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AI: fabbriche senza operai, scuole senza professori

Per poter immaginare il futuro è necessario uscire dalla caverna della fatalizzazione del presente, dobbiamo testimoniare che i processi non sono inesorabili, poiché sono posti dall’umanità.

di Salvatore A. Bravo - venerdì 6 settembre 2024 - 412 letture

Il taglio

L’intelligenza artificiale è solitamente presentata come una opportunità, essa dovrebbe essere d’ausilio ai più fragili e nel medesimo tempo emancipare dai lavori faticosi. La parte va riportata al tutto, per cui le tecnologie e il loro uso devono essere comprese alla luce del sistema capitalistico. Il capitalismo è nella sua essenza menzogna nella forma degli slogan. Per far accettare l’inaccettabile la campagna pubblicitaria è sempre in azione; ripetere il messaggio è il mezzo con cui vincere le resistenze fino a inocularlo nel sangue e nella carne dei sudditi. Le parole somatizzate dagli slogan divengono in tal modo automatismi a cui si dice il fatale “sì” irriflesso. Il capitalismo ha la sua forza nella capacità di porre in atto processi segnati da automatismi e dunque senza la mediazione della coscienza. La morte è in tal modo nel corpo del capitale.

L’intelligenza artificiale completa il ciclo di mutazione antropologica avviato dalla Rivoluzione industriale. L’uomo ibridato con la macchina si profila essere l’ordinaria normalità del futuro.

Il capitalismo è visione del mondo curvata sull’atomistica delle solitudini. La società non esiste, esistono solo gli individui in tragica lotta non solo per il profitto ma anche per il riconoscimento della presunta superiorità gerarchica. Guerra e lotta sono le nefande qualità del capitale. Non vi sono universali, non vi sono fini oggettivi o limiti etici, l’individuo è l’unica realtà che si dissipa nella lotta, egli è in uno stato di metamorfosi continua per potersi adattare all’ipostasi del mercato e nel contempo ambisce a guidarlo. Ha l’illusione di esserne il “padrone e il signore”, in realtà il disincanto sopraggiunge presto con le sue inevitabili patologiche depressioni. La logica individualistica germina nel micro e nel macro. La comunità è solo giustapposizione insensata di individualità speculare al micro, ovvero alle istituzioni e alla famiglia. Nessun legame deve sopravvivere, è tollerata solo l’alleanza tattica e strategica contro eventuali nemici di ordine economico o carrieristico. Il capitalismo opera un taglio tra le persone e tra la realtà e l’individualità. Può sopravvivere solo mediante la ferita che produce con i conseguenti conflitti orizzontali, in modo da occultare la verità. La rete non crea relazioni ma trasmissioni di dati e di immagini. Essa è l’operatrice massima dell’isolamento politico ed emotivo.

Si prenda il caso dell’istituzione scolastica oggetto di continue critiche e di perenni riforme finalizzate a distruggerne le fondamenta democratiche. Non pochi pedagogisti organici al sistema sostengono il superamento delle classi, ultimo residuo di comunità all’interno della scuole, e l’avvio di programmi differenziati e adeguati ai ritmi, all’intelligenza e a livello degli apprendimenti del singolo. Tale attività nelle classi si è sempre svolta, ma all’interno del gruppo classe. I limiti dell’agire didattico erano dovuti alle classi numerose, alla povertà dei mezzi e al numero esoso di obblighi burocratici da parte dei docenti. Il sistema, invece, condanna la comunità classe, in quanto, afferma, è “spazio-tempo”, in cui le individualità non sono valorizzate.

L’individualizzazione atomistica è il punto finale dell’addestramento delle giovani generazioni, similmente a tutto il sistema, alla solitudine competitiva. Su questo humus prepara il passaggio-superamento dalla relazione docente-alunni con “il rapporto” rapporto IA-alunno.

Scuole senza professori

I programmi gestiti da piattaforme risulterebbero adeguati al ritmo dei singoli e risponderebbero alle reali esigenze degli stessi. L’attività didattica usufruirebbe anche dei visori per la realtà aumentata con cui vivere realtà altre. Individui separati e dipendenti da piattaforme adeguatamente controllate nei contenuti e senza dialettica dialogica segnerebero il passaggio “al tempo nuovo”, in cui l’individuo è solo il duplicato dell’automa. Questa distopia è già realtà in via sperimentale, ma ci si può scommettere che l’affare economico e politico si estenderà in tempi veloci. Le multinazionali già gongolano per il nuovo mercato che si apre nel silenzio dei pedagogisti e di tutti gli atei devoti genuflessi al sistema.

In Inghilterra ventidue studenti al costo di trentamila euro cadauno (corrispettivo in euro) si prepareranno all’esame Gcse che si tiene a sedici anni con visori e IA in una scuola senza docenti. Nessun rapporto dialettico, nessuna discussione nel paese del “debate”, ma solo IA e alunni. La sperimentazione si terrà al David Game College. In classe saranno presenti solo tre tutor, i quali si occuperanno principalmente di problemi tecnici. Di tale sperimentazione si tace e non si discute, sicuramente l’intento è preparare la svolta. Gli articoli che riportano la notizia sono brevi e scarni. La propaganda, anche in Italia, continua ad affermare che la classe non consente di sviluppare i talenti e le difficoltà personali e, naturalmente, si può ipotizzare, che presto ci comunicheranno la soluzione: l’IA al posto dei docenti ridotti a funzione di controllo delle macchine. Le finanze pubbliche non potrebbero che “giubilare”, se la sperimentazione inglese fosse introdotta gradualmente nelle scuole pubbliche.

Tutto si misura sulla quantità, i bisogni umani sono solo l’orpello del sistema. L’Italia sempre meno sovrana e sempre più dipendente dalle oligarchie anglosassoni e che ha già sperimentato la scuola, non in presenza, con il covid sarà sicuramente, tempo qualche anno, tra le più solerti imitatrici del nuovo modello disumanizzante. Il PNRR nelle scuole italiane è curvato sulle tecnologie e sull’IA. Vi è da chiedersi dove sia l’Umanesimo e il pensiero divergente che hanno reso l’Italia una delle patrie del pensiero filosofico. Al suo posto regna il silenzio dell’adattamento veloce alla disumanizzazione che ci troverà perdenti. Immaginate un ragazzo già dipendente da smartphone e PC con gli inevitabili problemi linguistici e relazionali che ne conseguono catapultato in una realtà distopica, in cui la relazione è solo trasmissione di dati preconfezionati con percorsi strutturati dall’IA e con la percezione distorta dei visori. Patologie e passioni tristi già densamente presenti saranno la normalità.

Il “senso della scuola” è l’emancipazione dai processi di derealizzazione. Visori e piattaforme non posssono che alienare dalla realtà e, specialmente, da se stessi. Senza il contatto diretto con l’alterità che si presenta sempre in un contesto spazio-temporale che ci interroga l’essere umano divento straniero a sé e al mondo. Non è toccato da nulla e non tocca, pertanto deperisce per irrealtà inoculata.

A questi ragazzi che sperimentano dopo lauto pagamento e che presto potrebbero essere in tanti mancherà l’esperienza del mondo vissuto senza il quale non si diventa uomini. Non conosceranno lo sguardo del docente capace di comunicare con la sua intensità fallimenti, progressi e succcessi. Tra i gesti più ricorrenti che si osservano nel bambino come nell’adulto c’è la ricerca dello sguardo mediante il quale si intuisce di esistere nella vita emotiva dell’altro. Una scuola senza sguardi non può che essere affetta da “analfabetismo emotivo”. Dovremmo chiederci che tipo di uomo-donna diventerà una creatura che ha sostituito nella sua formazione la parola e lo sguardo vivente con i semplici freddi dati. Tali perverse storture didattiche non potranno che inaugurare nuovi tipi di intelligenza senza la profondità dell’interiorità, o meglio il ridimensionarsi della vita interiore non potrà che condurre a pericolose compensazioni.

Abituarsi a non essere guardati ma solo ad essere controllati e guidati non potrà che portare alla disperazione sempre gravida di violenza. Progettare la disumanizzazione con il consenso dei subalterni turlupinandoli mediante slogan è atto malvagio, perché è contro l’umanità dei singoli. I nostri ragazzi, e non solo, schiacciati dalle tecnologie chiedono più umanità per poter vivere un’esistenza semplicemente umana; l’alternativa alla comunità è un sistema tecnocratico che produce forme di patologie psichiatrica sconosciute. Dinanzi a noi si profila una tempesta che richiede partecipazione ed umanesimo.

Nessun Dio verrà a salvarci; la politica attuale è complice dei processi distruttivi in atto, pertanto solo una solida organizzazione culturale dal basso potrà invertire una condizione che pare fatale, ma non lo è, nell’ambito dell’umano sono le decisioni comunitarie e di classe a dirigere nelle condizioni date la storia. Dobbiamo defatalizzare il nostro tempo storico, è il nostro imperativo etico.

Nelle scuole anziché accettare passivamente l’uso dell’IA bisognerebbe contrapporre ai desiderata del dominio la riumanizzazione della didattica con la discussione e con la lettura per poter pensare rischi e potenzialità delle nuove tecnologie, e specialmente, bisogna ritrovare la forza etica per dire “no”. Troppi “sì” sono stati detti e ora ne paghiamo drammatiche conseguenze. I “no” che non sono stati detti hanno portato all’aziendalizzazione della vita e di ogni vita. Il profitto e il dominio si sono infiltrati nella vita comunitaria fino a trasformarla in “disperata tecnocrazia”. Riportare al centro i reali bisogni è la Rivoluzione a cui dobbiamo ambire come singoli, come comunità e come classe.

Dalla storia si impara solo se si ricerca in sé e collettivamente la forza etica per riappropriarci del futuro che ci vorrebbero togliere in cambio di rassicuranti algoritmi. Dovremmo rileggere Günther Anders e cominciare a pensare il presente e il futuro con il filosofo della “vergogna prometeica” che con gli occhi della civetta-filosofia ha visto profilarsi della tragedia in atto.

Per poter immaginare il futuro è necessario uscire dalla caverna della fatalizzazione del presente, dobbiamo testimoniare che i processi non sono inesorabili, poiché sono posti dall’umanità. Non abbiamo bisogno di “integralismo tecnologico”, ma della chiarezza del “bene e del male”. Solo con la definizione condivisa del concetto di “bene” sarà possibile acquisire parametri di valutazione e discernimento per stabilire in quali spazi e in quali tempi utilizzare le tecnologie.


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