La lettera dei linguisti italiani

L’intervento del 7 febbraio 2017, firmato da Maria G. Lo Duca e diffuso controfirmato da una serie di linguisti italiani.

di Redazione - domenica 12 febbraio 2017 - 7347 letture

Padova 7 febbraio 2017

Ho letto con attenzione la lettera-appello firmata da tanti illustri colleghi, e vorrei entrare nel merito di alcune questioni sollevate, forte della lunga esperienza professionale maturata in tutti gli ordini di scuola: ho insegnato ‘Lingua italiana’ per 46 anni, prima nella scuola media (3 anni), poi al liceo scientifico (23 anni), poi all’Università (20 anni), dove sono stata professore ordinario di ‘Lingua italiana’ e di ‘Didattica dell’italiano’ all’Università di Padova.

Ho partecipato (e partecipo) a centinaia di corsi di aggiornamento e di seminari nelle scuole di ogni ordine e grado, mi sono incontrata (e mi incontro) con migliaia di docenti, dall’estremo nord della penisola all’estremo sud. Ho studiato a fondo le Indicazioni Nazionali per il primo ciclo del 2012, e le Linee guida approntate per i Licei, gli Istituti tecnici e gli Istituti professionali nel 2010 (non mi risulta ci siano stati cambiamenti da allora). Sono entrata spesso nelle classi, personalmente e attraverso decine di miei studenti che hanno concluso il loro iter universitario con ricerche sul campo relative proprio all’insegnamento-apprendimento della lingua italiana, ed ho pubblicato alcuni dei risultati di questo lavoro decennale. Ciò detto, provo a spiegare i motivi del mio parziale dissenso da quanto affermato nella lettera-appello.

La lettera attribuisce al ciclo dell’obbligo la causa dell’incerto uso della lingua scritta da parte dei giovani. L’idea sottostante è che la lingua nel suo apparato formale - quindi ortografia, morfologia, sintassi, testualità - si debba insegnare ed apprendere nei primi anni, quelli che vanno grosso modo dai 6 ai 14 anni. Quello che avviene dopo non sembra interessare i firmatari della lettera. In realtà l’apprendimento della lingua, soprattutto delle abilità complesse che sottostanno alla stesura di un testo scritto formale (credo sia questa la preoccupazione centrale), non si dà una volta per tutte: è un processo lungo e complesso, che riguarda tutta la vita scolastica di un individuo, starei per dire tutta la vita di un individuo. D’altro canto, se si leggono le Indicazioni Nazionali per il primo ciclo del 2012, si vedrà che l’attenzione alla lingua è costante, anche se su molte questioni, soprattutto grammaticali, si sarebbe potuto essere più espliciti.

Si potrebbero certamente fare dei ritocchi e migliorare alcuni dettagli, ma stravolgerne l’impianto sarebbe un errore grave.

Non altrettanto direi delle Linee guida approntate per i Licei, gli Istituti tecnici e gli Istituti professionali nel 2010. Le indicazioni sulla lingua sono vaghe, generiche; la riflessione sulla lingua – vale a dire l’attenzione insistita e guidata sui suoi assetti morfologici, sintattici e testuali – che potrebbe, a questa età, fare da motore per l’innesto di mature abilità di scrittura, diventa un rapidissimo cenno che riguarda solo il primo biennio; il triennio, tutto orientato alla letteratura, anzi alla storia della letteratura, ne viene del tutto esonerato. Anche le prove di scrittura si riducono e si fossilizzano: via via che si sale nel corso degli studi si scrive sempre meno. Fatte salve le solite lodevolissime eccezioni, il compito in classe (tre, quattro a quadrimestre) è ancora per molti studenti delle superiori l’unica vera occasione di scrittura richiesta dalla scuola, e l’unica, comunque, ad essere corretta e valutata. Questo progressivo allentamento dell’investimento sulla lingua italiana dovrebbe essere nel ricordo di tutti: al di là delle ricerche che lo hanno documentato, e ce ne sono, in Italia ci si occupa di lingua moltissimo nella scuola primaria, ancora abbastanza nella scuola media, poco nel biennio, pochissimo nel triennio.

All’università arrivano giovani che hanno spesso dimenticato quel poco o tanto che avevano acquisito nella scuola dell’obbligo. Certo, potremmo discutere di come ci si occupi di lingua nelle diverse realtà scolastiche, confrontare le diverse pratiche, innestare delle ricerche serie per poter programmare a ragion veduta il futuro. E per cominciare si potrebbero almeno leggere i risultati delle prove Invalsi (anziché limitarsi ad irriderle), domanda per domanda, risposta per risposta, per capire qualcosa di come funziona la nostra scuola. E adesso veniamo all’università. E’ vero, sono stati qua e là attivati in gran fretta corsi di recupero di italiano scritto e/o di grammatica italiana, di solito affidati a giovani e giovanissimi dottorandi e ricercatori privi di qualsiasi esperienza, cui è stata riconosciuta la stessa totale autonomia di cui godono i cattedratici. Anche qui, si potrebbe fare di meglio, ma è pur sempre qualcosa. La questione centrale però è un’altra: è che l’università, al di là del recupero dei debiti pregressi, dovrebbe continuare ad investire nelle abilità linguistiche dei giovani, con didattiche mirate e specifiche relativamente ai diversi campi disciplinari. La scrittura specialistica, che poi è quella che evidentemente ci si attende di trovare già formata nel momento della stesura della tesi di laurea, si impara con un lungo apprendistato di cui nessuno si rende responsabile. All’università si scrive poco, e non si corregge quasi mai: al massimo si rilevano – e si valutano - gli errori di contenuto, e ci si scandalizza del resto. Infine, avrei qualcosa da aggiungere sui corsi di studio che preparano i futuri docenti di lingua italiana delle scuole. Il percorso universitario dovrebbe essere per tutti loro l’occasione in cui riprendere, approfondire e aggiornare le conoscenze accumulate disordinatamente nel corso degli anni (e in parte dimenticate) in fatto di lingua italiana. E’ qui che i futuri maestri e i futuri insegnanti di lettere dovrebbero incontrare e studiare almeno qualcuno di quei faticosi volumi che negli ultimi due o tre decenni hanno descritto in modo egregio la nostra lingua.

Ma questo non accade quasi mai. Troppo spesso i piani di studio non prevedono neppure insegnamenti quali ‘Lingua italiana’ e ‘Grammatica italiana’ (attenzione: non parlo di ‘Storia della lingua italiana’, di ‘Linguistica’, di ‘Sociolinguistica’, di ‘Filologia romanza’, men che meno di ‘Storia della letteratura italiana’, che sono evidentemente altra cosa). Quanto alla ‘Didattica dell’italiano’, la sua presenza è relegata a pochissime realtà fortunate. Insegnamenti che dovrebbero essere centrali nella formazione del futuro insegnante di lingua, sono dunque o completamente assenti, o talvolta opzionali, potendo essere tranquillamente sostituiti da altri considerati equivalenti. E forse più facili da affrontare e superare. E così il cerchio si chiude: l’università viene meno ad una delle sue ragioni di essere, e mentre discute con grande passione su quali e quanti insegnamenti tenere in lingua inglese, consegna alla società laureati impreparati, nella stragrande maggioranza dei casi, ad insegnare adeguatamente la lingua italiana nelle scuole. Avrebbe potuto rimediare una buona formazione post-lauream: le Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento secondario (dette SSIS), attive in Italia per un decennio (2000-2010), sono state un tentativo generoso di dotare la nazione di una classe docente all’altezza dei suoi compiti. Ma sono state spazzate via da una improvvida riforma, sostituite da corsi di tirocinio e da percorsi abilitanti accelerati, sui quali, avendone diretto uno, preferisco non pronunciarmi. E questo è tutto.

Nei miei giri mi capita spesso di incontrare docenti di buona volontà che cercano di sopperire alle carenze della loro formazione di base frequentando corsi di aggiornamento organizzati dalle scuole, spesso in collaborazione con le associazioni professionali degli insegnanti (io stessa sono stata segretaria nazionale di una di queste associazioni, il Giscel, creatura del compianto professor Tullio De Mauro). Ma l’aggiornamento prevede una formazione pregressa. Molti di questi docenti mi hanno confessato che le loro conoscenze linguistico-grammaticali risalgono agli anni della loro prima formazione, quindi alla scuola elementare e media di 30, 40, 50 anni fa. Quel poco che sanno, e che cercano di replicare, lo hanno imparato allora. Che cosa dire di più?

P.S. Oggi è uscita su un noto quotidiano una nota su Tullio de Mauro. Delle migliaia di pagine che ci ha lasciato, e che costituiscono nel loro complesso una lezione insuperata, si scelgono con grande abilità due, tre frasi ‘eccessive’, di quelle che sarebbero piaciute a don Milani, per insinuare il sospetto che il degrado denunciato sia anche un po’ colpa sua. Anche questo è un triste segno dei tempi.

Maria G. Lo Duca


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