiliano Liuzzi sa che anche per questo era una persona eccezionale. “E allora, come stai Emiliano?” (Nanni)

•”Quel pazzo di Buonanno della Lega, ha tirato fuori la pistola in diretta con Sky. Io ho lasciato lo studio scandalizzato. Lo recuperate il video per il sito? Vi faccio un pezzetto appena scendo dal taxi”. E’ un sms di Emiliano che ancora conservo. Una rapida chiacchierata con i colleghi della redazione centrale del sito a Milano, il montaggio rapido di Gisella Ruccia e in pochi minuti avevamo un pezzo multimediale che ha fatto il giro della rete. E’ uno dei tanti ricordi legati a lui. E poi il grande orgoglio e l’affetto per i suoi ragazzi della redazione del Fatto dell’Emilia Romagna. A volte partiva con un lungo elenco che poi sfumava. Ecco, loro sono una bella parte della sua testimonianza giornalistica e di vita. (David Perluigi)

•“Questa Emiliano non la sapevi nemmeno tu”. Avevo già pronto il tweet da mandarti. Stavo scrivendo un articolo sul tuo amico Lucio Dalla. Poi la telefonata dalla redazione del Fatto.it. Martina non chiama spesso. L’avrò fatta grossa, ho pensato. Macché. Questa volta ad averla fatta grossa sei stato tu. Magari, ogni tanto chiama, anche per non dire nulla, come facevi spesso. Ora ti lascio e, non rimproverarmelo, ti cito: “Non poter contare su chi sai che ci sarebbe stato, rende quasi goffo il dolore, almeno ogni volta che ne senti la necessità”. Ciao, Emiliano, non farmi sentire troppo goffo. (Marco Zavagli)

•Emiliano era un generoso, che amava parecchio la vita. Era un cronista, nel senso che andava dritto alla notizia, e chi se ne frega del resto. Aveva l’esperienza di chi è stato in strada, a guardare la realtà negli occhi. Abbiamo anche litigato, perché si litiga tra colleghi. Ma lui non era un rancoroso. Cantava, spesso. Noi ci scherzavamo, su quella sua voce da crooner, e lui sorrideva. Perché gli piaceva cantare, e gli piaceva sorridere. (Luca De Carolis)

•Ci sono colleghi che restano colleghi, e colleghi che riescono a diventare amici. Emiliano era uno di questi. Ogni giorno ci si dedicava un sorriso e a volte bastava solo quello. Di lui ricordo tutte le volte che abbiamo riso insieme. Quando davanti alla macchinetta del caffè provava a spiegarmi perché i salotti televisivi erano anche dei luoghi di confronto importanti. Io lo prendevo in giro e lui prendeva in giro se stesso e me. Era sempre così con lui: l’autoironia che diventava anche autocritica. Ecco, Emiliano non è mai stato una persona arrogante, sapeva essere giornalista senza dimenticare l’umiltà. Sapeva tenere insieme questi due aspetti, come pochi riescono a fare. Questo è ciò che provava a insegnarmi e io non posso dimenticarlo. Ci si voleva bene con “Emili”, sinceramente. E il merito di tutto questo grande affetto è solo suo. (Valeria Pacelli)

•Sì è vero, Emiliano sembrava sempre un po’ stranito. Il passo lento, la schiena un po’ ricurva come hanno quelli che in classe sono abituati a stare all’ultimo posto perché sono i più alti. Camminava immerso nel suo mondo. Quando abbiamo lavorato insieme al Fatto del Lunedì era quello che dava una mano, mai saccente e incapace di covare quelle piccolezze che rendono autorevoli anche i piccoli uomini. Ricordo che si doveva intervistare Ambrosoli, ne parlammo e ragionammo, poi lui fece la telefonata e il pezzo uscì con le nostra due firme. “Perché?” Gli chiesi? “Perché alcune domande mi sono venute parlando con te”. In sala TV al Fatto Quotidiano , dove passava per farsi una sigaretta, spesso non salutava ma sapevi che Emiliano era capace di ascoltare sul serio. Non faceva finta. Ascoltava anche immerso nel suo mondo. “Emiliano, ok ho capito ma falla corta” , gli dicevo sorridendo , quando ci si parlava per concordare un pezzo. Emiliano Liuzzi era la sua faccia, le sue espressioni, i suoi sorrisi, era esattamente l’uomo che avevi di fronte. (Elisabetta Reguitti)


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