Dopo la morte di 12 italiani in Iraq continuiamo a chiederci che senso abbia mentenere esposti al pericolo i nostri soldati, prossime potenziali vittime di una guerra che non ci appartiene e che la maggioranza degli italiani non ha mai sentito come propria. Nel frattempo in america inizia la campagna elettorale, tra proclami trionfalistici e allarmi di possibili attentati la corsa alla casa bianca ha inizio mentre l’Iraq si è ormai trasformato in un nuovo Vietnam.
Primo maggio 2003, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush annuncia la fine dei combattimenti in Iraq e il successo della missione americana. I fatti, purtroppo, dimostreranno quanto quest’affermazione fosse azzardata; quella data segna l’inizio della resistenza irachena. Da mesi numerose organizzazioni indipendenti irachene hanno intrapreso la loro guerra per la liberazione del paese dall’occupazione straniera, per l’affermazione del loro orgoglio di nazione, ma sopratutto per mantenere l’Iraq unito contro il progetto americano di smembrarlo in 3mini entità. Il 12 novembre la strage di Nassiriya, forse annunciata, sicuramente prevedibile; questa volta ad essere colpiti sono gli italiani, e non a caso. Il nostro governo, infatti, in contrasto con la giusta linea di prudenza adottata da quasi tutto il resto dell’Europa ha scelto la sovraesposizione inviando truppe per quella che è stata definita "missione di pace" in un paese, di fatto, ancora in guerra. Compito principale del contingente italiano è quello di "concorrere al mantenimento dell’ordine pubblico", che, tradotto in gergo militare, significa fare rispettare le regole imposte dagli occupanti, essere dunque parte integrante dell’esercito di occupazione. Assolutamente prevedibile quindi che i soldati italiani entrassero nel mirino della guerriglia. A Nassiriya l’Italia perde 12 carabinieri, 5 militari e 2 civili, la tragedia più grande dalla fine della seconda guerra mondiale. L’emozione investe tutti, per la prima volta si apre un dibattito circa il ruolo e l’impiego dei nostri militari. Ci si interroga sul senso di morire in una guerra che non ci apparteniene e, sopratutto, sulle ragioni per cui l’Italia continui a sostenere ed appoggiare il progetto di devastazione di un paese già indebolito nelle strutture socio-economiche e nelle coscienze dalle precedenti guerre, da anni di dittatura e di feroce embargo. Da più parti si è auspicato il ritiro immediato delle truppe, ma per i signori della guerra è doveroso portare a termine il lavoro intrapreso; governo e larga parte dell’opposizione sono concordi. L’Italia resta in Iraq, le vittime dell’attentato vengono esaltate come eroi di pace e di altruismo, i media parlano di patriottismo, di onore, di guerra giusta e doverosa. Gli ultimi giorni, hanno determinato un’evidente escalation del conflitto, in tutto l’Iraq sono ripresi i bombardamenti, si moltiplicano i casi di violazioni di diritti umani della popolazione civile, già stremata, e intanto si fortifica la resistenza, gli atti di terrorismo colpiscono con intensità sempre maggiore, cresce la paura e le minacce contro l’Italia e gli italiani. E mentre Bush esalta la sua missione con toni trionfalistici nella campagna elettorale appena iniziata in vista delle elezioni presidenziali del 2004, quotidianamente decine di vite vengono spezzate, quotidianamente sangue innocente continua a scorrere.