Acid Mothers Temple: il concerto di Massa Carrara
Storia di un concerto tanto incendiario quanto noioso. ACID MOTHERS TEMPLE e un tempo che non tornerà mai più...
Da qualche caverna del Giappone oppure da un’altra dimensione temporale, ecco che, carne ed ossa, li vedi materializzarsi dentro ad un’ex sala da ballo di Massa Carrara. E’ stato questo il viaggio che ha dovuto sobbarcarsi la band degli Acid Mothers Temple per suonare al ‘Tagomago Lounge club’, un locale arredato con mobili usati, abat jour, pezzi di manichini, e dotato di un piccolo palco rettangolare illuminato in seppia da un grande lampadario di cristallo.
Io, non avendo a disposizione la macchina, me ne sono andato al concerto in vespa. Un tragitto lungo una decina di minuti, tre semafori rossi, buche nell’asfalto, durante i quali mi sono ripassato i miei ultimi mesi di vita. Degli Acid Mothers Temple non so praticamente niente, tranne il fatto che sono un gruppo di origini giapponesi, che sono nati intorno alla metà degli anni ’90, che vivono in una comune, che fanno parte di quel generico calderone musicale nel quale s’incontrano la psichedelica più estrema, lo space rock e la musica cosmica tedesca, e che intorno a loro esiste un certo alone di culto al quale probabilmente deve essere attribuito il chiacchiericcio che ha accompagnato l’annuncio della loro data al ‘Tagomago’ (‘Tagomago’, detto per inciso, è anche il titolo di un celebre disco dei Can, una pietra miliare, come si usa dire nel gergo del giornalismo rock). Arrivato nel parcheggio non asfaltato del Tagomago, del tutto casualmente fermo la vespa ad un paio di metri di distanza da dove Tabata Mitsuru, il bassista del gruppo di questa sera, sta parlando e ridacchiando con una ragazza filiforme, interamente vestita di nero, in total black, molto alta, la quale sta insegnando a Mitsuru come si conta in italiano.
‘Uno,...due,...tre,...quattro,...cinque’, scandisce la ragazza, mentre Mitsuru, stranamente divertito, ripete: ‘Czinque!’, con la ragazza che rilancia: ‘Cinquantacinque’ e lui, sempre ridendo e quasi non accorgendosi che le sue scarpe da tennis stanno sprofondando in una pozzanghera, ripete: ‘Czinqantaczinque!’. Allora sono passato io, davanti a loro, con il casco in mano, e gli ho detto ciao. Dentro al ‘Tagomago’ non c’è moltissima gente e il concerto non è ancora iniziato. Prendo una birra piccola e mentre cerco con la mano libera di scrivere un sms, mi avvicino al banchetto dei cd e delle magliette. Dietro al banchetto c’è Higashi Hisroshi (tastiere) e Okano Futoshi (uno dei due batteristi). Sdraiato sul bel divano anni settanta alla mia sinistra, vedo invece il leader della band, il, pare, mitico Kawabata Makoto (il più anziano del gruppo che ha inciso qualche album già alla fine degli anni ’70) che con gli occhi chiusi e la bocca spalancata dalla quale fuoriescono ritmicamente dei getti d’anidride carbonica, sembra che stia dormendo molto profondamente.
Alcune persone del pubblico fanno finta di passare di lì per caso, davanti al divano, e provano a buttare un’occhiata, ma Kawabata dorme proprio come un angelo giapponese sulla quarantina, e adesso che lo guardo meglio, con i capelli lunghi e gli occhialetti con la cordicella intorno al collo, noto che somiglia molto a Manuel Giannini dei sotterraneamente noti Starfuckers (ma che ora si chiamano Sinistri). Alla mia destra vedo invece il palco con gli amplificatori, un paio di chitarre, un basso, un vecchio sintetizzatore Roland Sh09 e due batterie, una ‘Supreme’ e una ‘Pearl’. Continuo a smanettare sulla tastiera del telefono ma almeno per me, scrivere sms richiede sempre una certa concentrazione, e mi è difficile farlo mentre bevo la birra e mentre oltre il display del mio Siemens C55 vedo dispiegati sul banchetto una quantità spropositata di cd, ognuno dei quali recante un post-it giallo con su scritta a penna una sintetica descrizione delle note tecniche e dei contenuti stilistici dell’album, evidentemente indispensabili ad orientarsi in una discografia che scopro essere davvero sterminata.
Higashi e Okano sembrano ipnotizzati dallo scatto prensile del mio pollice opponibile che si sposta compulsivamente da un elemento all’altro della tastiera, e poi, come se si fossero improvvisamente risvegliati da un sogno o da una visione meravigliosa, cominciano a chiamare, a gesti e con qualche oscura perifrasi giapponese, le persone che stanno lì intorno sedute ai tavolini o che deambulano per il locale senza sapere esattamente cosa fare, a parte bere dal bicchiere, visto che inspiegabilmente il concerto non è ancora iniziato, che nessuno è salito sul palco e che soprattutto nessuno sembra avere voglia di farlo. Qualcuno allora si avvicina, un po’ interdetto, e Igashi e Okano gli sventolano sotto il naso qualche cd, parlando in giapponese, ridacchiando, e quelli non sanno esattamente cosa fare, se non dire ‘Ok, ok, semmai lo compro dopo il concerto, il cd’, accompagnando la parola ‘dopo’ con quel gesto rotatorio della mano e dell’indice che si suppone universale, ma chissà se in Giappone quel gesto ha veramente lo stesso significato. Secondo me no, e comunque, a distanza di soltanto un metro dalle loro facce male incorniciate dai lunghissimi capelli neri da cavernicoli, posso sentire che i loro aliti sono caldi ed evidentemente impastati da una mistura di alcol.
Sono completamente ubriachi, ecco, e adesso mi spiego perché Kawabata, questa specie di eroe dello space rock, continui a ronfare sul divanetto alla mia destra, sebbene adesso si sia girato su di un fianco e volti le spalle ai curiosi che continuano a passargli vicino, sempre facendo finta di niente, ovvio. Adesso i due ci provano con il sottoscritto e da uno scatolone tirano fuori una t-shirt nera con una stella a cinque punte inscritta in un cerchio (si, come quella dei satanisti) e con scritto sopra, naturalmente, ‘Acid Mothers Temple’, in caratteri gotici, tutto abbastanza kitsch, francamente. ‘Cheap, it’s cheap!’, mi dicono, indicando la maglietta, ridacchiando, e poi alternando frasi in giapponese ad un inglese incomprensibile e gutturale, e poi prendono un cd, e non so perché mi fanno ‘Sonic youth, Sonic Youth ’ aggiungendo un misterioso e duro fonema giapponese che secondo me forse significa ‘come’ o ‘tipo’, a indicare cioè che ‘questo cd suona come o tipo i Sonic Youth’.
Così, dopo una pausa in cui sembriamo diventare amici, scoppiamo a ridere tutti e tre, ed io finalmente digito la lettera ‘e’ alla fine del messaggino che stavo cercando di scrivere e poi inviare: ‘Amore quando esci da lavoro vieni tagomago che c’è concerto, forse’. Circa venti minuti dopo Makoto Kawabata si sveglia e si alza dal divano e gli altri quattro Mothers Temple sbucano dai quattro punti cardinali del Tagomago, montano tutti e cinque sul palco, un po’ ciondolanti e ridacchiando, e il concerto ha finalmente inizio accolto da un applauso liberatorio.
Makoto, con i suoi lunghissimi capelli da strega, color fuliggine, comincia a pigiare le dita sulla tastiera del Roland e ne escono dei fischi cosmici che sembrano fare da preludio a qualcosa di molto grande, epico e indimenticabile. Di seguito, uno dopo l’altro, cominciano a suonare il bassista e i due batteristi. Poi Makoto lascia il sintetizzatore, raccoglie la chitarra da terra e comincia a fare una scala, sempre la stessa, per circa venti minuti, mentre gli altri della band si sforzano di creare una sorta di magmatico, cangiante e rumorosissimo sfondo sonoro.
Io intanto mi prendo una birra media e sento che qualcuno molto vicino a me afferma a chiare lettere un ‘C-H-E-P-A-L-L-E-’, mentre altra gente osserva la band con espressioni finto rapite, ed altri si titillano il pizzetto o la barba nel tipico pensoso atteggiamento dei critici musicali, ed altri/e ancora accennano con i fianchi delle movenze danzerecce, nello sforzo impotente di seguire con il corpo quelle strazianti disarmonie cosmiche che sembrano parlare/urlare d’infinito, di trance, di galassie irraggiungibili, di psicosfere inattingibili, ma che dicono anche molto di come il periodo in cui questa musica era nata ed aveva prosperato indicando frontiere cosmiche e dorati orizzonti galattici, e cioè gli anni ’70, sia definitivamente, malinconicamente e direi brutalmente tramontata, e seppellita da un’epoca, la nostra, molto più volgare e terrena. Insomma, sembra che stasera gli Acid Mothers Temple stiano recitando il proprio dramma di band-supernova che appartiene ad un altro tempo, e che in fondo, forse, resiste soltanto per vendere cd e magliette, per sopravvivere onestamente, continuando a fare ciò che ama, in questo mondo di merda alla matrix, dominato dal business e dal marketing.
Per quanto mi riguarda, con la birra, le sigarette e l’accendino a portata di mano, me ne vado un po’ fuori dal locale, nel giardino, a godermi la brezza leggera che soffia dal mare. Altri sono lì, con l’aria frastornata, i segni di un’incipiente emicrania, con le orecchie che fischiano, e qualcuno torna a ripetere l’espressione ‘che palle’ o comunque ad esternare concetti non molto diversi. Finita la sigaretta resto un po’ a parlare con chi capita e quando rientro un tizio mi dice che gli Acid hanno fatto esplodere un amplificatore.
Ecco perché, avvicinandomi al palco e guardando oltre lo schieramento di teste della prima fila, vedo Okano e Makoto abbracciati di fronte al microfono, che cantano una specie di ritornello improvvisato, una nenia stile teletubbies, e continuano per un bel po’, ridacchiando come al solito, e intonano ‘Fratelli d’Italia’ e altri motivetti famosi, con il pubblico lì impalato, congelato, che non sa che pesci prendere. E la cosa va avanti ancora per lunghissimi, interminabili minuti, finché qualcuno non si decide a dargli il ritmo con le mani e io vedo Martina sbucare dalla porta d’ingresso, e allora tutte quelle mani che improvvisamente iniziano a battere mi sembrano un applauso.
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