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11 gennaio: il Duca Bianco, i versi di Faber e il piccolo Giuseppe Di Matteo

Venti anni fa la mafia uccideva e scioglieva nell’acido Giuseppe Di Matteo, il ragazzino amante dei cavalli, figlio di un collaboratore di giustizia.

di Piero Buscemi - lunedì 11 gennaio 2016 - 3315 letture

Ci sono date nefaste del calendario, che sembrano concepite per rodere il cervello con i ricordi e le emozioni che, solo in parte, il tempo addolcisce in preconfezionate consolazioni. L’undici gennaio è una di queste.

Una di quelle date che attraversano la mente di chi coltiva la passione di cercare una notizia da seguire, commentare e provare a far ricordare. Fare giornalismo appare un luogo comune riduttivo, cimentandosi in questo labirinto di eventi, mistificati e gettati in pasto a distratti lettori, quali anche noi ci riconosciamo, più di quanto ci illudiamo di negare.

Si finisce per concentrarsi su una ricorrenza che, più delle altre, cattura la nostra sensibilità e che affiniamo attraverso parole ricercate, certi che potrà attirare anche la curiosità di chi leggerà. E allora, quale miglior ricorrenza della morte di Fabrizio De Andrè, che ci ha lasciati diciassette anni fa?

Scovare nel suo repertorio i versi di una canzone che avevamo dimenticato. Provare ad evidenziare un aneddoto, letto tra le righe di una delle sue innumerevoli biografie. Ricordare con un groppo di nostalgia una sua apparizione in televisione, non meno emozionante da quei colori analogici scomputi dal tempo.

Sforzarsi a trasmettere quelle sensazioni, che hanno inciso la propria vita, custodite in attimi che riavvolgiamo come un vecchio nastro, affidandole alla nostalgia di quelle parole scritte da De Andrè che, lo ribadiamo anche in questa occasione, avremmo voluto pensare noi.

E mentre siamo impegnati a comporre quello che pensiamo, con presunzione, sarà il miglior memorandum di quest’anno, ci arriva la notizia della morte di David Bowie. Ci sentiamo smarriti e strattonati tra i versi de Il Testamento di Tito, che suona in sottofondo, e quel ricordo sbiadito del clown Ziggy che, non riusciamo a capire il perché, ci richiama un vecchio film di inizio anni ’80, dal titolo Furyo.

L’istinto ci spinge a pensare di non deviare l’attenzione da quelle parole, che ci ostiniamo a chiamare "articolo", ma la parte umana di ognuno di noi prevale su quel distacco non coinvolto che una folle deontologia pretenderebbe dalla penna che ha lasciato il posto, da anni ormai, alla fredda tastiera di un pc.

Non riusciamo a trovare altre espressioni che sappiano tradurre la rabbia che ci assale, mentre i ricordi si confondono, graffiati con quei vinili che sappiamo di dover rispolverare per accostarli ad altri momenti che avevamo deciso inutilmente di archiviare.

Una parte della mente, per fortuna, vive autonomamente e scivola tra gli anni di un’adolescenza che avremmo voluto narcotizzare. Riviviamo frammenti di un’esistenza che, adesso più di allora, ammettiamo sarebbe stata più banale. Senza quella voce asciutta e dura del Duca, che ci ha sempre ricordato Lou Reed. Senza quella timida chitarra di Faber, a farci comporre poesie d’amore nelle nostre segrete notti solitarie. Senza quella voglia di fermare il solco del vinile, solo per paura che la canzone finisca.

Mentre siamo lì, a pensare a tutto questo, un servizio televisivo da San Giuseppe Jato invade la confusione mentale, ormai padrona della scena, e ci sbatte in faccia il ricordo del quindicenne Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido dalla mafia venti anni fa.

Fa riflettere il commento del cronista televisivo, quando pronuncia "la colpa del padre pentito", pagata dall’innocenza di un ragazzino. A volte verrebbe soltanto voglia di scrivere: Provo vergogna ad essere un uomo.


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