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Da qualche parte li dobbiamo mettere

di Sergej - mercoledì 25 ottobre 2017 - 5172 letture

Da qualche parte li dobbiamo mettere. Una cosa che normalmente non si dice in giro, per buona creanza e per mantenere la pace sociale nel mondo, è che nei sistemi sociali non si butta mai niente. Niente si trasforma, poco si adatta, tutto permane. Ovvero, i tempi di trasformazione richiedono decine di generazioni e non sono avvertibili nell’arco di una misera ristretta vita. Così qui noi in Italia abbiamo ancora i fascisti, i democristiani, i comunisti; abbiamo anche i monarchici, i borbonici, i mafiosi, i clericali ed i cretini ecc. ecc. Quel che abbiamo imparato nelle ultime tre generazioni è che in questa permanenza sociale, il ruolo della scuola è decisamente insufficiente: non basta insegnare in tutte le scuole italiane, di ogni ordine e grado, che l’antisemitismo è male, che stuprare è male, che uccidere è male.

L’insegnamento può ovattare qualche caso, può restringere statisticamente il problema, non lo può eliminare. D’altra parte già sotto il fascismo il povero Mussolini (quello che comandò l’uccisione di Matteotti per non farsi scoprire le tangenti petrolifere che intascava) dovette fare i conti con una Nazione che dopo un decennio di “fucile libro e moschetto” si ritrovò con un esercito d’accattoni, senza scarpe e con gli aerei di tela. Alla faccia della centralità che il mito militarista aveva per quella ideologia. Insomma, le ciambelle per i regimi non riescono mai con il buco e su quella ciambella il fascismo finì per inciampare trascinando nella tragedia il Paese.

Negli anni Ottanta, anni di corruzione dilagante e di disfacimento delle “ideologie” uscite dalla Seconda guerra mondiale, accadde il mutamento genetico degli italiani. E anche il fascismo si adeguò: da una parte fu vampirizzato da Berlusconi, manipolato, smaneggiato, dopato, divenne Fini & compagni. E sulla vicenda personale e politica di Fini un velo pietoso.

Dall’altra, dato che da qualche parte li dobbiamo mettere, furono deportati nelle tifoserie calcistiche che da allora sono diventate il ricettacolo di questo tipo di persone - che riescono a comunicare solo tramite il vecchio codice del fascismo basic. La presenza del fascismo nelle tifoserie calcistiche è ormai più che quarantennale. Con alcune “tradizioni” calcistiche più forti rispetto ad altre (vedi Lazio, dai tempi di Re Cecconi & Chinaglia). Il ghetto calcistico è stato socialmente un beneficio per la società in genere: invece di far danno in politica, i fascisti sono stati “relegati”. Il male minore. Certo ogni tanto ci scappa il morto, ogni volta che c’è una partita ci sono accoltellati e feriti, occorre mobilitare le squadre anti sommossa per evitare che le tifoserie “si incontrino”. Ma almeno hanno smesso di far saltare treni o di organizzare le “spedizioni punitive” nelle città. O farsi usare per destabilizzare il Paese da questo o quell’altro dei grandi interessati - tra piccoli gruppi tramanti e Paesi amici. Le tifoserie sono gli utili bacini per i politici che hanno bisogno di “picciotti” per far folla ai comizi, o per attività di bassa manovalanza. Il tifo calcistico insomma raccoglie i marginali: disoccupati, intellettuali orfani della politica, giornalisti (quelli sono ovunque), picciotti che la mafia non sa che farsene - ci sono standard intellettuali minimi anche per i carabinieri.

La chiacchiera da bar ha rafforzato la centralità sociale del calcio, nel momento in cui parlare di sport è diventato “socialmente ben visto”. Al posto del parlare di politica, che è argomento divisivo e su cui si può solo sfogare con rabbia la propria impotenza collettiva, parlare di sport diventa lo sfogo accettato. Da due decenni almeno in Italia si parla solo di cibo e di calcio. In un circolo nevrotico progressivamente montante - segno di un malessere profondo che non trova una soluzione.

Nel regno incantato che questo Paese, irrompe la contaminazione - il tabù del “non s’ha da fare” -, quando il calcio si affaccia sul ciglio politico per mostrare la faccia indesiderata, quella vera e profonda della “pancia” del Paese. La pancia che rifiuta i negri, odia i froci e gli handicappati, non ammette neppure l’esistenza dei e delle trans. E continua ad avercela (valli a capì perché....) contro gli ebrei. Il delitto che evoca l’uso di Anna Frank da parte dei laziali contro i romanisti è l’uso di un messaggio politico nel mondo del calcio: la contaminazione appunto, il debordare "oltre". I mass media che tanto amano il fumo e depistare, su queste cose ci vanno a nozze; e i cretini sono quelli che, come ha osservato qualcuno, non sanno di essere cretini e ritengono che la propria cretineria sia la cosa più normale di questo mondo. E continuano a fare i cretini. Come quel dirigente che va a mettere una corona ai morti dicendo: “Nnamo a fà sta sceneggiata”. Che l’episodio sia vero o meno ha persino importanza relativa. Perché è il contesto quel che conta. Un contesto di miseria e di povertà - povertà di cervello e di risorse, povertà di “corpo” pur nella prominenza delle panze, povertà di rapporti umani e di comportamenti, di come si intendono i rapporti umani - insomma povertà sociale. Povertà sociale che diventa "notizia" solo quando deborda, quando minaccia territori che la buona coscienza borghese reclama come propri e incontaminabili. Ecco allora che la povertà sociale "appare". Quel che è la realtà quotidiana di questo nostro Paese. E che fa dell’Italia un Paese “arretrato”. Cioè che non sa più guardare avanti, ma guarda indietro - alle tracce che non ha saputo nascondere sotto il tappeto, né cancellare.



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