Il processo per il crollo della scuola Jovine a San Giuliano di Puglia

domenica 15 luglio 2007, di ritaiacobucci

Una donna con la toga. Minuta, la sagoma si perde sullo sfondo della sala di albergo in cui si è tenuto il processo. Legge in fretta. Legge la sentenza del processo di primo grado per il crollo della “Jovine” a San Giuliano di Puglia dopo il terremoto del 31 ottobre 2002, 27 bambini e una maestra deceduti sotto le macerie. Legge e scappa via...

CAMPOBASSO. Una donna con la toga. Minuta, la sagoma si perde sullo sfondo della sala di albergo in cui si è tenuto il processo. Legge in fretta. È contratta, nervosa. La lingua scappa via appena articolate le parole, che restano a mezz’aria. Si infilano l’una dietro l’altra e formano il concetto. Che arriva sulle persone, sulle loro facce in attesa. Mai sentenza era stata così reale, si è attaccata sulla pelle di chi era ad ascoltarla.

Assolti. Perché il fatto non sussiste. Non sussiste perché non è stato sufficientemente provato.

Legge la sentenza del processo di primo grado per il crollo della “Jovine” a San Giuliano di Puglia dopo il terremoto del 31 ottobre 2002, 27 bambini e una maestra deceduti sotto le macerie. Legge e scappa via Laura D’Arcangelo, giudice monocratico del tribunale di Larino, consapevole della reazione che ci sarà.

L’uomo è istinto, il dolore evade da chi lo prova e si muove autonomamente.

E come restare zitto, se davanti ti torna il volto di tuo figlio, occhi e manine perduti per sempre. Se davanti quel viso lo hai tutti i giorni. Come non muoverti, scattare, urlare. E pure, perchè muoverti ancora, perché camminare, mangiare, vivere. Senza di lui, senza di lei. Lasciata in quel mattino di ottobre, cinque anni fa, a scuola. Non è più tornata da te. L’hai ascoltata, la vocina flebile sotto le macerie. Il tempo di salutarti. Per un addio che non hai mai consumato. Perché non si può.

La giustizia oggi in quell’aula improvvisata, dopo un processo sentito, vissuto, interpretato, è stretta in una morsa necessaria. Quella della sofferenza che mai verrà sanata. La sequenza delle immagini è urla e spasimo e gambe immobili o sedie buttate via con forza. È rabbia e fisico che cede. È occhi che guardano senza vedere. È indignazione e maledizioni.

La giustizia oggi in quell’aula improvvisata è una pubblica accusa incredula. Non sono provati gli addebiti, ha detto il giudice. È una pubblica accusa che insiste, ma non sa se presenterà l’appello. Aspetta di leggere le motivazioni.

A te le motivazioni non servono, nessuna ragione giustificherà mai il terremoto e il crollo della scuola. Volevi solo sapere perché quell’edificio è crollato e quelli vicini no. Volevi solo sapere perché e come è stata decisa la sopraelevazione.

Lo Stato ora ti dice: non lo so, non posso dirtelo, non mi hanno spiegato bene.

La giustizia, a Larino, oggi si arrende. Lascia parlare, piangere, e gridare che no, non è da posto civile lasciare morire ventisette bambini e la loro maestra e dire che nessuno, nessuno è responsabile. La giustizia e il cuore lasciano dire che non finisce qui, che le conseguenze saranno pesanti, che la giustizia è quella che ci si costruisce da soli.

L’anima del Molise, di noi che abbiamo solo assistito, coinvolti, ma non toccati dalla disgrazia del 31 ottobre 2002, abbraccia e comprende la reazione di padri e madri disperati senza appello, senza possibilità di riscatto, sfiancati dalla loro stessa battaglia.

La sfida della vita, domani, dopodomani, un giorno forse lontano, ma reale è quella di capire.

Di capire, senza cercare vendette. La vendetta non è la verità.

Faceva freddo quattro giorni dopo il terremoto a San Giuliano. Un freddo artificiale, siderale in quel campo di calcio in cui erano stati sistemati i sopravvissuti. Un freddo che il clima non può generare. Era il freddo di un paese, di una comunità senza più il respiro caldo del suo futuro. Era il freddo della morte inaccettabile, quella che ti ossessiona e ti mina dentro.

C’era un uomo in mezzo a quel campo, il fisico diventato pezzo di legno, un pinocchio senza geppetto a renderlo vivo. Sindaco del paese all’epoca, imputato assolto oggi dal giudice. Aveva vissuto tre giorni di vita non sua, martirio e straniamento. Una figlia persa e la responsabilità di un ruolo che non lascia vie d’uscita. Aveva versato lacrime senza coscienza. Nell’abbracciarlo, unico gesto concesso da un’impotenza assoluta, ho sentito che il pezzo di legno ridiventava carne. Le lacrime che scesero su quel viso erano vere, consapevoli. Dicevano che non avrebbe avuto più salvezza.

La condanna gliel’aveva già inflitta la vita, che non ha aspettato la giustizia degli uomini.

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ritaiacobucci

:.: Città invisibili

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