Pubblicato sabato 11 novembre 2006.
La città e l’isola : Omosessuali al confino nell’Italia fascista / di Gianfranco Goretti, Tommaso Giartosio. - Roma : Donzelli, 2006. - (Saggine). - pp.XI-276
Il libro sarà presentato il 29 novembre 2006 a Catania, biblioteca della facoltà di scienze politiche, Via Cardinale Dusmet 163, ore 16.30, alla presenza degli autori. Ne parleranno Rosario Mangiameli, Salvatore Lupo, Ernesto de Cristofaro, Giuseppe Barone.
A seguito di meticolose indagini, decine di catanesi, in gran parte giovani o giovanissimi, vengono prima incarcerati, poi mandati al confino alle Tremiti fino allo scoppio della guerra, in due casermoni sull’isola di San Domino. Tornati a Catania, cercheranno di dimenticare e far dimenticare ciò che hanno vissuto. Pochissimi di loro, a distanza di decenni, hanno accettato di raccontarlo.
A partire da queste testimonianze e da fonti d’archivio, Goretti e Giartosio ricostruiscono un mondo che sembrava scomparso nel nulla. Gli appuntamenti sulla spiaggia di notte, le sale da ballo per soli uomini, le complicità, le rivalità, i travestimenti, gli espedienti, la paura, l’amore. E poi, dopo l’arresto, gli stratagemmi messi in atto dalle famiglie, le situazioni paradossali della vita al confino, i tentativi quasi sempre vani di rivendicare la propria innocenza e guadagnarsi la libertà.
Il tutto nel contesto di un’Italia provinciale, tenera ma più spesso spietata, in cui l’omosessuale è schernito di giorno e cercato di notte da uomini che non si ritengono omosessuali. Un’Italia stregata dal fascismo, che all’indomani delle leggi razziali è deciso a reprimere qualsiasi minaccia all’«integrità della stirpe», e che colpirà, con il tacito consenso dei più, centinaia di «invertiti».
Indagine antropologica, riflessione sull’identità, appello alla memoria civile di un paese che facilmente dimentica, questo libro è prima di tutto una storia. La storia di un gruppo di ragazzi del Sud, vissuti in un’Italia diversa (ma non troppo) dalla nostra e puniti perché erano innocenti.
Gli autori
Gianfranco Goretti ha svolto fin dal 1987 ricerche sul confino degli omosessuali sotto il fascismo, approdate a una tesi di laurea in storia moderna e a diverse pubblicazioni. Insegna nelle scuole superiori.
Tommaso Giartosio è narratore e saggista. Ha pubblicato Doppio ritratto(Fazi, 1998, PremioBagutta Opera prima) e Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo(Feltrinelli, 2004). È uno dei conduttori del programma di Rai Radio Tre «Fahrenheit».
Commenti e articoli sul libro
Illuminista
illuminista@tiscali.it (29-05-2006)
Lo studio di Goretti e Giartosio sul confino fascista riservato ad alcuni mal capitati omosessuali della fine degli anni Trenta, ha il merito di aver reso più palpabile il dramma che riguardò le vittime di quella che fu, senza ombra di dubbio, una vera e propria persecuzione. Gli autori escono dall’accademismo forzato, anche se indispensabile, di chi ha analizzato il fenomeno storico sotto un profilo prettamente scientifico – sociologico e danno al lettore la possibilità di conoscere le paure, le speranze, le delusioni e le risorse psicologiche che potevano avere gli “arrusi” colpiti dalle misure restrittive. In sintesi si potrebbe dire che Giartosio e Goretti fanno conoscere al lettore un aspetto più umano degli omosessuali confinati alle Tremiti e non solo. Grande il merito di aver intervistato chi al confino, in quanto gay, ci finì davvero. Il saggio è accattivante e di facile lettura, anche se manca della contestualizzazione storica necessaria per interpretare meglio i motivi della condanna e quindi del confino fascista Se è infatti vero che qualche centinaio di omosessuali italiani subirono il confino o l’ammenda per un comportamento non perseguibile dal Codice penale, ma comunque giudicato deviante soprattutto se associato ad altri crimini, non bisogna dimenticare che nella medesima epoca gli omosessuali del resto dell’Europa potevano incorrere in pene e restrizioni ed in leggi assai più severe, che portavano al carcere, all’internamento nei Gulag e nei Lager o ai lavori forzati.
Per il Duce non esistevano, però finivano al confino
di GIOVANNI DE LUNA (La Stampa, 28.04.2006)
Se ne sapeva veramente poco. La persecuzione del fascismo nei confronti degli omosessuali italiani era stata sempre oscurata dai fenomeni più tragicamente vistosi della repressione politica e delle leggi razziali. A delinearne gli aspetti più significativi è ora un bel libro di Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio, La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista (ed. Donzelli), sorretto da una robusta ricerca d’archivio che consente almeno due tipi di lettura: quella che fa i conti più direttamente con l’organizzazione dello Stato totalitario fascista e quella più legata alla storia degli omosessuali italiani. Cominciamo dalla prima. Nel corso del Ventennio furono più di trecento gli omosessuali perseguitati, mandati al confino, in qualche caso come prigionieri politici, più spesso come detenuti comuni. Negli elenchi figurano soprattutto giovani, per la maggior parte appartenenti agli strati sociali più popolari. L’omosessualità in sé non era considerata un reato. Nel 1931, nel progetto iniziale del Codice Rocco era previsto un articolo 528 che la puniva in quanto «delitto contro la moralità pubblica e il buon costume», ma questo articolo non fu inserito nel testo definitivo del Codice penale con una motivazione per lo meno bizzarra: in Italia c’erano pochissimi omosessuali, il nostro popolo era così sano da rendere praticamente inutile un apposito articolo del Codice penale per punire una figura di reato che era quasi inesistente.
Così, a differenza della legislazione omofoba tedesca, nel nostro ordinamento giuridico l’omosessualità poteva soltanto esser colpita con sanzioni amministrative, non in quanto tale ma quando gli episodi a essa collegati «venivano all’attenzione» delle Questure come occasioni di scandalo, turbamento dell’ordine pubblico, delitti veri e propri (omicidi, rapine ecc.). Ne scaturiva una marcata incertezza sulla possibilità di assegnare i confinati omosessuali ai «politici» o ai «comuni». «Politici» furono dichiarati in particolare i 45 «pederasti» arrestati a Catania nel 1939 e mandati tutti nell’isola di San Domino, nelle Tremiti. Ed è proprio la vicenda dei «catanesi» che gli autori mettono al centro del loro racconto.
Il 1939 fu infatti un anno chiave della repressione; la curva statistica dei provvedimenti restrittivi subì una brusca impennata verso l’alto e tra le motivazioni delle misure di polizia apparve per la prima volta il «nocumento agli interessi nazionali». È ovvia la coincidenza cronologica con le leggi razziali, la campagna propagandistica «antiborghese», il perentorio invito di Mussolini a «ripulire gli angolini», il tentativo del fascismo di avviare una «seconda ondata rivoluzionaria» per dare una scossa a un regime che languiva proprio mentre si avvicinava la seconda guerra mondiale. In questo senso, sia la scelta di un’isola-Lager sia il riferimento alla sanità della stirpe che figura in calce ai provvedimenti sono le spie di come - in seguito anche all’allineamento con i tedeschi - si stesse affermando una spinta eugenetica a sfondo razziale nella cui ottica l’omosessualità non si limitava più a violare le norme del buoncostume, ma metteva in crisi proprio i meccanism i di selezione e di conservazione della razza.
L’omosessualità entrava in rotta di collisione con il modello virile e guerriero che il fascismo aveva scelto come punto di riferimento per il suo progetto di «fare gli italiani». Non solo, ma attaccava alla radice il principio gerarchico autoritario del «ciascuno al suo posto» su cui si fondava la struttura totalitaria del regime. Gli «arrusi» catanesi di cui parla il libro dovevano essere considerati maschi o femmine? E quelli che andavano a letto con loro e che non venivano chiamati «arrusi» ma «masculi» come potevano essere definiti?
La distinzione tra maschi e «arrusi» ci riporta all’altro filone di lettura del libro di Goretti e Giartosio, quello più legato alla storia degli omosessuali italiani. «Arrusu» era a Catania l’omosessuale passivo, quello che «faceva la donna» non solo sul piano delle prestazioni sessuali ma anche nelle vesti di chi si prendeva cura del suo uomo e che svolgeva attività prevalentemente legate alla sfera della domesticità (cameriere, sarto, parruchiere, ecc.). Gli «arrusi» non si accoppiavano tra loro, sarebbe stato impensabile. «Masculi» erano invece quelli che nella coppia svolgevano ruoli attivi, avevano vaste relazioni eterosessuali e non si autorappresentavano affatto come omosessuali. Si trattava di un universo indistinto, in cui nella scala di valori del vero maschio essere concupito e desiderato da un omosessuale diventava un titolo di merito che ne aumentava le quotazioni verso le donne e verso gli altri uomini. In più molti degli omosessuali di allora invece di prati care la prostituzione pagavano essi stessi i loro «masculi» che quei regali ostentavano come trofei di battaglie amorose particolarmente gratificanti.
Le pagine delle descrizioni del mondo degli «arrusi» sono tra le più felici: il linguaggio burocratico degli interrogatori e degli atti giudiziari viene sfondato dall’empatia con cui gli autori guardano ai protagonisti del loro libro, restituendoci in pieno la loro umanità di volta in volta disperata, dolente, ironica, allegra, sfrontata, facendoli sfilare davanti ai lettori con i loro nomi di battaglia (’a Bastarduna, ’a cammarera, ’a Scarpara, ’a Carbunara, ’a Francisa, ’a Sticchina, ’a Leonessa ecc.) e con le loro piccole storie, sospese tra una quotidianità senza sussulti e gli scenari della grande storia.
Nel libro ci sono anche gli antifascisti che condivisero il confino con gli omosessuali. Il loro atteggiamento fu tollerante e ironico, diverso da quello repressivo e poliziesco dei fascisti, ma attraversato dallo stesso «spirito del tempo», segnato da pregiudizi che appartenevano all’Italia di allora, tutta intera.