Tragedia keniota


Dal 1964, il Paese ha avuto alla sua testa soltanto tre presidenti: Jomo Kenyatta (per sedici anni), Daniel Arap Moi (per altri ventiquattro) e Mwai Kibaki (dal 2002).


di Thierry Abdon AVI pubblicato il 22 gennaio 2008

Il Kenya è poco conosciuto, anche dagli Africani, visto che sembrava essere soltanto un’oasi di pace e di stabilità, un paradiso per turisti europei ed americani. Facendo concorrenza ad Abidjan, e Johannesburg, la sua capitale, Nairobi, si presentava come metropoli regionale ed accoglieva numerose sedi di multinazionali.

Tornando indietro nella storia, i britannici, che occuparono e sfruttarono il Kenya per ottanta anni (dal 1887 al 1963), ne avevano apprezzato il clima e realizzato lì ciò che era stato fatto in Rhodesia:...una colonia per residenti privilegiati! Alla vigilia dell’indipendenza del Paese, conquistata a prezzo di una cruenta lotta, duecentomila coloni ed uomini di affari del Regno Unito vi detenevano le migliori terre e dominavano quasi tutti gli apparati del potere.

Dal 1964, il Paese ha avuto alla sua testa soltanto tre presidenti: Jomo Kenyatta (per sedici anni), Daniel Arap Moi (per altri ventiquattro) e Mwai Kibaki (dal 2002). Questo terzo presidente si era presentato ed era stato eletto per salvare il paese da una situazione di crisi, dalle disuguaglianze sempre più evidenti e, soprattutto, dalla corruzione. Ahimè, non ha tardato a deludere!

Se la crescita economica è stata migliore rispetto a quanto fatto dal suo predecessore, le disuguaglianze si sono accentuate e la corruzione, che in un primo momento era stata rallentata, ha ripreso campo più di prima. Mwai Kibaki ha allontanato coloro che lo avevano aiutato a vincere le elezioni nel 2002 o, in ogni caso, ha perso il loro sostegno. John Githongo, "la figura onesta" del paese, colui che più di tutti si era impegnato contro la corruzione, è dovuto andare in esilio a Londra. Anche Raila Odinga è stato obbligato a lasciare il governo prima di impegnarsi nell’opposizione e presentarsi alle presidenziali di dicembre scorso contro Kibaki. Nel 2002, i due uomini (Kibaki e Odinga) erano alleati in una coalizione denominata “Arcobaleno” che aveva messo fine al regno della Kanu (Kenia African National Unione) battendo Uhuru Kenyatta, il delfino designato di Daniel Arap Moi. Purtroppo la loro intesa non è durata a causa del mancato accordo sulla divisione dei poteri tra i partiti della coalizione e sull’adozione di una nuova Costituzione. In occasione del referendum del 2005, che tra l’altro avrebbe dovuto prevedere la creazione di un posto di primo ministro dotato di ampi poteri, Odinga si era opposto al presidente Kibaki che aveva respinto l’ipotesi di una carica di premier.

Le elezioni del 27 dicembre scorso hanno evidenziato frodi massicce a favore del presidente uscente (Kibaki) ai danni dello sfidante (Odinga). Da allora, un’ondata di violenza è scoppiata nel paese-faro dell’Africa dell’Est, causando centinaia di morti e migliaia di sfollati. Lo svolgimento dello scrutinio risulterebbe corretto, ma è l’esame delle schede elettorali che è stato giudicato incerto dalla maggior parte degli osservatori internazionali. In numerose zone, i formulari ufficiali della conta dei voti non sono stati firmati, alcuni sono stati contraffatti, mentre altri sono semplicemente scomparsi. Magia: in un seggio dove erano iscritti 1.200 elettori, si è ottenuto il voto di 12.000 persone, prevalentemente favorevoli a Kibaki. In molte zone si è sfiorato il grottesco con cifre gonfiate senza ritegno: fino a 70.000 voti in più!

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Prima ancora della proclamazione dei risultati ufficiali, un’ondata di violenza ha invaso il Paese, il che rivela la persistenza di divisioni che si credeva appartenessero al passato. Benché il voto a favore di Odinga (che è membro di un gruppo etnico minoritario, i Luos) abbia dimostrato un superamento delle appartenenze etniche, gli scontri hanno preso una colorazione tribale inquietante. Favorito dall’indipendenza, il gruppo maggioritario dei Kikuyus, al quale appartiene Kibaki, è stato il bersaglio di numerosi attacchi. E’ chiaro che Kibaki, che oggi non è lontano dagli 80 anni, aiutato dalla propria cerchia ha approfittato dei mezzi del potere per tirare “la coperta verso se stesso”. In ogni caso, egli ha rapidamente proclamato di aver vinto e, per mettere tutti davanti al fatto compiuto, si è affrettato... a prestare giuramento. Anziché condurre la popolazione alla rassegnazione, questa sua rapidità ha appiccato il fuoco alle polveri ed ha motivato l’esplosione di violenze.

La diversità tribale del popolo keniota non è tuttavia la causa principale degli scontri. In ogni caso, i suoi effetti sono minori rispetto a quelli generati dalla povertà, dalla corruzione e, soprattutto, dalle disuguaglianze sempre più palesi in questo Paese in cui "innocenti muoiono nel modo più terribile, mentre i loro dirigenti vivono nel lusso e la comodità, pagati dai contribuenti" (“The Nation” del 1 gennaio 2008). Tutto ciò favorisce il banditismo e spiega le scene di saccheggio alle quali si è assistito.

Non si può certo concludere che il Kenya indipendente sia stato ben governato. Una sola cifra denunzia ciò che non è stato compiuto in quaranta anni d’indipendenza: mentre la popolazione si è quadruplicata (è passata da 9 a 36 milioni), il PIL del Paese, molto diversamente distribuito, è, sì, innegabilmente aumentato, ma assomma soltanto a 21 miliardi di dollari all’anno, cioè meno di 600 dollari pro-capite. In raffronto, la Tunisia, Paese molto povero in ricchezze naturali rispetto al Kenya e che conta soltanto 10 milioni di abitanti, ha un PIL nettamente più elevato: 30 miliardi di dollari all’anno, cioè 3.000 dollari pro-capite.

Questo Kenya che aveva dato tanta speranza all’Africa in occasione dell’alternanza storica del 2002 (la sconfitta di Arap Moi dopo ventiquattro anni) si è appena ricollegato ai suoi vecchi demoni: frode elettorale massiccia, controllo dei mass media, corruzione, violenze... Malgrado gli appelli della Comunità Internazionale, che invita i due candidati ad attuare trattative per arrivare ad un compromesso, ognuno rimane inflessibile sulla propria posizione affermando di aver ottenuto un successo plebiscitario. Sulla base del caos che prevale attualmente, è difficile dire chi abbia vinto l’elezione presidenziale, ma una cosa è sicura: è il popolo keniota a pagarne le conseguenze mentre il Paese vede incombere lo spettro della guerra civile.

Bisogna fare tutto il possibile per evitare che ciò accada o, quanto meno, si verifichi una vera e propria fase di turbolenza. In proposito si tenga ben presente il caso della Costa d’Avorio che, per sua fortuna, sembra adesso uscita dal tunnel, dopo più di cinque anni di scontri e disordini.


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