Troppo tardi per le patrie contese?

mercoledì 21 febbraio 2007, di pietro g. serra

Su nessun luogo come in Istria e Dalmazia la “morte della patria” nel cuore degli italiani ha gettato un oblio tanto pesante. Negli ultimi decenni, molti giovani italiani hanno, lodevolmente, studiato la storia delle identità negate...

Nel “De Vulgari Eloquentia” Dante Alighieri divide la lingua italiana in quattordici variazioni, tra cui quella “del Friuli e dell’Istria che stanno alla sinistra d’Italia”. Tra le generazioni di studenti liceali che hanno letto, nell’originale latino, questo passo, a pochissimi è venuto in mente che una parte di quelle terre non apparteneva più all’Italia, in seguito ad una guerra perduta e a una feroce pulizia etnica. Eppure, l’Istria, ma anche la Dalmazia, sono nate alla civiltà e si sono sviluppate, per secoli, grazie all’impronta romana prima e a quella veneziana poi. Gli italiani nati dopo la Seconda guerra mondiale tale realtà storica l’hanno perlopiù ignorata.

E’ questo il punto dal quale partire per comprendere la reazione scomposta del presidente croato Mesic alle parole del nostro capo dello Stato che, celebrando il giorno della memoria per le vittime italiane in quelle terre, aveva parlato di “furia sanguinaria” e di disegno “annessionistico slavo”. Il problema è che Mesic, e con lui tutti i politici croati, parole simili da un presidente italiano, oltretutto un ex comunista, non le aveva mai sentite pronunciare e mai si sarebbe aspettato di udirle.

Su nessun luogo come in Istria e Dalmazia la “morte della patria” nel cuore degli italiani ha gettato un oblio tanto pesante. Negli ultimi decenni, molti giovani italiani hanno, lodevolmente, studiato la storia delle identità negate, da quella palestinese a quella irlandese, a molte altre nei vari continenti, ma se, alla stragrande maggioranza di loro, fosse stata posta una domanda sull’esodo di 350mila italiani dalle sponde dell’Adriatico orientale, la risposta sarebbe stata di sorpresa. Un popolo che dimentica le proprie ferite e abbandona i propri connazionali in rovina si deve attendere parole sprezzanti come quelle pronunciate da Stipe Mesic.

Se, alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Italia poteva fare ben poco per difendere i suoi diritti, è in altre due occasioni che il nostro Paese non ha dimostrato rispetto per se stesso e per il proprio passato. Nel 1975, uno dei più grigi boss democristiani, Mariano Rumor, ministro degli Esteri del governo Moro, firmò l’atto di cessione definitiva alla Iugoslavia della cosiddetta zona B, comprendente Capodistria, Pirano, Umago, Buie, Cittanova. Il Paese si amputava di un’area di 529 Kmq. e, cosa ancora peggiore, condannava all’esilio o alla condizione di stranieri in patria, altri 53mila italiani, senza esservi costretto da cause di forza maggiore, se non da vaghe pressioni di quanti, in Occidente, identificavano in Tito un argine all’espansionismo sovietico. Alla seduta della Camera di discussione della ratifica assistettero solo una quindicina di parlamentari distratti, mentre gli altri si precipitarono in aula solo al momento del voto che si concluse con 249 sì e 51 no. Nel Paese, disinteressato, ci fu solo qualche sparuta protesta dei neofascisti. Si provi, ancora oggi, a chiedere ai propri conoscenti dove si trova Osimo, la cittadina che ospitò la firma del trattato…

E’ nel momento della dissoluzione della Iugoslavia che, però, il disinteresse per le terre perdute si mostra in modo più clamoroso. Il governo italiano riconosce l’indipendenza di Croazia e Slovenia, autorizzandole a succedere alla Iugoslavia in tutti i diritti, chiedendo in cambio solo vaghe rassicurazioni, peraltro abbondantemente disattese in seguito, sulla tutela dei nostri connazionali. Eppure, anche in questo caso, niente e nessuno ci obbligavano a tenere un atteggiamento così arrendevole. I trattati erano stati sottoscritti con uno Stato che non esisteva più e, secondo il diritto internazionale, avremmo avuto tutte le ragioni di ridiscuterli. Qualsiasi Stato degno di questo nome e consapevole di avere subito un’ingiustizia storica avrebbe approfittato di un’occasione così insperata. Non che avremmo dovuto cercare di impadronirci con la forza dei territori perduti, ma quella sarebbe stata, però, l’occasione ideale per salvarne, almeno in parte, l’identità italiana, anche riconoscendo la sovranità ultima di Zagabria e Lubiana. La nostra politica avrebbe potuto tentare strade nuove, chiedendo che per gli italiani e i loro investimenti si concedessero delle condizioni privilegiate, in modo da creare un’area di pacifica convivenza fra due nazionalità riconosciute alla pari, pur mantenendo l’integrità territoriale delle nuove repubbliche.

L’individuazione di nuove forme di coesistenza nelle “patrie contese” è una delle più decisive questioni della politica internazionale. L’Italia avrebbe potuto, per prima, farsi promotrice di un esperimento che forse, un giorno, sarebbe stato imitato in Kossovo, in Palestina e in molti altri Paesi dilaniati da conflitti fra comunità contrapposte. Certo, ci sarebbero state le reazioni dei nazionalisti di Croazia e Slovenia, ma ricordiamoci che, all’epoca, quelli erano due nuovi e piccoli Stati, fiaccati da una guerra e desiderosi, nel più breve tempo possibile, di agganciarsi al carro dell’Europa, sul quale noi viaggiamo con la qualifica di Paese fondatore. L’Italia, però, sarebbe dovuta essere uno Stato con una coscienza della propria identità, della propria storia e dei propri interessi.

All’epoca non lo eravamo e anche oggi abbiamo fatto pochi passi in avanti. Certo, negli ultimi anni, una situazione culturale meno plumbea ha permesso agli italiani di sapere cosa sono le foibe e di interrogarsi su episodi storici dimenticati. Si tratta di un progresso che una parte del nostro mondo culturale non riesce, però, ad accettare, accusando di revisionismo strumentale quanti ridiscutono le verità ufficiali fino a ieri imperanti. Che una simile accusa sia stata lanciata anche da un ex comunista come Mesic a un uomo col passato di Napolitano è una prova di come, talvolta, nella storia, il paradosso conti più della razionalità.

Roberto Zavaglia


pietro g. serra

:.: Città invisibili

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