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A scuola di Tutor…

Siamo ad un bivio, dobbiamo scegliere se essere acritiche presenze che accettano passivamente il nuovo corso dell’inclusione pedagogica o se dobbiamo sostenere il pubblico dibattito sui destini e sulle finalità della scuola.

di Salvatore A. Bravo - giovedì 15 febbraio 2024 - 626 letture

Si susseguono nella scuola figure finalizzate al tutoraggio; proliferano nuovi profili che si aggiungano ai già numerosi presentii. Gli alunni sono oggetto delle attenzioni professionali di una serie di figure finalizzate all’orientamento, al recupero formativo e al disagio psicologico. Sono in netto aumento quantitativo anche le programmazioni individualizzate e una serie di interventi ad hoc, anche per brevi periodi, al fine di sostenere situazioni di disagio psicologico. L’insieme di tali interventi restituisce l’immagine di una realtà scolastica fortemente segnata da ansia e da incapacità degli alunni di agire in modo positivo alle normali frustrazioni.

In tale condizione i docenti divengono figure ambivalenti, in quanto devono sorvegliare e segnalare i disagi.

Lo sguardo del docente deve soppesare deviazioni e disagi al fine di organizzare un intervento efficace da condividere con genitori: Consigli di classe e figure esterne che solitamente sono d’ausilio ai docenti. L’occhio pedagogico si moltiplica in modo esponenziale, l’inclusione diviene, spesso inconsapevolmente, controllo dell’alunno. Si potrebbe ipotizzare una doppia causa per il problema dell’ansia degli alunni da molti denunciata, e a cui si fa fronte attaccando la scuola nella funzione formativa. L’attività pedagogica e didattica ha nel suo processo momenti di arretramento, insuccessi e incomprensioni, ciò è la normalità dei percorsi di crescita, i quali sono dinamici e instabili. La demonizzazione irrazionale di ogni frustrazione e difficoltà e la logica del prontosoccorso continuo non può che strutturare personalità fragili e ansiogene. La disabitudine a confrontarsi con le ordinarie difficoltà della crescita e della didattica non può che produrre personalità strutturalmente fragili. Ci si trova dinanzi ad una anomala condizione: le istituzioni che dovrebbero formare nel carattere e nello spirito i futuri cittadini, combattono devianze e ansie, ma finiscono col produrle a causa di interventi non adeguati e che tendono verso l’iperprotezione. L’alunno dev’essere ascoltato, ma si dovrebbe essere fiduciosi nella sua autonomia, e bisognerebbe intervenire solo nei casi difficili e complessi, poiché il fine della famiglia come della scuola è l’autonomia.

Immaginiamo un ragazzo che nel corso della formazione abbia ricevuto sempre “sì” a prescindere dal suo reale impegno in nome di una “didattica donativa”. La realtà rigettata e rimossa non può scomparire nel mondo edenico di un mondo senza difficoltà, è probabile che al primo “no” l’ansia possa assediare l’alunno incapace di gestire situazioni inusuali e che richiedono plasticità emotiva e intellettiva che non ha avuto occasione di mettere in atto. Il rischio dell’iperprotezione è di produrre ansia, anzi l’iperprotezione in una scuola in cui i contenuti e l’impegno devono essere minimi è diventato in non pochi casi il nuovo fondamento della didattica. A tutto ciò bisogna aggiungere che la scuola azienda è pressata dal numero degli iscritti, per cui sotto una certa soglia si perde la direzione. L’alunno-cliente è osannato e accontentato, poiché la scuola dipende dal mercato delle iscrizioni. Per vincere o meglio per sopravvivere l’istituzione deve gratificare l’alunno, tanto più che la presenza di genitori e la minaccia dei ricorsi finiscono per far percepire ai docenti un senso d’impotenza formativa, per cui non resta che soddisfare ogni desiderio dell’alunno- cliente.

In tale clima si è affermata la figura del tutor per l’orientamento. La domanda non può che sorgere sovrana: Non c’era già il PCTO? Ma a prescindere dalla domanda, si può supporre che tale duplicazione potrebbe condizionare in negativo l’autonomia della scelta degli alunni. Per orientarsi nella scelta della scuola superiore o delle facoltà sarebbe sufficiente lasciar libero l’alunno di ascoltare le sue passioni. Frequentare la scuola significa scoprire le proprie passioni, coltivarle e trasformarle successivamente in attività lavorative. Già Platone nella Repubblica insegnava che uno Stato è giusto se ciascuno può esprimere le proprie passioni e ricoprire il ruolo adeguato. La presenza di figure che devono essere d’ausilio per l’orientamento all’interno della cornice descritta non può che rafforzare forme di dipendenza. Naturalmente solitamente si rimuove la causa prima e pervasiva dell’ansia: la competizione che è entrata nelle scuole ed è divenuta divisoria. Alunno contro alunno e genitori contro docenti tale legge non può che favorire le passioni tristi che constatiamo quotidianamente. La domanda che tutti ci dovremmo porre, giacché la formazione è interesse della nazione tutta è che tipo di cittadino vogliamo, formiamo e desideriamo.

Se le istituzioni formative formano alla dipendenza, si può supporre che stiamo allevando cittadini che un giorno chiederanno un “tutor” che li liberi dall’ansia della scelta. Il problema fortivo è dunque di tipo politico. La dipendenza e l’iperprotezione non formano alla responsabilità e alla libertà, e non vi è libertà senza errori e rischi, per cui si rischia di formare sudditi anziché cittadini e questo dovrebbe preoccupare i cittadini che hanno nella mente e nel cuore la cura dei futuri cittadini.

Dobbiamo imparare a riconoscere i pericoli per poterli neutralizzare; siamo in un momento storico in cui l’ascolto e l’esame oggettivo sembrano obliarsi, eppure ciò malgrado lo spirito etico della Filosofia non può rinunciare a sollevare dubbi e a cercare risposte. L’agire filosofico è prassi corale, per cui condividere dubbi e osservazioni nelle istituzioni e nella vita privata è già il primo passo verso un processo di liberazione dai dogmi del “politicamente corretto pedagogico” sotto il quale vi sono vite in formazione e tanti docenti disorientati che potrebbero esserne schiacciati.

Al disorientamento generale dobbiamo dare delle risposte funzionali al “bene dei singoli alunni e della comunità. Siamo ad un bivio, dobbiamo scegliere se essere acritiche presenze che accettano passivamente il nuovo corso dell’inclusione pedagogica o se dobbiamo sostenere il pubblico dibattito sui destini e sulle finalità della scuola. Uscire dalla narcosi che regna e ci rende tutti complici è un imperativo etico; l’alternativa è la rapida disumanizzazione di una nazione che ha perso ogni bussola onto-assiologica.

Porre domande, dunque, è il modo per comprendere coralmente che le scelte didattiche e formative non sono tutte eguali e tutte buone, bisogna ricominciare ad affermare i “no” dialettici. Discutere della scuola significa per una nazione mettersi allo specchio e guardare il suo volto reale dietro il velo dell’ignoranza-incoscienza che tanto offusca il crudo vero. Ciò che ancor più inquieta in tale cornice è il silenzio dei docenti e dei genitori. All’adeguamento passivo bisogna opporre la pubblica riflessione generale sulla formazione e sulla preparazione umana dei nostri figli ed alunni. Guardandoli possiamo immaginare il mondo che verrà e il nostro presente.


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