Aborto: 5/Wrongful life e diritto a non nascere
Sostanzialmente, la Corte di Cassazione è netta nel ritenere che l’aborto, nell’ordinamento italiano, ha unicamente finalità terapeutiche e non eugenetiche.
Esiste nell’ordinamento italiano un “diritto a non nascere se non sano”?
Una risposta negativa ci viene dalla sentenza n. 16123 del 2006 della Corte di Cassazione - sezione civile III, che argomenta sul presupposto che non vi sia un rapporto biunivoco e diretto tra malformazione prenatale e interruzione volontaria della gravidanza: il giudice di legittimità ha affermato che, secondo quanto disposto dall’art. 6 l. n. 194/1978, l’aborto non risponde a finalità eugenetiche (ossia per la sola causa che il feto è malformato), dovendo sempre ricollegarsi al pericolo di vita o per l’integrità della salute psicofisica della donna.
In precedenza, sempre la Cassazione – sezione civile III, con la sentenza n. 14488 del 2004, aveva chiarito che la tutela garantita dal nostro ordinamento all’embrione non ha come conseguenza il riconoscimento della sussistenza di un diritto a non nascere: “L’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, e non anche verso la ‘non nascita’, essendo pertanto (al più) configurabile un ‘diritto a nascere’ e a ‘nascere sani’, suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione: sotto il profilo privatistico della responsabilità contrattuale o extracontrattuale o da ‘contatto sociale’, nel senso che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie (con comportamento omissivo o commissivo colposo o doloso); sotto il profilo - latamente - pubblicistico, nel senso che debbono venire ad essere predisposti tutti gli istituti normativi e tutte le strutture di tutela cura e assistenza della maternità idonei a garantire (nell’ambito delle umane possibilità) al concepito di nascere sano. Non è invece in capo a quest’ultimo configurabile un ‘diritto a non nascere’ o a ‘non nascere se non sano’, come si desume dal combinato disposto di cui agli artt. 4 e 6 della legge n. 194 del 1978, in base al quale si evince che: a) l’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente a tale termine); b) trattasi di un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla madre; c) le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano esclusivamente nella misura in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante, e non già in sé e per sé considerate (con riferimento cioè al nascituro ). E come emerge ulteriormente: a) dalla considerazione che il diritto di ‘non nascere’ sarebbe un diritto adespota (in quanto ai sensi dell’art. 1 cod. civ. la capacita’ giuridica si acquista solamente al momento della nascita e i diritti che la legge riconosce a favore del concepito - artt. 462, 687, 715 cod. civ. - sono subordinati all’evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita), sicché il cosiddetto diritto di ‘non nascere’ non avrebbe alcun titolare appunto fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso risulterebbe peraltro non esistere più; b) dalla circostanza che ipotizzare un diritto del concepito a ‘non nascere’ significherebbe configurare una posizione giuridica con titolare solamente (ed in via postuma) in caso di sua violazione, in difetto della quale (per cui non si fa nascere il malformato per rispettare il suo ‘diritto di non nascere’) essa risulterebbe pertanto sempre priva di titolare, rimanendone conseguentemente l’esercizio definitivamente precluso. Ne consegue che è pertanto da escludersi la configurabilità e l’ammissibilità nell’ordinamento del c.d. aborto "eugenetico", prescindente dal pericolo derivante dalle malformazioni fetali alla salute della madre, atteso che l’interruzione della gravidanza al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 6 legge n. 194 del 1978 ( accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8 ), oltre a risultare in ogni caso in contrasto con i principi di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e di indisponibilita’ del proprio corpo ex art. 5 cod. civ., costituisce reato anche a carico della stessa gestante (art. 19 legge n. 194 del 1978), essendo per converso il diritto del concepito a nascere, pur se con malformazioni o patologie, ad essere propriamente - anche mediante sanzioni penali - tutelato dall’ordinamento. Ne consegue ulteriormente che, verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto d’informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto ovvero di altrimenti avvalersi della peculiare e tipicizzata forma di scriminante dello stato di necessità (assimilabile, quanto alla sua natura, a quella prevista dall’art. 54 cod. pen. ) prevista dall’art. 4 legge n. 194 del 1978, risultando in tale ipotesi comunque esattamente assolto il dovere di protezione in favore di esso minore, così come configurabile e tutelato (in termini prevalenti rispetto - anche - ad eventuali contrarie clausole contrattuali: art. 1419, secondo comma, cod. civ.) alla stregua della vigente disciplina”.
Sostanzialmente, la Corte di Cassazione è netta nel ritenere che l’aborto, nell’ordinamento italiano, ha unicamente finalità terapeutiche e non eugenetiche: esso è diretto a proteggere la salute psicofisica della gestante da un serio (fino al terzo mese) e poi grave (successivamente) pericolo. L’interruzione volontaria della gravidanza non può servire a soddisfare le aspirazioni eugenetiche dei genitori (v. Tribunale di Catania, 3 maggio 2004, in Diritto Ecclesiastico, 2004, II, 283), né è possibile costruire “un diritto di non nascere” che “avrebbe il significato di affermare una sorta di eutanasia prenatale, in netto contrasto sia con i principi di solidarietà di cui all’art. 2 cost., sia con i principi di indisponibilità del proprio corpo di cui all’art. 5 c.c.” (Emanuela Giacobbe, “Wrongful life e problematiche connesse”, Giustizia Civile, 2005, 1, 136). Le malformazioni rilevano non in sé e per sé ma solamente se fanno insorgere un pericolo per la salute della gestante.
La Suprema Corte italiana rimane ancorata ad una concezione che esclude la soggettività giuridica del concepito, regolando l’aborto come un diritto della donna legato unicamente alla tutela della sua salute ed in tale ottica negando l’ammissibilità di un interruzione della gravidanza motivata da ragioni eugenetiche. Ma, a maggiore ragione, dovrebbe non ammettersi l’esistenza di un diritto a non nascere anche ove al concepito si riconoscesse lo status di persona, una volta preso atto della tutela che l’ordinamento appresta in suo favore, in quanto a nessun soggetto è riconosciuto un diritto alla propria soppressione (v. sempre: Emanuela Giacobbe, “Wrongful life e problematiche connesse”, cit.), come testimoniano le norme penali che puniscono l’omicidio del consenziente ovvero l’istigazione e l’aiuto al suicidio (artt. 579 e 580 codice penale).
Il diritto a non nascere inevitabilmente contrasta con i doveri di solidarietà imposti dall’art. 2 della Costituzione, come pure con tutte quelle norme a protezione del concepito rintracciabili nella legge 194, nelle disposizioni a tutela delle lavoratrici madri e sui consultori familiari (Tribunale di Roma, 13 dicembre 1994, Diritto di famiglia, 1995, pag. 662: citata da Marco Rossetti, “Danno da nascita indesiderata: la Suprema corte mette i paletti”, Diritto e Giustizia, 2004, 33, 8).
Eppure, la tentazione a riconoscere un diritto a non nascere è stata avvertita anche in altri ordinamenti. La Corte di Cassazione francese, nel famoso caso Perruche, con la sentenza del 17 novembre 2000-99.13.701 (richiamata da Marco Rossetti, “Danno da nascita indesiderata: la Suprema corte mette i paletti”, cit; v. pure Marilena Gorgoni, “La nascita va accettata senza ‘beneficio d’inventario’ ”, Responsabilità civile e previdenziale, 2004, 6, 1349), nel riconoscere il diritto del bimbo nato malformato a chiedere il risarcimento perché il comportamento dei medici aveva impedito alla madre la possibilità di esercitare la scelta di interrompere la gravidanza al fine di evitare la nascita di un bambino affetto da handicap, diede adito alla elaborazione di un diritto a non nascere, fondato sulla considerazione che la vita di un bambino malformato è una vita “ingiusta” e la sua nascita rappresenta un pregiudizio evitabile con l’aborto. La reazione dell’opinione pubblica d’oltralpe fu pronta, al punto da portare all’adozione di un provvedimento legislativo, la legge n. 2002-303 del 4 marzo 2002 (v. Marilena Gorgoni, “La nascita va accettata senza ‘beneficio d’inventario’ ”, cit.), che a chiare lettere esclude che qualcuno possa dolersi di un pregiudizio per il solo fatto della nascita, troncando ogni deriva eugenetica del dibattito sulle nascite indesiderate.
Anche nella giurisprudenza inglese, americana e tedesca la questione è stata agitata (v. sempre Marilena Gorgoni, “La nascita va accettata senza ‘beneficio d’inventario’ ”, cit.). Il trend delle soluzioni appare univoco: il “tort of wrongful life” stenta a trovare cittadinanza, tendendosi ad escludere la consacrazione di un vero e proprio diritto a non nascere e limitando il risarcimento ai costi di mantenimento e cura conseguenti alla nascita indesiderata imputabile alla negligente condotta e all’omessa informazione dei genitori da parte dei sanitari durante la gravidanza.
Si fa strada, pertanto, negli ordinamenti occidentali una comune sensibilità, tesa a escludere l’ammissione di un diritto a non nascere: nemmeno l’ingiustizia di una vita gravemente segnata dalla disabilità o da malattie genetiche appare tale da legittimare pratiche eugenetiche.
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La Corte di Cassazione mi impedisce di guardare una donna negli occhi perchè si configurerebbe molestia.