Da dieci anni gira per l’Italia. Lo scorso fine settimana, a Torino, ha chiuso il cerchio lo spettacolo teatrale di e con Antonio Grosso, giovane autore partenopeo, che ha messo in scena al Teatro Erba l’ennesima replica di una commedia di successo.
Richiamandosi al titolo della canzone portata a Sanremo da Giorgio Faletti, l’opera è collocata cronologicamente, e per esplicita dichiarazione in scena, nei giorni immediatamente precedenti la strage di Capaci. Non a caso, Grosso ha voluto riproporre il testo nella città da cui è partito e con l’intenzione di chiosare, insieme ai dieci anni del suo lavoro, il trentennale della strage in cui persero la vita Falcone, la moglie e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. A saldare questa ricorrenza, ribadendo l’intimo legame tra i due magistrati, tra gli spettatori vi era anche Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso in via D’Amelio cinquantasette giorni dopo l’amico Giovanni.
“Minchia Signor Tenente” sceglie un approccio intelligente alla vicenda del 23 maggio 1992. Sceglie, cioè, la commedia, un’angolatura lieve e, per larga parte del testo, ridanciana, vivace, a tratti surreale, catapultando lo spettatore in una piccola realtà provinciale dell’isola, dietro la quale si indovina la Sicilia. In questo paese che è un “mortorio”, ma non perché muoiano le persone – come si affretta a spiegare telefonicamente alla mamma apprensiva un appuntato – quanto perché non succede mai nulla, la stazione dell’Arma dei carabinieri trova qualche sprazzo di vivacità nelle piccole beghe interne, mai davvero aspre, e nelle stralunate denunce dei furti che, a suo giudizio, subirebbe Parerella, figura sopra le righe, agente disturbatore della quieta monotonia del luogo. Tra raffiche di parole incomprensibili e un’accesa gestualità ammiccante, Parerella ricorda, da un lato, il fool delle commedie shakespeariane, quello a cui è consentita la verità porta attraverso un pizzico di follia, e, dall’altro, sembra incarnare quella sicilianità sola che si percepisce come defraudata, vessata, stropicciata dai “cattivi” e che cerca nelle forze dell’ordine un interlocutore valido a cui consegnare quel disagio.
A loro modo, il maresciallo, il brigadiere, l’appuntato e gli altri militari della caserma rispondono a Parerella, tra disincanto, risate e una certa cordiale comprensione della sua situazione. Del resto, a parte la notizia della presenza di un latitante nella zona – notizia così riservata che la conosce tutto il paese – e la liason non consentita dalle norme tra un militare e una ragazza del luogo, che contribuisce a vivacizzare la giornata, nulla pare accadere di significativo. Il ladro di galline arrestato dal militare più intriso di un certo spirito di servizio era una volpe e questa atonia quotidiana fa desiderare proprio a questo carabiniere di poter affrontare servizi più operativi e importanti.
Arriveranno pure questi. Perché, in mezzo alle risate spontanee e suggerite da un testo e da un’interpretazione ben oleati, da un meccanismo comico perfettamente orchestrato, di tanto in tanto, fa capolino, nell’ombra, l’altro volto della realtà, la sua zona oscura. Nel buio sul palco, due voci fuori campo, tra una scena e l’altra, ci portano dentro le segrete cose degli uomini malvagi: una telefonata cordiale tra due interlocutori misteriosi, uno dei quali annuncia all’altro che deve occuparsi di un lavoro, deve sistemare qualcuno che sta dando problemi, qualcuno che deve essere fatto tacere.
A poco a poco, dal momento in cui giunge alla stazione dei Carabinieri il tenente che ispira il titolo della pièce, che di fatto prenderà il comando della situazione, il ritmo scherzoso e comico, lieve e stralunato del primo atto comincia a incupirsi, a irrigidirsi. Glassato nella sua rigorosa e rigida visione del proprio ruolo, il tenente comincia a irreggimentare i suoi sottoposti, a scrostare quella plastica mediazione del loro comportamento che rende umani e fragili, al contempo, i militari. Coglierà l’appuntato mentre dialoga con la madre al telefono, invitandolo a chiamare da fuori per le questioni private, scoprirà la tresca fra un altro carabiniere e la sua bella, destinando il primo a Bergamo come punizione e così via. Soprattutto, proporrà due militari per il servizio di scorta a un giudice.
Non è il caso di spoilerare del tutto il finale. È vero che Antonio Grosso, rivolgendosi al pubblico dopo lo spettacolo, ha annunciato che la commedia avrebbe cessato di andare in scena, ma è meglio non fidarsi. “Minchia Signor Tenente” potrebbe continuare e vale la pena gustarlo sino in fondo senza qualcuno che anticipi la chiosa dell’opera. Quanto a questa, pare riuscita proprio perché è in grado di condurci nel punto di giunzione tra la nostra quotidianità sonnecchiosa e paciosa, fatta di piccole cose, di piccoli desideri quotidiani, di piccole ambizioni, e le macchinazioni trucide di chi proietta quelle ambizioni in un quadro più vasto e violento, di chi non corregge la legge nel piccolo recinto del proprio egoismo, ma di chi la forza in scenari più ampi, coinvolgendo le vite degli altri, le loro storie minute e faticose, il loro sacrificio per un milione di lire. È il male che fa irruzione nella vita del formicaio umano, insensibile al dolore che ingenera, ignaro di ogni cosa che non sia funzionale al proprio assetto di potere. Ed è interessante che una sorta di insensibilità venga proiettata pure sulle istituzioni: perché il sacrificio dei due militari inorgoglisce il “Signor Tenente”, l’Arma ha i suoi martiri, può mostrare alla società civile i servitori dello Stato caduti in servizio. Le morti che si fanno vessillo di gloria per l’istituzione non piacciono all’autore dell’opera, come evidenzia il duro richiamo del brigadiere al superiore, chiuso, questi, nell’esaltazione dei buoni eroi come orgoglio istituzionale e privo di qualsiasi pietosa vicinanza alla fine di due esseri umani.
In fondo, è un richiamo perfetto per l’intera vicenda che ha accompagnato la morte di Falcone e Borsellino. L’ipocrisia zuccherosa delle celebrazioni, l’enfasi posta sul loro eroismo, l’averli collocati così in alto e l’averli aureolati di una tale santità statuale da farli apparire marziani, alieni, distanti; verrebbe da dire, fuori dal tempo e, per conseguenza, inattuali. A strappare le stragi dalla cornice fittizia in cui sono state collocate, ci ha pensato Salvatore Borsellino. Chiamato sul palco dall’autore, a fine spettacolo, il fratello del magistrato ucciso in via D’Amelio ha letto, con forte commozione e con toni a tratti ruggenti e indignati, uno scritto, il cui ritmo temporale e concettuale è stato scandito dall’anafora “trent’anni sono passati”.
Trent’anni sono passati, legge Borsellino, da una morte che ha cristallizzato il ricordo di tutti a quanto stavano facendo quando è arrivata la notizia dell’attentato, così come per la strage di Bologna, tragedia accostata non a caso alla morte di Paolo, per le dolose responsabilità che vi sono dietro e per l’ignobile operazione di depistaggio elaborata da chi voleva silenziare la verità sull’attentato. Trent’anni sono passati da quando si è cercato di infrangere il sogno di un uomo, da quando di quel sogno la madre di Paolo ha investito gli altri figli, perché non cessasse, perché continuasse a correre e a segnare la storia di questo Paese. Anni sono passati da quando, continua Borsellino, ha capito che non era dal fuoco nemico che avrebbe dovuto guardarsi il fratello, ma da quello amico, quel fuoco che è stato, appunto, depistaggio, che ha scaraventato in galera un innocente (Vincenzo Scarantino), che ha cercato di occultare la verità indicibile di una trattativa fra Stato e mafia che le recenti sentenze ci hanno insegnato non costituire reato. Anni sono passati, legge Borsellino, ma non hanno cancellato nulla, non hanno rapito quel sogno, perché, asserisce commosso, le bombe non possono cancellare l’amore.
Un’agenda rossa levata verso l’alto, a cui hanno risposto altre agende rosse alzate in sala, gesto ormai usuale di Salvatore Borsellino e dei membri della sua associazione, e un lungo applauso solidale hanno chiuso la serata. Uscendo dal teatro, veniva in mente un’idea un po’ balzana, veniva voglia di pensare che, forse, i cattivi non vinceranno per sempre.