Viaggio in Italia di Piovene


A cento anni dalla nascita, ricordiamo lo scrittore Guido Piovene attraverso uno dei suoi libri: il Viaggio in Italia. Pubblicato nel 1957, ovvero cinquant’anni fa.


di Sergej pubblicato il 26 luglio 2007

Il 27 luglio 1907 nasceva Guido Piovene. Ci piace ricordarlo attraverso la lettura, in questi giorni, del suo Viaggio in Italia. Il libro, riedito quest’anno da Baldini Castoldi Dalai nella collana dei Tascabili, 930 pagine al prezzo di 6,90 euro, raccoglie il risultato di una inchiesta giornalistica fatta per conto della Rai tra il maggio del 1953 e l’ottobre 1956. Da Bolzano via via giù per tutta la penisola, isole comprese, l’occhio del giornalista e letterato si appunta su una Italia appena uscita dalla guerra e che si avviava verso il "miracolo economico".

E’ un’occhio attento, quello di Piovene, smaliziato. La sua scrittura non è retorica, "letteraria". In quegli stessi mesi Mario Soldati compiva un analogo giro per l’Italia padana, attraverso stavolta le telecamere della Rai - e rimangono le registrazioni straordinarie di Soldati e dei luoghi, un’Italia contadina e povera, sanguigna e in bianco e nero (Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini, 1956). Delle registrazioni radiofoniche di Piovene sembra invece che non siano rimaste tracce, se non i pezzi scritti appunto da Piovene per il suo libro.

Il Viaggio di Piovene è un documento interessantissimo. Siamo in un momento di trasformazione dell’Italia. Un momento di passaggio. Le mille Italie, i mille paesi visitati, sembrano tutti accomunati da un’unico denominatore comune, che non è più quello della miseria e della fame degli italiani usciti dalla guerra, ma della costruzione di un Paese che vuole essere moderno e industriale. Piovene dà ai luoghi e alle persone conosciute nel corso di questo viaggio, questa tensione: sta accadendo qualcosa in Italia, e questo qualcosa ha a che fare con un progresso, con un moto di riscatto e di trasformazione. Così quello che sta avvenendo nella pianura Padana, l’ENI di Mattei - in pochissime righe Piovene riesce a delineare in chiaro-scuro la figura di questo manager, cui in prospettiva l’Italia deve la sua indipendenza economica e la rinascita dell’industria grazie alla guerra non ortodossa portata avanti contro i monopoli dell’energia. Ma anche nelle altre regioni, descrivendo caratteri e tipi, in cui vecchio e nuovo sono la trama di un paesaggio a più livelli: nelle pagine dedicate alla Liguria, l’incontro con l’industriale Piaggio che mangia, solo, nel suo yacht attraccato al porticciolo di Portofino, mentre la gente passa accanto a lui sul molo. Un paio di pagine dopo, il letterato si sofferma affascinato sul dialetto genovese: "il contrasto tra i vocaboli crudi ed il tono cascante col quale sono pronunciati. Le espressioni argute e icastiche si snervano in italiano, e del resto è arduo scegliere in un vocabolario quasi tutto scurrile. Ho notato: sacco di crusca, secchio di acquavite (per interpellare il prossimo), smilzo come un pizzicotto, ha una faccia che fa starnutire, aveva lo sguardo di un gatto rimasto sotto il tram, sembra una frittella buttata nell’olio freddo" (p. 221).

Un capitolo è dedicato alla Sicilia. In questo doppio anniversario - della nascita e della pubblicazione -, è affascinante leggere quello che il giornalista vede e gli dicono. Piovene coglie l’isola in un momento particolare, quando ancora i giochi sembrano non essere stati fatti. Dopo sappiamo cosa è successo.

"Ho dovuto anche chiedermi come sarà Palermo tra una cinquantina d’anni. Forse nessun’altra città italiana costringe a questa domanda con tanta nettezza. Riforma trasformazione fondiaria, opere pubbliche, turismo, petrolio, ambiziose speranze e progetti di industrie nuove: Palermo è una città in trasformazione" (p. 583).

E’ una Sicilia varia e ricca, quella di Piovene, in cui la mafia è ancora ristretta al palermitano. Ma in tante pagine è possibile leggere quanto è rimasto, e quanto le cose si sono discostate negli anni dalle speranze di quel momento. Così l’industrializzazione di Priolo e di Catania, ed il petrolio del ragusano. La Messina del ceto medico, di cui Piovene non rileva la malattia mafiosa. A Siracusa, l’attrazione per l’odore del pane di Ortigia e l’incontro con i cattolici che raccolgono soldi per la costruzione del santuario della Madonna delle Lacrime. Tempo dieci o vent’anni, e si sarebbero visti i frutti - devastanti - dell’illusione industriale (si leggano i saggi di Paolo Sylos Labini: uno tra tutti, Problemi dell’economia siciliana, edito nel 1966 da Feltrinelli).

Sono passati cinquant’anni eppure sembra in certi punti che si stia parlando della Sicilia di oggi:

Il mercato degli agrumi: "Questa crisi di cui si parla si può riassumere così. Uno dei massimi mercati di esportazione fino alla prima guerra mondiale, gli Stati Uniti, fu perso quando essi divennero, da importatori, produttori e temibili concorrenti. L’altro grande mercato, quello dell’Europa orientale, fu perso con l’ultima guerra. Per fortuna si consolidò il mercato della Germania, la massima importatrice d’oggi, e crebbe d’importanza quello italiano grazie all’aumento del tenore di vita. Oggi si vendono più arance nella penisola che all’estero, e in modo speciale a Milano. Oltre alla concorrenza degli Stati Uniti, si fece poi più viva quella di altre nazioni mediterranee, non soltanto la Spagna, ma la Palestina, il Libano e l’Algeria, cui si aggiunse l’Arabia. L’esportazione siciliana non fu priva di colpe. Le arance della Sicilia, se di alta qualità, sono anche oggi le migliori del mondo, ma sono anche le più care, per ragioni dovute alla nostra politica economica. L’alta qualità è l’unico motivo per il quale l’acquirente può preferirle. La cattiva distribuzione, l’intervento di alcuni esportatori, che non erano i proprietari ma incettavano un po’ dovunque, e mandavano all’estero merce mal imballata, mescolando le qualità buone a quelle scadenti, ci danneggiarono sui mercati stranieri; mentre vi affluiva, ad esempio, l’onesta produzione californiana, con frutti meno saporiti, ma di qualità costante, lustrati, infiocchettati, di misura eguale e ravvolti nel cellophane. La Regione ed insieme i produttori privati prendono oggi iniziative miranti a eliminare gli inconvenienti. I produttori si consorziano, come a Paternò e a Lentini, per diventare esportatori essi stessi, eliminando l’opera degli intermediari. Si meccanizzano le colture, dirandando gli alberi, per diminuire i costi. Un marchio, come quello che si usa nei vini, distinguerà i prodotti dei luoghi dove crescono i frutti migliori. Bisogna eliminare i prodotti scadenti dal mercato straniero; ed occorre, per farlo, convogliarli ad altri usi, trasformandoli in gelatine, in marmellate, in succhi. Anche per questa via si torna alla necessità dell’industria. E l’opera maggiore della Regione, a tale scopo, è la costituzione delle centrali ortofrutticole, una a Bagheria già pronta, una già quasi pronta a Siracusa, altre a Messina ed a Catania. Si tratta di salvare il massimo patrimonio della Sicilia, quello in cui i siciliani hanno speso più denaro e affanni. La corsa all’investimento degli agrumeti è tuttavia caratteristica dello spirito siciliano d’oggi, catanese in modo speciale; è un segno che si vuole fare il fattibile, una puntata sul futuro" (p. 611).

Vent’anni dopo, negli anni Settanta, venuto a vivere a Lentini - avrei sentito esattamente le stesse lamentele sulla crisi agrumicola (compresa la maledizione dei distributori rifilatori di merce avariata sui mercati d’Italia ed europei). Nel frattempo si sarebbe consumata la crisi del tentativo di creare consorzi, marchi doc, e industrie di trasformazione. E, in maniera ricorsiva, tutt’oggi si continua a parlare di "marchio dell’arancia rossa" e si spera in investimenti da parte delle grandi industrie del Nord in stabilimenti di succhi di frutta. In questo modo l’agrumicoltura siciliana è rimasta per cinquant’anni in uno stato vegetativo, di crisi permanente - e così le raffinerie che sarebbero nate a Priolo Milazzo Gela, e le attività industriali di Piano Tavola a Catania. Ciò che avrebbe vinto, nella Sicilia orientale, sarebbe stati l’edilizia e le attività dei Cavalieri del lavoro (quelli per cui Pippo Fava fu ammazzato). E la mafia si sarebbe espansa in tutta la Sicilia divenendo cultura egemone. A Catania come a Lentini, Siracusa, e nelle province prima "babbe". Ma questa, è un’altra storia...


Su Piovene si legga la scheda biografica presente su Antenati, storia della letteratura europea online.


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