Aborto:7/La legge 194. Perché non si può più tornare indietro
Come porsi di fronte alla eventualità che un difetto genetico diagnosticato nell’embrione o nel feto condanni il futuro bambino non solo ad una vita di sofferenze, ma lo esponga al rischio di una morte precoce? Siamo sicuri che si tratti solo di scrupoli eugenetici?
Il valore della persona è il fulcro attorno cui ruota l’intero universo umano moderno, morale e giuridico, è appannaggio della cultura cristiana tanto quanto la chiave di volta della filosofia laica dei diritti dell’uomo.
È ragionevole che la vita umana venga tutelata fin dall’inizio: il processo della vita comincia con il concepimento, il corredo genetico unico e irripetibile che contrassegna l’individuo è già presente in nuce sin dai primi istanti della fecondazione, una volta compiuta l’unione dei gameti. Questa tutela deve necessariamente essere sempre più intensa a misura che il prodotto del concepimento sviluppa forme umane e caratteri individuali.
Tuttavia, finché il feto non ha possibilità di vita al di fuori dell’alvo materno, morale e diritto devono confrontarsi con la realtà imprescindibile della maternità come vicenda a due, in cui entrano in gioco pure i diritti e le istanze etiche riferibili alla madre, non meno importanti di quelle del nascituro.
La protezione della vita del concepito non può essere assoluta laddove è in ballo la salute e la vita della madre. Nemmeno può risolversi sempre e comunque in una prevaricazione sulla donna. La scelta di portare avanti la gravidanza non può convertirsi in una imposizione collettiva, perché il corpo della donna non è un “luogo pubblico”, in cui spetta alla comunità decidere del destino di una madre. Eppure la libertà della donna non può non fare i conti con la delicatezza del disporre della vita altrui.
La legge n. 194 del 1978 è il risultato di un compromesso tutto sommato accettabile tra le petizioni “pro life” e quelle “pro choice”, contemperando la protezione della vita del concepito con le esigenze di salute o di vita della madre, ma escludendo che il futuro del nascituro possa essere affidato completamente alla libera disponibilità della donna.
Nonostante il ritorno in auge delle posizioni antiabortiste, è auspicabile che non si facciano passi indietro.
Certo, è assolutamente scottante il tema del feto che sopravvive alla pratica abortiva. In verità, l’art. 7 della legge 194 detta una regola alquanto chiara: quando sussista la possibilità di vita autonoma del feto, il medico che esegue l’intervento interruttivo della gravidanza deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto. Eppure, ha destato molto scalpore nel febbraio di quest’anno il documento congiunto, firmato dai direttori delle cliniche di Ostetricia e Ginecologia delle quattro facoltà di Medicina delle Università romane, nel quale si afferma che “un neonato vitale, in estrema prematurità, va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio, e assistito adeguatamente”, perché “con il momento della nascita la legge attribuisce la pienezza del diritto alla vita e, quindi, all’assistenza sanitaria”, cosicché, nell’ipotesi in cui un feto nasca vivo a seguito dell’intervento abortivo, va rianimato, anche in presenza di un dissenso dei genitori, tranne nel caso in cui le cure, appalesandosi inutili, non diano luogo ad un accanimento terapeutico.
La difesa della vita è il primo dovere deontologico del medico, come prescrive la versione moderna del giuramento di Ippocrate, né possono ignorarsi i più recenti progressi della scienza - rispetto ai quali la norma sopra richiamata dimostra una ammirevole lungimiranza del legislatore del 1978 -, che danno al feto prematuro possibilità di vita non trascurabili già a partire dalla ventunesima settimana e importanti dalla ventitreesima e ancor più dalla ventiquattresima. Elevato è pure il rischio che il feto rianimato sopravviva con gravi menomazioni. Non vi è dubbio, però, che il chiaro dettato normativo prescrive in ogni caso la rianimazione, posto che con la nascita il neonato diventa persona “pleno iure” e il suo diritto alla vita non subisce più limitazioni di sorta e controbilanciamenti, con una tutela che acquista quella assolutezza che in precedenza era contenuta dalle esigenze di protezione della salute della gestante.
"Una persona per quanto piccola è sempre una persona" è lo slogan antiabortista coniato dalla filastrocca di “Ortone e il mondo dei Chi” del dott. Seuss. Ma l’integralismo, in una materia tanto complessa, non giova.
Pensare ad una gravidanza coatta, in nome dell’etica della vita, in cui ciò che conta è solo la tutela del futuro bambino, e le difficoltà, i pensieri, la salute e l’equilibrio della madre vengono respinti sullo sfondo, è un modo retrivo di affrontare i problemi della maternità, contro la donna, degradata a mera fattrice, e in spregio della sua dignità di persona.
Meglio battersi per la vita aiutando la donna a preferire la maternità piuttosto che l’aborto con concrete politiche di sostegno, con una cultura della solidarietà che stringa attorno alla donna un cordone di conforto morale e affettivo ed un contesto di ausilio logistico ed economico. Ciò che occorre evitare è che la collettività si arroghi la pretesa di scegliere in luogo della donna con un esproprio del suo progetto di vita, mentre è imperativo conservarle la prerogativa di ascoltare le ragioni della vita nell’intimo del suo foro interiore.
Si dispone della vita altrui non solo con l’aborto, ma prima e ancor di più con la scelta, più o meno volontaria, di mettere un nuovo essere al mondo.
Si suole ripetere che la legge sull’aborto e quella sulla procreazione medicalmente assistita non tutelano le aspirazioni eugenetiche dei genitori. È un nodo spinoso, per certi versi anche imbarazzante. La suggestione negativa delle aberrazioni naziste è forte. Il bambino non è merce da supermercato, né opera su commissione. Inaccettabile è solo lontanamente pensare che addirittura esista un dovere di non lasciare nascere una persona affetta da gravi malattie, perché la sua vita non è degna di essere vissuta. Né possono valere considerazioni improntate al criterio della utilità sociale, poiché semmai è la società che deve provvedere ad alleviare la sofferenza di chi è più svantaggiato. Oggi è possibile rendere meno difficile la vita di quanti sono affetti da gravi malattie o disabilità, al punto da avvicinare lo standard qualitativo della loro esistenza a quello dei normodotati. Ciononostante, diverse gravissime anomalie genetiche rimangono, purtroppo, un ostacolo insormontabile per una vita normale e, quel che è peggio, l’handicap che provocano va ben oltre ogni livello minimo di dignità umana. Come porsi di fronte alla eventualità che un difetto genetico diagnosticato nell’embrione o nel feto condanni il futuro bambino non solo ad una vita di sofferenze, ma lo esponga al rischio di una morte precoce? Siamo sicuri che si tratti solo di scrupoli eugenetici?
(fine)
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Solo da una lettura superficiale la legge 194 può sembrare una buona legge. Più che di un compromesso si tratta di una terribile ingiustizia in cui si promuove il peggior male facendolo passare per un bene imprescindibile. Come si può accettare che un bambino totalmente indifeso e innocente venga fatto a pezzi da parte di chi più dovrebbe tutelarne la salute e la vita, su richiesta di chi più dovrebbe amarlo? Per esperienza vedo come la quasi totalità delle mamme incinta non sono libere di portare avanti la gravidanza e sono spesso costrette o invitate ad abortire da chi hanno intorno, con gravi ripercussioni successive.