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Il Vico/lo cieco della scienza in Italia: un Paese in via di sottosviluppo

Lucio Russo e Emanuela Santoni: Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia, Milano, Feltrinelli 2010. - pagg. 510, euro 30,00. - EAN: 9788807104633.

di Sergej - martedì 31 maggio 2016 - 6468 letture

Quello di Lucio Russo e di Emanuela Santoni è un libro importante, uno di quei libri la cui lettura dovrebbe essere imprescindibile per ogni cittadino italiano. Una ricostruzione della storia della scienza in Italia dal XII secolo fino al 1973. Con precise scelte di campo: non a caso il termine dato con il 1973. Termine che politicamente e polemicamente pone la fine della ricerca scientifica in Italia e l’avvio dell’Italia come paese in via di sottosviluppo.

Su molte delle affermazioni polemiche di Russo e Santoni non possiamo non trovarci d’accordo. Quando nel passato mi sono occupato di storia della letteratura, relativamente alla regione italiana ed europea, l’anno dell’uccisione di Pier Paolo Pasolini (1975) è stato presto individuato come un anno-limite all’interno della produzione letteraria. Naturalmente non significa che dopo non ci sia più letteratura (o che non si faccia ricerca scientifica, anche con esiti occasionalmente riconosciuti in campo internazionale), ma certamente non siamo più all’interno di un Paese che si muova in maniera produttiva e capace di ricerca autonoma.

Nella gestione recessiva, del sottosviluppo, si è cercata una sponda europea (così in economia, nel campo della legislazione sociale ecc.) ma anche qui le cose non sono andate come l’élite politica e economica che si è trovata a governare il Paese negli anni Ottanta del secolo scorso, pensava. Il processo di "dismissione" che aveva portato allo smantellamento (da parte di Fiat e di Bruno Visentini) di Olivetti negli anni Sessanta è proseguito con la "dismissione" operata da Romano Prodi dell’IRI, con la fine di qualsiasi politica economica riguardante il Mezzogiorno italiano. Nel mezzo c’è stata la vicenda Ippoliti, Mattei, e le vicende riguardanti il settore scientifico che Russo e Santoni evidenziano negli ultimi capitoli di questo libro.

L’importanza del libro di Russo e Santoni non riguarda solo la parte finale del libro, che più ha a che fare con la falsa attualità e dunque è più facilmente "vendibile" da parte di un recensore per i lettori attuali. E’ importante il "taglio" dei capitoli interno, che viene fatto, sullo sviluppo (o non-sviluppo, in alcuni secoli) della ricerca scientifica italiana. La storia della scienza ha sempre avuto in Italia una difficile vita, proprio per la predominanza dell’assunto crociano e per le scelte nella didattica dei licei (la riforma Gentile); ma proprio la preparazione "classicista" di molti scienziati e ricercatori italiani ha permesso oggi una "scuola storica" italiana della scienza che non va sottovalutata.

Di Russo abbiamo letto buona parte dei libri da lui scritti (a partire da La rivoluzione dimenticata, altro libro fondamentale), pensiamo che sia un autore - un ricercatore - che abbia molte cose da dire: soprattutto alla classe politica e ai cittadini italiani, da cui dipende una strada che non ci sentiamo di pensare "chiusa" per sempre: la via di uno sviluppo sostenibile che potrebbe essere una cosa diversa dal sottosviluppo reale verso cui sembriamo invece avviati inesorabilmente. Ecco, proprio ricerche e libri come quelli di Russo ci fanno sperare che questa inesorabilità possa essere (per un qualche miracoloso evento non dipendente dalla nostra classe amministrativa e politica) scongiurata.


Sinossi (fascia di copertina):

Questa è la prima opera che presenta una sintesi dello sviluppo scientifico in Italia dal 1200 a oggi, proponendo tesi interpretative di carattere generale. La tradizione che a lungo ha emarginato la scienza da importanti settori della cultura italiana è bene esemplificata dall’epiteto "ingegni minuti", attribuito ai cultori della scienza esatta da Giambattista Vico in un brano fatto proprio da Benedetto Croce. Quali sono le radici di questa tradizione e quali sono state le realtà culturali di diverso segno presenti nel paese? Qual è stato il contributo del Rinascimento italiano al sorgere della scienza europea? Perché, dopo i successi della scuola galileiana, la ricerca italiana entrò rapidamente in una profonda crisi? L’esame dei risultati degli scienziati risorgimentali può modificare, e come, il giudizio storico sul Risorgimento? Quali sono le cause della profonda crisi in cui versa la ricerca scientifica italiana dagli anni ’70 del secolo scorso? La globalizzazione lascia ancora spazio a politiche scientifiche nazionali o europee? Ecco alcune delle domande cui questo libro tenta di rispondere, intrecciando gli sviluppi scientifici con la storia economica e politica, oltre che culturale. È infatti convinzione degli autori non solo che la storia della scienza possa essere compresa solo esaminando i contesti (culturali, economici, tecnologici, sociali e politici) che forniscono alle comunità scientifiche i problemi concreti da affrontare e le risorse, culturali e materiali, per risolverli, ma anche che la storia di un paese non possa prescindere dalla storia della sua ricerca scientifica e che lo scarso interesse per questo aspetto del nostro passato abbia sottratto un elemento essenziale al dibattito in atto sul futuro dell’Italia.

Lucio Russo (Venezia, 1944) insegna all’Università Tor Vergata di Roma. Ha trascorso periodi di studio presso varie istituzioni scientifiche e ha insegnato in diverse università. Ha pubblicato con Feltrinelli La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna (1996, finalista del premio Viareggio per la saggistica 1997), Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola? (1998; edizione ampliata in UE, 2000), Flussi e riflussi. Indagine sull’origine di una teoria scientifica (2003, premio Giovanni Maria Pace) e Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia (2010), scritto con Emanuela Santoni. Tra le sue opere più recenti, L’america dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo (Mondadori, 2013).

Emanuela Santoni (Trieste, 1961), insegna matematica e fisica presso il liceo Augusto Righi di Roma. Si è occupata di storia e didattica della scienza con varie pubblicazioni (tra le quali: Dietro il teorema, Armando 2003) e collabora con l’Università Tor Vergata.


Estratto dal libro: La Premessa (pp. 7-14)

Premessa

Questo libro ha due scopi: il primo è fornire al lettore uno strumento sintetico di informazione su un importante aspetto della storia del nostro paese. Ci sembra infatti che, nonostante da diversi decenni gli studi sulla storia della scienza sviluppata in Italia si siano notevolmente incrementati in quantità e qualità, manchino (se non ci sono sfuggite) opere agili rivolte all’esterno del mondo accademico che offrendo un quadro complessivo rispondano a un’esigenza di sintesi che oggi, proprio alla luce della grande proliferazione di letteratura specialistica, appare particolarmente acuta. Una sintesi non può però non fondarsi sulla proposta di tesi interpretative (la cui discussione costituisce il secondo scopo del lavoro), basate su alcune idee guida a cui ci sembra opportuno accennare subito.

Innanzitutto conviene precisare cosa intendiamo per scienza. Senza tentare di dare impossibili criteri assoluti di scientificità, siamo convinti che sia utile riservare il termine "scienza" a un insieme di conoscenze elaborate nell’arco di molti secoli che, pur nella variabilità di contenuti e metodi, condividono alcune caratteristiche fondamentali che le rendono ben distinguibili da altri prodotti culturali. Tale insieme di conoscenze si articola in teorie caratterizzate dalla contemporanea presenza di coerenza logica interna e di un rapporto esplicito e verificabile con la realtà. Questi due elementi sono ugualmente decisivi: la coerenza interna permette un generale accordo tra gli esperti nel giudicare la compatibilità di singole proposizioni con la teoria, mentre il rapporto con la realtà rende le teorie applicabili per prevedere fenomeni o progettare tecnologia.

La definizione qui proposta fornisce, a nostro giudizio, un criterio di discernimento relativamente solido e ben definito. Ad esempio la cartografia di Tolomeo e quella attuale sono entrambe scientifiche, in quanto basate su teorie coerenti che permettono di inserire informazioni ricavate da misure in carte utilizzabili praticamente, e ciò impedisce di confonderle con le tradizioni di rappresentazioni puramente simboliche dello spazio, che sono documentate in molte carte del Medioevo europeo e di altre civiltà.

La produzione di "scienza" nel senso qui inteso (che, prima di estendersi su scala planetaria, ha avuto luogo nel mondo ellenistico, nella civiltà araba e in Europa) richiede due condizioni entrambe essenziali: da una parte lo sviluppo coerente delle teorie, anche indipendentemente dalle loro possibili applicazioni, e dall’altra la disponibilità e l’interesse ad affrontare le sfide poste dai problemi concreti che non sembrano risolubili con gli strumenti offerti dalle teorie esistenti. Esprimendo lo stesso concetto in modo diverso, si può dire che il progresso della scienza richiede che si evitino due ricorrenti tentazioni. La prima è quella di restringere il proprio interesse ai soli argomenti direttamente utili (come, a detta di Cicerone , avevano fatto i Romani con la geometria): così facendo si distrugge necessariamente la struttura logica delle teorie scientifiche, che hanno come loro caratteristica peculiare proprio quella di connettere attraverso rigorose implicazioni una rete di risultati, dei quali alcuni hanno grande rilevanza applicativa e altri non ne hanno alcuna. L’altra e opposta tentazione è quella di evitare ogni rapporto con la realtà, coltivando la scienza "pura", sorretti dalla fede che le applicazioni ne scaturiranno automaticamente copiose. In questo secondo modo si può certamente produrre buona scienza per un tempo che può essere lungo sulla scala della vita umana, ma affrontando solo problemi posti naturalmente al loro interno, alla lunga, le teorie rischiano di avvitarsi su se stesse, mentre sono le sfide poste da nuovi problemi concreti a stimolare la creazione di teorie nuove o preziose discontinuità nello sviluppo di quelle esistenti.

Per sottolineare l’importanza della ricerca "fondamentale", si ricorda spesso che risultati scientifici ottenuti a puro scopo conoscitivo hanno generato un gran numero di applicazioni pratiche inaspettate, che non si sarebbero potute ottenere con una ricerca mirata. Su una pagina del sito del Cern, scritta in difesa degli investimenti in ricerca fondamentale, si può leggere che nessuna ricerca applicata sulle candele avrebbe potuto portarci alla luce elettrica, che nacque dalla curiosità sull’elettricità. Vi è certamente molto di vero in questa suggestiva considerazione. È però altrettanto vero, reciprocamente, che molte ricerche "applicate" hanno generato risultati teorici inaspettati, che non avrebbero potuto essere ottenuti altrimenti. Un problema di grande rilievo per la storia della cultura come la determinazione dell’età della Terra si avviò a soluzione nel Settecento grazie alle conoscenze sviluppate a scopo pratico da tecnici minerari e, per fare un altro esempio, le epocali scoperte astronomiche di Galileo furono rese possibili dall’invenzione del cannocchiale, che era stato concepito come strumento utile ai marinai (anche se questa origine è stata a lungo pudicamente celata). Tornando alla candela e alla luce elettrica, non bisogna certo sottovalutare le ricerche applicate sulle fiamme, che se non hanno prodotto la lampadina hanno però portato scienziati come Bunsen a fondare la spettroscopia (che tra l’altro ha generato l’astrofisica e ha costituito una delle principali basi sperimentali della meccanica quantistica).

Crediamo che una delle poche caratteristiche costanti nella storia della scienza sia l’impredicibilità dei percorsi e l’essenziale complementarità tra ricerche fondamentali e "applicate". In realtà l’espressione "ricerca applicata", che è in genere usata in alternativa alla ricerca "pura", "di base", o "fondamentale", è fonte di equivoci, poiché confonde sotto la stessa etichetta due attività profondamente diverse, per non dire opposte, entrambe mal descritte da tale espressione. Una delle due consiste nell’applicare teorie scientifiche esistenti alla soluzione di problemi di interesse pratico: in questo caso a rigore, come più volte è stato osservato, non si dovrebbe parlare affatto di scienza, ma di applicazioni della scienza, e chi se ne occupa dovrebbe essere considerato un professionista più che un ricercatore. Tutt’altra cosa fa chi affronta problemi concreti non risolubili con le teorie scientifiche esistenti, introducendo idee nuove capaci di dare origine a nuove elaborazioni teoriche. La ricerca di questo secondo tipo non è "pura", in quanto non si svolge nell’empireo della teoria, ma non dovrebbe neppure essere detta "applicata", in quanto non procede applicando teorie alla realtà, ma in modo esattamente opposto; si deve ad essa gran parte dello sviluppo scientifico: per fare degli esempi, ne fanno parte le ricerche di Eulero sulla stabilità delle navi, quelle di Volta sull’elettricità e il lavoro in cui Shannon introdusse il concetto di informazione.

Mentre appare il più delle volte ovvia l’influenza che le teorie scientifiche hanno esercitato sul mondo reale, il ruolo sistematico dello stimolo che esse traggono dall’interazione dinamica con i problemi concreti è di solito sottovalutato. Capita spesso di leggere che all’origine di una scoperta scientifica vi è stato il puro "caso". Se ci si chiede come mai il "caso" favorisca in genere determinate comunità scientifiche, ci si rende facilmente conto che ciò che nei singoli episodi appare puramente casuale in termini statistici può essere visto come l’effetto dell’essenziale flusso di informazioni e problemi che alimenta ciascuna scienza provenendo sia da altre scienze apparentemente lontane, sia dal mondo concreto, caratterizzato dalle produzioni, dai consumi e dai bisogni di una comunità.

Nell’immaginario collettivo è radicata una storia mitologica della scienza, frutto di una profonda deformazione del reale corso degli eventi. L’alterazione della realtà è a volte consapevole. Uno dei massimi fisici del secondo Novecento, Richard Feynman , dopo avere tracciato in un paio di pagine una sintesi della storia della fisica da Newton ai suoi tempi, prosegue scrivendo:

Devo dire che quella che ho appena delineato è una "storia della fisica vista da un fisico", una storia, cioè, che non è mai del tutto veridica, una specie di storia-mito convenzionale che i fisici raccontano ai loro studenti, i quali la raccontano ai loro studenti, e che non è necessariamente collegata all’effettivo sviluppo storico (a me peraltro sconosciuto!).

È qui descritto lucidamente il meccanismo che origina gran parte delle idee diffuse sulla storia della scienza. Uno degli effetti della mitizzazione descritta (e accettata) da Feynman è in genere quello di ricondurre la storia della scienza all’interno di una pura "storia delle idee", tagliandone i legami con i problemi concreti che gli scienziati intendevano risolvere. In altri termini, ignorando le motivazioni pratiche che sono spesso all’origine degli sviluppi teorici, si finge che l’interazione tra scienza e mondo reale avvenga solo nella direzione che porta dalla teoria alle applicazioni, e possa quindi essere tranquillamente ignorata da chi non è interessato alle seconde. L’effetto è presente, in forma certamente diversa, anche in molte trattazioni di storici della scienza professionisti, soprattutto del passato, che sono stati spesso condotti dalla propria formazione filosofica a concentrarsi sulle interazioni tra la storia della scienza e quella della filosofia, trascurando gli aspetti tecnologici ed economici che hanno avuto un ruolo essenziale nelle svolte scientifiche.

Recentemente ha avuto una certa popolarità la "legge dell’eponimia di Stigler", secondo la quale se a una scoperta scientifica è dato il nome di uno scienziato, è certo che non si tratta del vero scopritore. Può sembrare poco più di una battuta, ma crediamo che la legge (che può essere verificata innumerevoli volte, ma non è falsificabile) derivi la sua validità almeno in parte da un secondo importante aspetto della deformazione sistematica con cui i risultati scientifici sono stati trasmessi, ossia dall’attribuzione a poche personalità eccezionali di percorsi di idee che hanno attraversato i secoli e le menti di centinaia di studiosi. Siamo convinti, cioè, che la produzione di conoscenze scientifiche, come tutti i processi storici, sia sempre stata un fenomeno collettivo, mentre, come avveniva un tempo per la storia civile, una serie di "miti di fondazione" tende a trasformarla, nell’immaginario collettivo, in una successione di "idee geniali" dovute a pochi eroi eponimi.

I "miti di fondazione", tendendo ovviamente a nascondere la continuità dello sviluppo storico, generano il terzo aspetto della deformazione: la sistematica sottovalutazione dell’importanza della tradizione. Un grande studioso del Rinascimento ha scritto:

Cercherò di dimostrare che l’eccellenza delle opere d’arte, e in generale delle imprese umane, non dipende dalla sola creatività ma dall’incontro di originalità e tradizione.

Lo stesso assunto dovrebbe essere ben più evidente nel caso della scienza, ma i resistenti miti sulla "creatività", che permetterebbe di dedurre le teorie scientifiche direttamente dall’osservazione della natura, tendono a oscurarlo, rendendo incomprensibile la storia della scienza e generando la convinzione della sua inutilità. In particolare è ancora diffuso il mito, risalente all’Illuminismo, che la scienza moderna sia nata liberandosi dalle tradizioni trasmesse dai vecchi testi e sostituendole con l’osservazione della natura guidata dalla pura ragione. Tale mito, recidendo nella memoria collettiva il legame essenziale tra scienza antica e scienza moderna, ha avvolto nell’oscurità l’origine della seconda. Una delle conseguenze più gravi di questa restrizione dell’orizzonte temporale, che ha tentato di comprimere la storia della scienza nell’arco di poco più di tre secoli, è stata la fede, a lungo diffusa, in quel progresso continuo e automatico della scienza che sembrava di poter estrapolare dalla storia degli ultimi secoli.

Se la costruzione della scienza è un fenomeno collettivo, in cui giocano un ruolo fondamentale sia i problemi concreti caratteristici di un particolare contesto storico sia gli strumenti concettuali forniti dalla tradizione culturale, allora il suo inserimento a pieno titolo nella storia diviene evidente e appare anche chiara l’utilità di calare la storia della scienza, alla pari degli altri fenomeni storici, in specifici contesti geografici oltre che cronologici. Ci sembra quindi pienamente giustificabile il tentativo di delineare la storia scientifica di un paese.

La storia scientifica dell’Italia ha poi alcuni particolari motivi di interesse. In primo luogo, in una lunga fase iniziale l’Italia ha svolto un ruolo essenziale, la cui comprensione può avere una funzione importante nel chiarire il processo di formazione della scienza occidentale.

Usando il termine scienza nel senso restrittivo già delineato, il secolare lavoro di traduzione e commento di antichi testi, e di speculazioni astratte sui loro temi, che aveva impegnato molti intellettuali europei nel Basso Medioevo, pur essendo stato essenziale per il recupero della scienza, non può essere considerato pienamente scientifico finché è rimasto privo di rapporti con le attività concrete. La prima forma di scienza moderna nasce dall’incontro, che avviene nel Rinascimento italiano, tra il recupero della scienza antica e le conoscenze tramandate e sviluppate nelle botteghe di artigiani e artisti. Un filo continuo, spesso dimenticato, lega scienziati come Galileo e Redi , attraverso personaggi come Guidobaldo Del Monte, a scienziati-filologi come Federico Commandino e ad artisti rinascimentali studiosi dell’antica scienza come Leon Battista Alberti e Piero della Francesca.

Il rapporto con le motivazioni pratiche ci fornirà anche la chiave per spiegare, evitando interpretazioni ideologiche, quello che appare come un rapido declino delle ricerche scientifiche italiane nell’ultima parte del Seicento. Più propriamente, si può parlare di un salto di qualità nello sviluppo scientifico di paesi come l’Inghilterra, l’Olanda e la Francia, la cui natura, consistente in un rapporto nuovo con la tecnologia, può essere utilmente chiarita proprio dal confronto con il caso italiano.

Le vicende più recenti hanno un interesse meno generale, ma sono preziose per far luce sulla storia del nostro paese, della quale costituiscono un aspetto importante spesso trascurato, e possono fornire utili elementi di riflessione a chi spera che la ricerca scientifica possa avere ancora un futuro in Italia.

Forse dovremmo giustificare l’idea, oggi molto contestata, che l’Italia sia esistita, non solo come espressione geografica ma anche come comunità culturale, ben prima del 1861. Senza polemizzare con gli epigoni di Metternich oggi tornati di moda, rinviando per questo alla ricca letteratura sull’argomento, anticipiamo solo che nel corso del libro verificheremo più volte l’esistenza di elementi oggettivi che permettono di parlare di una comunità scientifica nazionale, anche se in un senso più debole rispetto a quelle dei grandi Stati nazionali europei. Verificheremo cioè che gli scienziati italiani, usando (oltre al latino) anche la stessa lingua letteraria moderna, avevano più scambi tra loro che con l’esterno, condividevano tradizioni specifiche ed erano consapevoli di appartenere a una comunità, la cui esistenza, al di là delle significative tradizioni locali, era assicurata anche da una notevole mobilità all’interno della penisola, che in alcune epoche pre-unitarie era forse superiore a quella odierna.

Un’ultima precisazione: poiché riteniamo che l’etnia di origine degli scienziati sia totalmente irrilevante per la comprensione del loro lavoro, ci interesseremo alle ricerche scientifiche compiute nel contesto della penisola e non alla scienza prodotta dagli "Italiani". Ad esempio i lavori scritti in Francia da Joseph-Louis Lagrange non rientrano nel nostro tema, nonostante il loro autore sia il torinese Giuseppe Lodovico Lagrangia che aveva scelto di francesizzare il proprio nome, come non vi rientra la pila atomica costruita nel 1942 a Chicago sotto la direzione dell’emigrato Enrico Fermi. Per la stessa ragione ci occuperemo invece della De humani corporis fabrica pubblicata nel 1543 dall’anatomista fiammingo Andrea Vesalio , in quanto frutto del suo lavoro a Padova, e delle ricerche svolte a Roma nel XX secolo dal biochimico svizzero Daniel Bovet.

Altre pagine su: http://www.tecalibri.info/R/RUSSO-L_ingegni.htm


Scheda: Recensione a “Ingegni minuti” di Lucio Russo e Emanuela Santoni / di Claudio Giunta

[“Belfagor”, LXVI 2 (2011), pp. 245-50]

Non c’è libro da cui non si impari qualcosa. Ma sono molto rari i libri da cui s’impara qualcosa ad ogni pagina. E sono ancora più rari – una manciata ad ogni decennio – quelli che ad ogni pagina fanno pensare. Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia, di Lucio Russo e Emanuela Santoni (Feltrinelli 2010) è una di queste rarità.

Il titolo viene da un passo dell’Autobiografia di Vico: «Alle menti, già fatte dalla Metafisica universali, non riesce agevole quello studio, proprio degli ingegni minuti». Quello studio è lo studio della geometria, e insomma della scienza: e gli ingegni minuti sono dunque quelli di coloro che si perdono in queste – come dirà Croce – verità strumentali e pratiche. Gli ingegni universali, invece, sono quelli dei filosofi come Vico. Il filo del rapporto tra filosofia e scienza corre attraverso tutto il volume, ma Russo e Santoni sono studiosi troppo intelligenti per ripetere polemicamente i luoghi comuni sul conflitto tra le due culture, anche perché, come il libro dimostra, la Cultura resta sostanzialmente una sola non soltanto fino al pittore-matematico Piero della Francesca o al letterato-scienziato Galileo ma ben oltre, fino a Enriques e ad altri scienziati del primo Novecento.

Sono di particolare interesse, in questo senso, le pagine in cui Russo e Santoni riflettono sulla cesura assai netta che separa il profilo culturale degli scienziati formatisi alla fine dell’Ottocento da quello degli scienziati formatisi nel primo dopoguerra: «Federigo Enriques poteva alternare alla ricerca in geometria algebrica studi di storia della scienza antica e di epistemologia, il fisico Antonio Garbasso era accademico della Crusca e un fisiologo come Angelo Mosso si trasformò in archeologo; Enrico Fermi scrive invece in un italiano sciatto e non ha alcun interesse culturale estraneo alla fisica» (p. 402). Questa osservazione è importante, perché i due autori mettono convincentemente in relazione un simile «restringersi degli orizzonti culturali» (p. 403) con le scelte politiche e morali compiute da parecchi tra questi scienziati più giovani: la massiccia adesione al fascismo; la sottoscrizione delle leggi razziali, che portarono all’epurazione dei docenti ebrei, epurazione sconciamente avallata dagli allievi di quei maestri («Picone era stato assistente di Fubini e Severi di Enriques»: p. 408; ma meriterebbe di essere citata tutta quanta, come triste documento sul Carattere Italiano, la pagina 424, dove è riferita la vicenda di Sabato Visco, firmatario del Manifesto degli scienziati razzisti e poi, nel dopoguerra, preside della Facoltà di Scienze della Sapienza di Roma, scelto in quanto – secondo le parole di un suo collega – «tanto bravo a trovare denaro»); la collaborazione al progetto Manhattan che portò alla realizzazione (e all’impiego) della bomba atomica; e anche probabilmente, nel caso di Ettore Majorana (pp. 411-12), la diretta collaborazione con la Germania nazista.

Questo non significa che gli scienziati, per conservarsi morali, abbiano bisogno di contaminarsi con la filosofia, o con l’archeologia o con la linguistica dei cruscanti (ma forse un po’ sì, e se è un’idea che suona dolciastra, pazienza); è chiaro tuttavia che qui, negli anni Venti e Trenta del secolo, si pone in maniera particolarmente acuta il problema del legame tra la scienza e le sue applicazioni militari, problema che non tutti gli scienziati della generazione di Fermi, a differenza di Fermi, accantonarono come ‘meramente politico’: uno dei meriti di Ingegni minuti è quello di restituire intere, anche nel loro spessore etico, figure come quelle di Edoardo Amaldi o di Franco Rasetti, il quale dopo Hiroshima e Nagasaki decise di reinventarsi paleontologo: «Io – scrive nel 1946 in una lettera a Enrico Persico – sono rimasto talmente disgustato dalle ultime applicazioni della fisica (con cui, se Dio vuole, sono riuscito a non avere niente a che fare) che penso seriamente a non occuparmi più che di geologia e di biologia…» (p. 414).

Il sottotitolo del libro, Una storia della scienza in Italia, è riduttivo per due ragioni.

La prima è che una storia della scienza in Italia non si può fare se non facendo insieme, sia pure per sommi capi, una storia della scienza tout court. Nell’introduzione i due autori precisano che «poiché riteniamo che l’etnia di origine degli scienziati sia totalmente irrilevante per la comprensione del loro lavoro, ci interesseremo alle ricerche scientifiche compiute nel contesto della penisola e non alla scienza prodotta dagli ‘Italiani’». Dunque soltanto pochi accenni a studiosi come Lagrange (Giuseppe Ludovico Lagrangia) o a Fermi dopo il 1938, perché le loro ricerche riguardano, rispettivamente, la Francia e gli Stati Uniti. Ma, dato che il libro si rivolge anche a un pubblico di non scienziati, prima di trattare del contributo che gli italiani hanno dato a questa o a quella disciplina scientifica Russo e Santoni forniscono a questo lettore le coordinate per orientarsi (e non è sorprendente che queste coordinate originino quasi sempre nel pensiero greco, dato che Russo è anche l’autore di un altro libro fondamentale, La rivoluzione dimenticata, che al tema della scienza ellenistica e del suo rapporto con quella moderna è dedicato per intero). Per esempio: «Una parte importante della rivoluzione astronomica iniziata da Copernico ebbe per teatro la nostra penisola. Per comprenderne la natura occorre aprire una parentesi» (p. 155), e segue una sintesi del pensiero astronomico occidentale, dai greci a Galileo. «L’opinione di Bellarmino […] richiede una digressione che ne spieghi l’origine» (p. 161), e segue un excursus sulla logica delle teorie scientifiche nel mondo antico e in quello cristiano. E parlando di Avogadro: «Per spiegare il suo principale risultato occorre accennare a qualche ulteriore sviluppo della chimica europea» (p. 281), e la pagina seguente illustra in breve le scoperte di Dalton e di Gay-Lussac. Insomma, il lettore, anche il lettore non specialista (ma dato che il libro parla di tutte le discipline scientifiche è probabile che in questa posizione, nella posizione di imparare quasi da zero, si trovi, prima o poi, anche il lettore scienziato), non è mai lasciato a sé stesso.

La seconda ragione per cui Una storia della scienza in Italia è un sottotitolo riduttivo è che questo libro è anche una storia civile dell’Italia: non solo perché la scienza è una parte significativa della nostra civiltà nazionale ma anche perché Russo e Santoni sanno coordinare le questioni strettamente scientifiche con la descrizione delle circostanze storiche e degli ambienti (scuole, accademie, università) nei quali gli scienziati si sono trovati a vivere e a lavorare. La ricerca scientifica non nasce e non si sviluppa nel vuoto: ha bisogno di denaro, di strutture e di un’atmosfera intellettuale propizia – per questo gli autori insistono tanto spesso sulla falsità dei miti di fondazione che legano la tale o la talaltra scoperta all’opera di un genio isolato, per quanto grande, e delle scoperte illustrano invece la natura collettiva, corale («I suoi contributi lo hanno fatto apparire spesso il fondatore dell’anatomia moderna, almeno agli occhi di chi crede nei miti di fondazione»: p. 87, detto di Vesalio; «Queste grandi opere debbono […] essere ammirate senza mitizzarle, evitando cioè di attribuire a eroi eponimi processi culturali collettivi»: p. 154, detto dei Discorsi di Galileo): cosa tanto più necessaria in questi tempi di ridicola spettacolarizzazione nei quali i nomi dei Titani (e il titano Dante Alighieri o il titano Caravaggio valgono, sotto questo aspetto, tanto quanto il titano Galileo) tengono il posto delle cose, perché le cose richiedono uno sforzo troppo grande per essere comprese.

La storia della scienza è anche storia della scuola e dell’università; ed è, a mano a mano che ci si avvicina ai giorni nostri, sempre più anche storia dell’industria. Era forse inevitabile che una medio-piccola potenza economica come l’Italia desse contributi eccellenti nelle epoche e nelle discipline in cui era possibile fare ricerca anche senza contare su grandi capitali, epoche e discipline in cui il legame tra scienza e tecnica non era ancora così stretto (ma lo è ormai nel secondo dopoguerra, sicché suonano eroiche, ma sono anche il segno del prossimo declino, le parole di Ettore Pancini, direttore del Laboratorio Testa Grigia per lo studio dei raggi cosmici, secondo cui «gli apparecchi si dovevano costruire completamente in casa, perché per formare dei buoni tecnici bisogna imparare a costruirsi gli apparecchi […] e perciò non acquistarli»: p. 418); mentre è comprensibile che l’Italia non abbia saputo affrontare degnamente la competizione internazionale quando questa ha cominciato a richiedere investimenti, pianificazione, lavoro d’équipe, sinergie con l’industria, e insomma quelle particolari condizioni che si sono date nelle grandi nazioni europee, quindi negli Stati Uniti e, oggi, in Asia. Ma gli autori dimostrano anche, in pagine di grande respiro civile, quali miopie e quali errori abbiano portato allo sfacelo attuale, quando un sistema industriale agonizzante non sembra aver più nulla da chiedere a quelle ‘eccellenze’ accademiche che, pomposamente, la politica dichiara di voler produrre.

Il libro copre l’intero secondo millennio, dalla rinascita del secolo XII ai giorni nostri, ma una buona metà delle sue 460 pagine è dedicata agli ultimi duecento anni ed è in questa, necessariamente, che le sollecitazioni, diciamo, extra-scientifiche sono più numerose e interessanti. Personalmente ignoravo del tutto il ruolo avuto dagli scienziati italiani nei moti risorgimentali (pp. 286-88), così come la successiva nomina (nomina regia) di molti di loro al Senato del Regno, dopo l’Unità. La critica, a mio avviso sempre più urgente, della retorica democratica che affligge la nostra post-democrazia potrebbe trovare in queste pagine degli spunti preziosi: «Il confronto – scrivono Russo e Santoni – con il livello medio culturale (oltre che morale) dei parlamentari attuali, eletti a suffragio universale, merita una riflessione e solleva problemi complessi» (p. 348).

Non ignoravo invece, ma ho sempre molto sottovalutato, il contributo degli scienziati non solo a quella che con un’espressione un po’ sciocca si chiama ‘identità nazionale’ (non esiste, beninteso, una ‘scienza italiana’; ma esiste una comunità scientifica italiana con delle sue peculiarità: ed è uno dei Leitmotiv del libro), ma anche all’unificazione linguistica del paese, almeno nelle classi colte: «Oggi è divenuto necessario, oltre che controcorrente, sottolineare esplicitamente che nella cultura scientifica dell’epoca [i secoli XVI e XVII], insieme alla dimensione locale e regionale […], era presente anche un’importante dimensione nazionale, che traeva origine dalla lingua comune […]. Molti giovani, ai quali è stato insegnato che l’unità linguistica della penisola è stata prodotta dalla televisione, possono infatti non sapere che quando Galileo si trasferì da Pisa a Padova non dovette per questo imparare una lingua a lui estranea […]. Non solo perché le lezioni universitarie ufficiali erano tenute in latino, ma soprattutto perché da tempo il toscano era usato come lingua colta nello Stato di Venezia» (p. 197). Ma non finirebbe più l’elenco delle ‘idee correnti’ che questo libro invita a riesaminare: dalla questione della mobilità sociale, che era probabilmente più forte a cavallo tra il XIX e il XX secolo di quanto non sia oggi (p. 372), al precoce assenso dato dagli scienziati italiani alle teorie di Darwin (p. 322: «Nell’Italia di fine Ottocento, a differenza degli Stati Uniti del XX e XXI secolo, a nessuno sarebbe venuto in mente di proibire l’insegnamento della teoria dell’evoluzione»), al problema della ‘ricerca d’avanguardia’ (pp. 458-60: perché finanziarla se né lo Stato né il sistema produttivo sono in grado di sfruttarne i prodotti?), al condizionamento che la politica scientifica statunitense ha esercitato sulle scelte europee, e italiane in particolare, nel secondo dopoguerra (pp. 437-41).

Chi, come me, ha avuto una formazione umanistica leggerà questo libro con ammirazione ma anche con imbarazzo, per diverse ragioni.

La prima è che farà fatica a capire anche quei passi nei quali gli autori cercano con pazienza di spiegare al lettore non esperto di scienza, al medio lettore colto, semplici concetti o semplici procedimenti scientifici. Io sono tra quelli che tessono le lodi di «un buon liceo classico», ma se sono ridotto così male – se non riesco a capire un po’ di matematica o di fisica neppure quando vengo accompagnato per mano – vuol dire che forse il mio liceo classico non era così buono, o che l’istruzione in discipline come la matematica, la fisica e la biologia era presa troppo sottogamba. Detto più seriamente (dato che la cosa è seria), mi pare che nella formazione degli intellettuali (e nella categoria entrano non solo i filologi ma anche per esempio i giuristi, o i sociologi, o quei non-scienziati che sono gli economisti) ci sia stato e ci sia un deficit di cultura scientifica ormai intollerabile, deficit che ha tra l’altro, direi, una responsabilità diretta nell’irrazionalità diffusa che infesta il discorso pubblico nonché i cervelli di buona parte degli italiani (pseudo-scienze, guaritori e astrologi in TV, sangue di san Gennaro, Voyager, Misteri, centurie di Nostradamus e simili). Sarebbe il caso di ricalibrare i programmi scolastici, dalle elementari in poi, e di farlo in fretta.

La seconda ragione di imbarazzo è un riflesso della precedente. Ingegni minuti mostra quale enorme importanza hanno avuto gli scienziati nella storia intellettuale dell’Italia. Ma le storie intellettuali dell’Italia danno pochissimo spazio agli scienziati, perché a scriverle sono sempre storici, letterati o filosofi che non hanno una preparazione scientifica sufficiente. Gli autori citano come esempio due grandi studiosi come Garin (p. 366 nota 30: «un intellettuale influente come Eugenio Garin ignorerà quasi completamente gli scienziati sia nei suoi studi sul Rinascimento sia nella sua opera sugli intellettuali del XX secolo») e Monfasani, che in un libro importante come Greeks and Latins in Renaissance Italy liquida così il contributo degli emigrati bizantini nel Quattrocento: «È vero che gli emigrati furono traduttori eccezionali. Ma se esaminiamo cosa tradussero, troviamo che tradussero quasi esclusivamente lavori scientifici […], confinati in un’angusta specializzazione» (p. 68). Ma è chiaro che ad essere angusti sono invece i confini, gli interessi degli umanisti ‘puri’. E ovviamente non è solo questione di singoli studiosi: è tutta la storia culturale del nostro paese ad essere viziata da un pregiudizio non tanto ‘umanistico’ quanto piuttosto artistico-filosofico che ci consegna una visione parziale e inadeguata di fenomeni come il Rinascimento, o i Lumi, o la stessa storia della filosofia del Novecento (non mi occupo specificamente di quest’ultimo argomento, ma devo confessare che prima di leggere Ingegni minuti avevo solo una vaghissima idea della polemica tra Croce e il matematico Enriques, polemica che ha invece – come Russo e Santoni documentano – un grande rilievo).

La terza ragione è che Ingegni minuti non è soltanto uno dei libri più istruttivi che io abbia mai letto: è anche uno dei libri meglio scritti. È chiaro e rigoroso nell’argomentazione, elegante nello stile, spesso ironico, talvolta addirittura commovente (penso al racconto di certe vite amareggiate dall’incomprensione dei colleghi: «Ruffini ebbe la soddisfazione di ricevere da Cauchy una lettera che elogiava il suo lavoro […], ma per questo dovette attendere ben ventidue anni»: p. 240). Il modo in cui si scrive può apparire secondario, ma non è secondario. Decenni di atroce gergo semiotico-ermeneutico-teoricoletterario hanno istupidito gli umanisti a un punto tale che difficilmente, oggi, un laureato in Lettere, o un addottorato in Lettere, o un docente di Lettere sarebbero in grado di esprimersi, sul loro soggetto di studio, con altrettanta chiarezza e proprietà.

Specie per queste ultime ragioni, Ingegni minuti è un libro che va consigliato soprattutto a chi s’interessa di storia e di storia delle idee. Immagino che ogni scienziato potrà trovarci un’informazione ampia e aggiornata sul proprio settore di ricerca (la bibliografia occupa trenta pagine, ed è una bibliografia selezionata e usata, non un semplice elenco di titoli; manca invece, ed è un vera lacuna, un indice delle cose notevoli). Ma agli umanisti questo libro indica un campo di ricerche della cui ricchezza pochissimi tra loro hanno coscienza, e anche un modo di scrivere che tutti loro dovrebbero prendere come modello.

Fonte: http://www.claudiogiunta.it/2011/04/recensione-a-ingegni-minuti-di-lucio-russo-e-emanuela-santoni/


Scheda: Un paese in via di sottosviluppo / di Armando Massarenti

[Il Sole 24 ore, 28 novembre 2010]

Gli Ingegni minuti di cui parlano Lucio Russo ed Emanuela Santoni sono nientemeno che gli scienziati, così come li aveva apostrofati Giambattista Vico, uno dei principali campioni del nostro antiscientifico spirito nazionale, ripreso da Benedetto Croce che lo ha portato alle estreme conseguenze, umiliando pubblicamente, per esempio, la gloriosa e internazionalmente riconosciuta pattuglia di valenti matematici italiani che si era venuta formando a cavallo tra Otto e Novecento.

Non è l’unico episodio di questo genere. Molti altri ne racconta questo volume di 510 pagine, Una storia della scienza in Italia, che ripercorre le glorie e le sconfitte delle nostre migliori menti, dal 1200 a oggi, senza mai perdere di mira la tesi generale: la mancanza non di ingegni (tutt’altro che minuti), o di autentici produttori di verità e di conoscenza, ma delle condizioni generali per operare nel migliore dei modi, riuscendo a essere concorrenziali rispetto agli altri protagonisti della modernizzazione.

Per fare un esempio di attualità, visto il dissesto cronico del nostro territorio (vedi anche, in questo stesso Domenicale, l’articolo di Antonio Pascale) ricordiamo che subito dopo l’Unità d’Italia – uno dei periodi di rinascita della nostra tradizione scientifica e di riconoscimento della sua utilità pubblica e del suo valore morale e civile – si diede vita al progetto di una Carta Geologica d’Italia. Il decreto è del 12 dicembre 1861. All’inizio del 1862 si crea il Servizio Geologico d’Italia. «L’Italia – scrivono gli autori – aveva un’illustre tradizione nel settore, ma ciononostante i lavori per la Carta Geologica si sarebbero trascinati, tra alterne vicende, per ben centonove anni: le ultime carte furono consegnate solo nel 1970, quando gran parte del lavoro precedente era divenuta obsoleta».

Ad attirare l’attenzione sui motivi di tale fallimento era stato Pietro Corsi su Il Sole 24 Ore-Domenica dell’8 giugno 2003. Così ora Russo e Santoni riassumono la questione: «I lavori furono ostacolati da rivalità di vario genere (tra i geologi universitari e il corpo degli ingegneri delle miniere, tra piemontesi e toscani, tra portavoce di interessi industriali e agrari) e da periodici drastici ricambi dei componenti del Comitato Geologico, che dedicarono molto del loro tempo alla feroce critica dei predecessori. Non era bastata la tradizione di ricerche teoriche individuali congiunta alla volontà di riprodurre i risultati ottenuti all’estero per mettere in piedi l’organizzazione necessaria all’impresa, che altrove, oltre a ricevere maggiori stimoli dal mondo della produzione, era il frutto di una storia secolare di stretto coordinamento tra competenze scientifiche, tecniche e amministrative». Gli autori sottolineano che «la litigiosità dei membri del Comitato, più che causa del fallimento, era probabilmente una conseguenza della frustrazione» provocata da tutto ciò. Ed è ciò che spiega ancora oggi l’incapacità dei vari settori della scienza di presentarsi con l’unità necessaria per poter influenzare le politiche pubbliche.

Gli aspetti tecnologici ed economici hanno avuto un ruolo centrale nella svolte scientifiche, e non vanno disgiunti da quelli puramente teorici, e dallo sviluppo della scienza "di base". A partire dalla tesi già sostenuta da Russo in La rivoluzione dimenticata di una sostanziale continuità tra la scienza antica (sviluppatasi in periodo ellenistico) e la scienza moderna, si capisce che è proprio la maggiore attenzione alla concretezza dei problemi e alle finalità pratiche a fare la differenza. Non esistono una scienza pura, teorica, da un lato, e le sue applicazioni dall’altro. La scienza moderna ha le sue radici nel Rinascimento italiano e dal felice incontro «tra il recupero della scienza antica e le conoscenze tramandate e sviluppate nelle botteghe di artigiani e artisti».

Un legame assai chiaro unisce scienziati come Galileo e Redi e artisti come Leon Battista Alberti e Piero della Francesca e «il rapporto con le motivazioni pratiche» spiega anche il rapido declino delle ricerche scientifiche italiane nell’ultima parte del Seicento, quando Inghilterra, Olanda e Francia seppero instaurare, al contrario dell’Italia, un rapporto nuovo con la tecnologia. Il nostro paese rimase periferico fino alle grandi realizzazioni e al rinato spirito pratico del Risorgimento. Dal 1890 al 1945 si passa «dai successi al disastro», e da lì, nel secondo dopoguerra, si cerca faticosamente ed eroicamente di ricostruire: nella fisica, la chimica, la biologia. Poi, gli anni ’60 sono il decennio in cui la classe politica e industriale massacrano letteralmente tutto ciò che si stava facendo di buono e di innovativo su diversi fronti.

Le storie sono quelle di Ippolito, Mattei, Buzzati-Traverso, Marotta, che già Enrico Bellone raccontava ne La scienza negata (Codice). I primi due si occupavano della nostra autonomia energetica. Buzzati-Traverso era all’avanguardia nella genetica e nella biofisica; Domenico Marotta era al vertice dell’Istituto superiore di sanità. Mattei morì nel 1962 in circostanze misteriose. Ippolito e Marotta furono messi in galera con futili pretesti e Buzzati-Traverso non trovò mai i finanziamenti necessari. Tanto accanimento aveva una semplice motivazione, espressa apertamente da Saragat: con quelle ricerche si dilapida denaro pubblico. «Perché non aspettare che questa competitività sia realizzata da paesi che hanno quattrini da spendere?».

La stessa lungimiranza riguarda l’Olivetti, la cui nuova dirigenza, dopo la morte di Adriano, decise di estirpare il neo di essersi inserita nel settore elettronico. Che spreco! «Gli ingegneri rimasti alla Olivetti, sotto la guida di Giorgio Perotto, contravvenendo alle direttive aziendali, progettano una calcolatrice elettronica programmabile da tavolo, la Programma 101, che molti considerano il primo prototipo di pc. Nel 1965 la Perottina è messa in vendita a tremila dollari e riscuote un enorme successo commerciale: ne furono venduti quarantamila esemplari. La Hewlett-Packard copiò la macchina producendo tempestivamente l’HP 9100, ma dovette versare un risarcimento di settecentomila dollari alla Olivetti per violazione di brevetto (a Perotto fu versato un dollaro simbolico). La direzione Olivetti, lasciando senza finanziamenti il settore dell’elettronica, riuscì tuttavia a vanificare il successo, permettendo che lo spazio aperto da Perotto fosse occupato dalla concorrenza».

Non sono cose d’altri tempi, suggeriscono gli autori. La storia si chiude nel 1973, quando il fisico Giuliano Toraldo di Francia scriveva: «L’Italia è un paese in via di sottosviluppo. Siamo in una situazione tragica. Qualcuno potrà dire che si può ancora correre ai ripari. Io sono molto pessimista. Credo che sia abbastanza tardi per correre ai ripari. Io vedo già una tradizione scientifica come la nostra, portata ad alto livello grazie all’impegno e al valore di pochi, che viene dispersa e finirà con lo scomparire. Vedo già l’Italia dipendere, nel campo del progresso scientifico, da ciò che avviene all’estero. Da noi si comprerà solo il prodotto finito». Seguono poche, sconsolate, pagine sul «passato recente». Che non modificano il quadro.

Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2010-11-28/paese-sottosviluppo-165508.shtml



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