Inchiesta. Il carcere sempre più discarica sociale

mercoledì 2 aprile 2008, di Adriano Todaro

La top ten delle peggiori carceri italiane. Sofraffollamento preoccupante: a San Vittore entrano 35-40 detenuti al giorno, a Monza si dorme per terra così come a Forlì. Mancano educatori e agenti penitenziari, ma solo al Nord. E, in carcere, si continua a morire

Primo flash. Inaugurazione dell’anno giudiziario a Roma. Fra stucchi dorati e personalità (e qualche contestazione), il primo presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone, legge la relazione per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario. E’ la fine di gennaio 2008 e Carbone legge 66 pagine, soffermandosi molto sul tema dei rapporti tra politica e magistratura. Tuona contro i “processi mediatici” fatti fuori dalle aule giudiziarie che “turbano la serenità e ostacolano la tempestività della giustizia”. Certamente parole importanti, ma… Sì, c’è un ma. Detenuti e volontari di Padova, redattori del periodico Ristretti orizzonti, leggono con attenzione le 66 pagine e scoprono che le parole ricorrenti della relazione sono:
  130 volte la parola giustizia;
  79 volte la parola pena;
  32 volte la parola cittadino o cittadini;
  18 volte la parola spesa o spese;
  13 volte la parola politica o politico;
  11 volte la parola risarcimento o risarcimenti;
  9 volte la parola sicurezza;
  6 volte la parola certezza (della pena);
  1 solo volta la parola penitenziari;
  0 volte la parola carcere;
  0 volte la parola detenuto.

Secondo flash. Pochi giorni dopo la relazione del primo presidente della Cassazione, è presentata una ricerca sulle dieci carceri peggiori d’Italia. Una sorta di top ten. Il primo posto di questa negativa classifica, se lo aggiudica il carcere di Favignana che ospita 85 detenuti. Costruito sotto terra, le celle sono 10 metri sotto il livello del mare. Umidità e salsedine corrodono tutto mentre topi e scarafaggi scorazzano tranquillamente nelle celle dove sono ospitati 3 o 4 detenuti che restano in cella 22 ore al giorno. Carcere terribile, ma anche molto costoso: ogni detenuto ci costa 300 euro al giorno.

Al secondo posto, quello di Roma, Regina Coeli, un vecchio carcere italiano costruito nel 1654. Celle che ospitano dai 4 ai 6 detenuti, riscaldamento insufficiente, difficoltà a far arrivare l’acqua nei rubinetti, sporcizia e umidità. Anche qua i costi non scherzano: 14 milioni e mezzo l’anno di euro per la manutenzione straordinaria. Lo Stato ha speso 21 milioni di euro dal 1999 al 2003 per i lavori di ristrutturazione mentre la Regione Lazio, nel 2006, ha stanziato per il carcere 450 mila euro.

Poi, di seguito, Canton Mombello a Brescia, una struttura illegale perché nessuna delle norme previste dal regolamento penitenziario è rispettata. Ci sono celle di 8 metri quadri che sono occupate da 6 o 7 detenuti e altre, poco più grandi, che ospitano fino a 12 detenuti. In ogni cella un bagno alla turca e un lavandino. I letti a castello sono a tre piani, non c’è ricambio d’aria, le docce sono sporche e piene di muffa con acqua, quando c’è, che esce fredda. La capienza regolamentare è di 206 posti, ma ci sono rinchiusi 400 persone di cui 180 tossicodipendenti. Oltre a queste, entrano nella top ten il Buon Cammino di Cagliari, quello di Marassi a Genova, Poggioreale a Napoli, il carcere di Termini Imerese, Le Sughere di Livorno, quello di Belluno e quello di Venezia, il Santa Maria Maggiore.

Davanti a queste situazioni ci sarebbe proprio da chiedersi dove sta la finalità della rieducazione dettata dalla Costituzione nell’articolo 27. In situazione come quelle citate, ma che riguardano un po’ tutte le 207 carceri italiane, non ci può essere nessuna rieducazione, ma solo la funzione afflittiva della pena. In tutti questi casi, c’è sempre un denominatore comune: l’affollamento o meglio, il sovraffollamento. E’ sempre più allarmante la crescita dei detenuti che sta vanificando l’effetto dell’indulto. Lo sottolinea anche Ettore Ferrara, responsabile del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) il quale parla, senza mezzi termini, di “situazione drammatica”: oggi ci sono nelle carceri 51 mila presenze a fronte di 42 mila posti (in media, ogni 30 giorni, entrano in carcere 1.500 persone; a fine anno, se continua di questo passo, ci saranno 60 mila detenuti). Preoccupante la crescita degli stranieri che rappresentano, ormai, il 38% della popolazione totale carceraria e che provengono da 140 Paesi (nel 1990 erano l’8%). In Lombardia, i detenuti stranieri sono ben il 47,5%.

Un incremento che si evidenzia anche in campo economico: la criminalità straniera costa alla collettività 7 miliardi di euro l’anno considerati i danni provocati alle vittime, i procedimenti giudiziari, le spese sostenute per le maggiori attività delle forze dell’ordine. E, questo, non perché gli stranieri delinquono più facilmente che gli italiani, ma semplicemente perché sono meno tutelati. Basti pensare ai molti che non possono beneficiare delle misure alternative perché non hanno una casa, una voce indispensabile per accedere ai benefici e poi perché ben il 20% degli stranieri sono in carcere per violazione delle leggi sull’immigrazione, quindi non perché hanno compiuto reati gravosi, ma per aver disatteso una norma amministrativa (la famigerata Bossi-Fini). Crescono anche i tossicodipendenti che sono passati dal 10,27% del 1992 al 25% attuale.

Ma c’è di più. C’è un dato che dovrebbe veramente far riflettere tutti coloro che parlano, a sproposito di “certezza della pena”: il 60% di questi 51 mila detenuti, è in attesa di giudizio complice la lentezza dei procedimenti penali, 29.166 persone, più dei condannati. Secondo un rapporto fornito dall’Associazione Antigone, fra i condannati, il 29,5% sconta una pena per reati contro il patrimonio, il 16,5% contro la persona, il 15,2% per violazione della legge sulle droghe, il 3,7% per reati contro l’amministrazione e il 3,2% per associazione mafiosa. Le donne detenute rappresentano il 4% dell’intera popolazione carceraria e 50 sono le detenute che stanno scontando il carcere assieme al figlio di età inferiore ai tre anni.

Per quanto riguarda la durata delle pene, il 31,9% dei detenuti sconta pene inferiori ai tre anni e quindi potrebbero benissimo usufruire delle misure alternative. Il 21,3% sconta pene tra i tre e i sei anni ed il 46,8% sconta pene di durata superiore.

I numeri saranno sì freddi ed aridi, ma sono anche molto esplicativi. Da queste cifre risaltano alcuni elementi del “pianeta carcere” che molti non conoscono e altri fanno finta di non conoscere. Prima di tutto il fatto che molti reati potrebbero essere scontati fuori dal carcere e poi che l’affollamento è determinato da vergognose leggi – come la Bossi-Fini – che mette in carcere, per reati amministrativi, tantissimi stranieri. A questo bisogna aggiungere che non serve nulla costruire nuove carceri perché con l’attuale legislazione si riempirebbero subito e che l’indulto è stato vanificato perché non basta “mandare fuori” i detenuti se si è in mancanza di strutture di accoglienza, se non c’è reinserimento sociale, se è inesistente il recupero degli ex detenuti. Non vuol dire nulla, se ad un anno esatto dall’indulto, il 23,8% dei beneficiari sia tornato in cella? Governo ed Enti locali dovevano predisporre interventi di sostegno sociale ai detenuti scarcerati così da poter essere inseriti nella legalità. Invece non si è fatto. Come al solito s’interviene solo sulle emergenze, senza programmazione e, questi, sono i negativi risultati.

Tutto questo, però, sembra non toccare per nulla la stragrande maggioranza dei nostri politici che forse per accaparrarsi una manciata di voti parlano di sicurezza. Ma quale sicurezza? Da una parte si parla di castrazione chimica per i pedofili, dall’altra di lavori forzati. Certo, parlare si sicurezza si parla alla pancia della gente e ha un grande impatto mediatico favorito dagli strapuntini televisivi. Ma è un discorso che non ha ragione di esistere considerato che in Italia i reati diminuiscono come ha ricordato il rapporto dello stesso ministero dell’Interno del 2007. Eppure si parla di costruire nuove carceri come se queste potessero rappresentare la panacea di tutti i mali. Mauro Palma – rappresentante italiano del “Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti” del Consiglio d’Europa – afferma che il “sovraffollamento non si risolve con i piani edilizi. Quello che serve è una nuova politica penale e sociale”. Cosa significa? Significa che non tutti i reati richiedono una sanzione detentiva e che investire nel sociale produce un’azione preventiva rispetto a certi reati. E alla lunga risulta essere conveniente – continua Palma – perché “le carceri costano e si spende di più per costruirne di nuove con il risultato di tagliare le spese dei servizi di assistenza e integrazione oppure privatizzarle, perché la società non è favorevole a carichi fiscali troppo elevati per i detenuti”.

Palma ha toccato il vero problema: la costruzione di nuovi istituti di detenzione e la privatizzazione. Un’idea, quest’ultima, che piace moltissimo a tanti nostri politici sull’esempio degli americani. Tutto è merce in questa società e, allora, perché non fare delle carceri uno strumento affaristico? D’altronde, che le carceri siano un grande affare, è dimostrato anche ora dai tanti soldi che si spendono per corsi fantasma dedicati ai detenuti che non servono a nulla e appalti per derrate alimentari che costano di più che fuori dal carcere.

Tornando però alle dichiarazioni di Mauro Palma ci sono altri elementi che debbono fare riflettere. Palma parla di “investimento sociale”. In pratica, se io oggi investo sul reinserimento dei detenuti, domani avrò meno problemi di inserirli nella società, quindi meno problemi di sicurezza e meno recidiva. Per far questo, però, sono necessarie alcune figure indispensabili per la bisogna e prima di tutto gli educatori. Figura importantissima che ha il compito di accompagnare i detenuti nel reinserimento sociale. Istituita nel 1975 – anno della riforma penitenziaria - questa figura, fortemente voluta da Alessandro Margara, ex giudice istruttore e giudice di sorveglianza, uno dei padri della cosiddetta Legge Gozzini, ha cominciato ad operare nelle carceri nel 1979. Oggi, in tutta Italia, sono solo in 700 (ne servirebbero almeno 1.375). I concorsi non vengono banditi e l’ultimo, fatto poco prima dell’estate 2007, per 397 posti, non è ancora stato definito. Nelle carceri mancano anche gli assistenti sociali (che sono 1.165 invece che 1.630), mancano i sanitari e mancano gli agenti penitenziari.

I cosiddetti “baschi azzurri” sono distribuiti malissimo fra le 207 carceri italiane. Fare questa professione non è facile e, molte volte, i risultati “trattamentali” dei detenuti dipendono dal comportamento degli agenti. Negli ultimi tempi ci sono stati quattro suicidi fra gli agenti penitenziari (negli ultimi dieci anni 64) a dimostrazione di quanto questo lavoro possa accumulare stress e malessere. Intanto c’è da dire che gli agenti sono 41 mila, ma solo 27 mila operano nelle carceri. Mancherebbero 4.425 agenti uomini e 335 donne. In Lombardia mancano 1.200 unità, in Piemonte 900. In compenso ci sono 84 agenti di troppo in Abruzzo e Molise, 185 in Campania, 195 in Calabria, 337 in Puglia e, addirittura, 1.496 di troppo nel Lazio! Perché tutto questo? Perché la maggioranza delle persone che hanno fatto e superato il concorso provengono dalle regioni del Sud Italia. Al Nord vanno a lavorare nelle carceri e debbono fare la vita come tutti gli altri immigrati: con fatica pagano l’affitto, spesso vivono in caserma, le famiglie sono lontane, i turni di lavoro gravosi, l’ambiente certamente difficile, lo stipendio attorno a 1.100 euro. Problemi, come si vede, comuni a tanti altri lavoratori che però, a loro differenza, non possono chiedere il trasferimento. Gli agenti penitenziari, appena possono lo fanno, per “ricongiungimento familiare” e questi trasferimenti provocano le carenze che abbiamo detto.

Oltre a tutte queste figure c’è un’altra grave carenza, quella del Garante dei detenuti. Sempre promessa dai vari governi questa figura esiste solo in alcune realtà per nomina di Province e Comuni. Non esiste a livello nazionale perché tutti i governi hanno pensato bene di poterne fare a meno.

Il trend di crescita del numero dei detenuti italiani è perfettamente in linea con i dati europei. Fra gli Stati europei il sovraffollamento carcerario è pari al 125%. Sono circa 600 mila i detenuti ristretti nelle carceri dell’Unione europea; di questi, 131.000 sono in attesa di giudizio. Sembra ci sia un vento repressivo generalizzato quasi a tranquillizzare i cittadini che associano la sicurezza a più gente nelle carceri l’esatto contrario della realtà. Certo, niente da vedere con i numeri degli Stati Uniti (un detenuto ogni 100 abitanti), ma pur sempre numeri preoccupanti.

Nelle carceri italiane, anche quelle che non rientrano nella top ten negativa, si vive male. A San Vittore (Milano), ogni giorno, entrano 35-40 detenuti. Questo è un carcere circondariale e, quindi, dovrebbero esserci detenuti in attesa di processo e, invece, ci sono persone che scontano lunghe pene. Dovrebbe ospitare 900 persone, ce ne sono 1.325. Due dei sei raggi sono chiusi per cedimento delle fondamenta, le docce al secondo piano del femminile non funzionano e, spesso, in celle di 3 metri x 2, convivono sei persone. Difficile operare, anche per i volontari, in queste condizioni. Molte le attività sospese, tensione epidermica fra detenuti e detenute, rimpianti per l’ex direttore Luigi Pagano oggi a capo del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria lombarda. A Lecce, carcere costruito nel 1998 per 1.300 posti, i detenuti stanno in cella in tre dove dovrebbe starcene uno solo. Non si fanno attività: un’ora e mezza d’aria al mattino e altrettante nel pomeriggio, poi chiusi in 2 metri quadri. In Piemonte la situazione è esplosiva per il sovraffollamento nei 13 istituti di pena (3.240 posti per 4 mila detenuti) e come ha denunciato recentemente La Stampa, spesso manca anche il pane. A Forlì i detenuti dormono su materassi piazzati per terra e gli agenti non hanno i servizi igienici. A Monza si dorme anche lì per terra ed è stato dimezzata l’ora d’aria. A Padova, nel circondariale, ci sono 200 detenuti mentre, al massimo ce ne dovrebbero stare 160. Recentemente è caduta anche la porta carraia. E potremmo continuare.

In questa situazione è possibile la rieducazione del detenuto? Quando si vive in 5-6 persone in spazi angusti e si sta sdraiati in branda per più di 20 ore al giorno, cosa mai potrà sortire? Non è un caso, infatti, che negli ultimi otto anni, il periodico Ristretti orizzonti ha registrato 1.224 morti in carcere, di cui 438 suicidi (almeno quelli che si conoscono). Solo quest’anno, sino al 15 marzo, ci sono stati 23 morti di cui ben 9 suicidi.

Il sovraffollamento genera trattamenti inumani e degradanti. Il carcere diventa sempre più discarica sociale. Questo è necessario che sappiano i cittadini. Il problema delle carceri non può essere delegato solo a gruppi di volontari più o meno disponibili o al personale che ci lavora. Se in tutti questi anni nelle carceri italiane non ci sono state rivolte – come negli anni Ottanta – lo si deve principalmente a tutte queste figure che hanno avuto un contatto costante e professionale con i detenuti. Ma ormai siamo al limite. Poi non ci si lamenti se ci saranno rivolte, problemi di ordine pubblico, spese immani da sostenere. Bisogna intervenire e fare presto. Chiunque vincerà le elezioni non potrà far finta di niente. Non fosse altro perché tutto ciò non è ammissibile in un Paese che si autodefinisce civile.


Adriano Todaro

:.: Città invisibili

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