30 anni da Srebrenica

Trent’anni dopo, ricordare quella strage non è solo un atto di memoria ma è un imperativo, perché oggi, sotto i nostri occhi, sta accadendo ancora.
Il mese di luglio ci riporta a una ferita ancora viva nella storia europea. Nel 1995, nella città di Srebrenica, più di 10.000 uomini e ragazzi musulmani furono uccisi dalle forze serbo-bosniache. Un genocidio consumato in pochi giorni, in una “zona protetta” dalle Nazioni Unite, mentre il mondo guardava.
Trent’anni dopo, ricordare quella strage non è solo un atto di memoria ma è un imperativo, perché oggi, sotto i nostri occhi, sta accadendo ancora.
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A Gaza stiamo assistendo alla distruzione sistematica di una popolazione intera. Persone uccise sotto i bombardamenti, affamate, private di ogni possibilità di salvezza. Intere famiglie cancellate. I nostri occhi sono puntati su Gaza, per documentare i crimini commessi, chiedere con forza che si ponga fine al genocidio in corso e pretendere giustizia.
Nel 2005, dieci anni dopo Srebrenica, abbiamo lanciato la campagna “Questa volta lottiamo contro la libertà” per rompere il silenzio e denunciare l’impunità. Oggi, nel 2025, quella campagna parla a questo presente ed è per questo che abbiamo voluto dedicarle il calendario di luglio, perché solo ricordando possiamo reagire.
Ricordare Srebrenica oggi significa riconoscere i segnali che troppo spesso scegliamo di ignorare e non accettare che l’impunità si ripeta.
STORIA
Nel giro di alcuni giorni del luglio 1995, in quello che è passato alla storia come il genocidio più breve, vennero uccisi almeno 8372 (secondo la commissione diretta dall’ex ministro polacco Tadeusz Mazowiecki, rapporteur speciale della Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani) o più verosimilmente, secondo i sopravvissuti e altre testimonianze, almeno 10700 musulmani bosniaci, per la maggioranza ragazzi e uomini.
Il genocidio fu perpetrato da unità dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, guidate dal generale Ratko Mladić (condannato in primo grado all’ergastolo dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia), in quella che nel 1993 era stata dichiarata dalle Nazioni Unite “zona protetta” e che si trovava, nel 1995, sotto la tutela di un contingente olandese.
La “zona protetta” di Srebrenica fu delimitata dopo un’offensiva serba del 1993 che obbligò le forze bosniache a una demilitarizzazione sotto controllo dell’ONU. Le delimitazioni delle zone protette furono stabilite a tutela e difesa della popolazione civile bosniaca, quasi completamente musulmana.
Il 9 luglio 1995, la “zona protetta” di Srebrenica e il territorio circostante furono circondati dalle truppe dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, che l’11 luglio riuscì a entrare definitivamente nella città.
Perché Srebrenica? Perché era un’anomalia: un’enclave a maggioranza musulmana in una parte di Bosnia ormai del tutto “serbizzata”.
Per far aderire sul campo i confini della “nuova” Bosnia, che sarebbero stati sanciti negli accordi spartitori di Dayton, occorreva mettere fine a quell’anomalia. Tutti erano d’accordo che Srebrenica dovesse essere sacrificata, la storia (non la giustizia, purtroppo) ci dirà se i leader internazionali dell’epoca erano consapevoli del progetto genocida che si stava per compiere.
Dall’11 luglio, i maschi dai 12 ai 77 anni (e, come si vedrà, non solo loro) furono separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani, apparentemente per essere interrogati; in realtà vennero uccisi e sepolti in fosse comuni.
Circa 15000 uomini e ragazzi cercarono rifugio in quella che fu chiamata la Marcia della morte fra Srebrenica e Tuzla e solo 6000 riuscirono a salvarsi, scappando attraverso boschi e villaggi su strade accidentate e sentieri fangosi, percorrendo oltre 100 chilometri. Ancora oggi in memoria di quel percorso molte presone lo percorrono a ritroso per 35 km al giorno, in quella che oggi è chiamata la Marcia della Pace. Anche quest’anno, ci sarà questa marcia ma con solo 700 persone (rispetto alle migliaia degli anni passati), un numero contingentato per l’emergenza sanitaria in corso.
L’orrore delle loro storie è accentuato dal fatto che i massacri si sono svolti solo in pochi giorni. Anche se si riesce a controllare le emozioni, considerando solo le cifre, il risultato è sconcertante: circondare migliaia di uomini, catturarli, ucciderli, bruciarli, scavare fosse per seppellirli – si tratta di uno sforzo mostruoso che può essere portato a termine in alcuni giorni solo se ci sono migliaia e migliaia di perpetratori. Il solo cercare di comprendere la portata del genocidio è insopportabile, ascoltare i particolari delle storie raccontate dai sopravvissuti è straziante. Immaginare migliaia e migliaia di uomini armati che perlustrano i boschi in cerca della loro preda e chiedersi: “Perché?”
Nel processo di primo grado nei confronti dell’ex leader militare serbo bosniaco Ratko Mladić, terminato con la condanna all’ergastolo, il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha riconosciuto le responsabilità individuali di Mladić, in quanto comandante dell’esercito serbo bosniaco, giudicandolo colpevole di 10 imputazioni su 11. L’ex generale serbo bosniaco è stato giudicato responsabile, tra l’altro, di genocidio, persecuzione per motivi etnici e religiosi ai danni di musulmani bosniaci e croato bosniaci, sterminio, deportazione, omicidio, terrore, attacchi illegali contro i civili e cattura di ostaggi. Il processo è stato uno dei più lunghi della storia, a causa della vastità delle accuse, della quantità di prove (compresi 592 testimoni) e dei vari tentativi della difesa di ritardare o far terminare il procedimento giudiziario.
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