Gigi era Gramsci e Berlinguer, era l’Italia tenace e povera con il cuore nella terra

mercoledì 24 gennaio 2024, di Sergej

Il 22 gennaio 2024 è morto Gigi Riva, un calciatore ma soprattutto un grande esempio umano e di vita. Con lui, la nostra infanzia, e un Paese che (forse) era più sano e generoso di oggi. Un "homine balente".

Gigi Riva per quelli della mia generazione. Bambini negli anni Sessanta del secolo scorso. Con un giocatore che non solo sapeva stare sul campo e vinceva - perché allora l’Italia "sapeva vincere" -, ma in tutte le scelte che ha fatto nella sua vita ha dimostrato l’estrema coerenza umana e la serietà che hanno fatto di lui non solo un mito, ma qualcosa di più intimo e vero.

Che Italia era quella di Gigi Riva? Certamente un’Italia diversa da quella che sarà subito dopo e che è diventata oggi. Pasolini purtroppo aveva ragione. In quegli anni l’Italia ha bruciato se stessa, ha venduto la propria anima - se mai ne esisteva una sola, ma assieme a tutte le altre ha venduto, letteralmente, quella che forse aveva più intima e importante, quella che la connetteva alla terra e al sacro (e che non aveva niente a che vedere con gli imbonitori religiosi) -. Gigi Riva con la sua faccia da imbronciato e i suoi silenzi (più di Dino Zoff) era uno che lottava "contro". A modo suo, senza violenza e cercando di mantenere la coerenza a se stessi in un mondo sempre più difficile e distorto.

Parlando del film biotopic di Riccardo Milani, che ha rievocato la parabola di vita di Gigi Riva, Mario Frangia ne scriveva nel 2022 come di "homine balente" [1]:

" Da oggi [siamo nel novembre 2022] nei cinema italiani il film “Nel nostro cielo un rombo di tuono” di Riccardo Milani. La pellicola celebra il più grande di sempre. Luoghi, persone, lacrime e gioie. Testimonianze e commenti di pregio per il bomber dei bomber, patrimonio del calcio, dei sardi e dell’umanità.

Ci sono i suoi silenzi. Immersi nel fumo delle Marlboro, dei pensieri, dei dolori e delle gioie, che vanno indietro nel tempo. Un’infanzia difficile, incertezze, lavoro. Lutti, pesantissimi. La maglia 11, il Cagliari, la Nazionale. Il calcio, e un talento che mette paura: “Guardatelo quando parte palla al piede, vi verrà un brivido” disse di lui Pelé. Il pallone, le sue curve, come favoloso antidoto alla miseria. Dotato di un sinistro irripetibile, capace di abbracciare per sempre il Cagliari. E i sardi. Dio laico, uomo schietto e tenebroso, Gigi Riva da Leggiuno, icona di riscatto e salvezza. Riccardo Milani lo racconta con “Nel nostro cielo un rombo di tuono”. Il regista – autore di pellicole di pregio, da “Benvenuto presidente!” a “Un gatto in tangenziale” – racconta l’ultimo mezzo secolo di un’intera isola. “Vengo in Sardegna dal 1975. Quando ho visto in un bar le foto incorniciate di Antonio Gramsci, Enrico Berlinguer e Gigi, ho capito meglio di che pasta siate fatti. Di quali siano le vostre caratteristiche, dal senso di appartenenza allo spirito libero. Per questo ringrazio Gigi e la Sardegna” dice Milani.

Valigie di cartone, miseria e orgoglio. La Saras e le ciminiere di Ottana, gli emigrati, la rivolta di Pratobello, operai, pastori, pescatori e contadini di una terra e di un mare spesso infido, tosto, pericoloso. Gigi che sorride, al Poetto, è uno spot che regala una scossa. Gigi che si racconta, nell’intimità del suo salotto con Beppe Tomasini e Sandro Camba, è una rivoluzione. I commenti di Roby Baggio, Gianfranco Zola (in un Sant’Elia a pezzi), Sandro Mazzola, Massimo Moratti, Comunardo Niccolai, Ricky Albertosi, Gigi Buffon, Bobo Gori, Ricciotti Greatti, Adriano Reginato, Piero Cera, Nicolò Barella, Stefano Arrica, Gianfranco Matteoli, mettono i brividi. Ci sono i figli del mitico Marius e di Martino Rocca, Stefano. Gigi è in poltrona, a casa sua nel centro di Cagliari. Autorecluso, da anni, in pace con il mondo e con se stesso.

Fuma e guarda una bacheca ricca di cimeli, targhe, coppe. Appaiono i figli Nicola e Mauro. “Gigi è stato coerente, coraggioso di quel coraggio che se ne avessimo tutti un po’ di più andrebbe molto meglio” dice Riccardo Milani. Al cinema Odissea, nella premiere mattutina per i giornalisti, si godono le reti della leggenda anche Leonardo Pavoletti e Roberto Muzzi. “Gigi era fuori classifica, eravamo un gruppo fantastico guidato da un grande allenatore. Ma senza i suoi gol non avremmo mai vinto il titolo” dice Angelo Domenghini. “Se non l’avessero fratturato avremmo vinto anche il secondo scudetto” aggiunge Beppe Tomasini.

Il libero dello scudetto dà una notizia: “Mio nonno era partigiano!”. Si parte. Gigi in collegio, ne girerà tre, in Nazionale giovanile, catturato da Andrea Arrica, con Arturo Silvestri all’Amsicora. Si parla di Graziano Mesina e altri latitanti. Intanto, scorrono le immagini dei gol. Lui, ombroso e riservato, faceva impazzire le donne. In campo, veniva randellato come pochi. Appare il compagno di qualsiasi gioco, qualsiasi lavoro e qualsiasi missione, anche impossibile, che chiunque avrebbe voluto al fianco. A scuola, in campo, nella quotidianità. Gigi che divide sigarette, whisky e timidezza con Fabrizio De André. “Nelle canzoni esprimeva quel che pensavo, sulla vita e sulle persone. Fabrizio, mi ha regalato la chitarra. Io una mia maglia”.

Terra di contrapposizioni sociali. Da Orgosolo a Cabras, dai centenari alle vecchine che lo venerano come un figlio. Passando per i Tenores barbaricini, i balli e le poesie. Scorrono le vie di Pula, Mamoiada, Oristano, Sedilo, Tonara, Terralba. Dai giornalisti Bachisio Bandinu, Antonello Madeddu e Mario Guerrini, al ristoratore di fiducia, Giacomo Deiana, Lo ricordano in tanti. Volti severi, scolpiti da sole e vento. Prende corpo un volo leggero e catartico, irripetibile e stordente. Un sentiero che va oltre il calcio, prende per mano diverse generazioni, si consolida con la vittoria degli Europei del ’68, lo scudetto, il secondo posto ai Mondiali del Messico. Poi, c’è la valigia da team manager dell’Italia.

La riuscita alchimia firmata Milani. “Ricordo di aver fatto un tema su Gigi Riva alle elementari. L’ho inseguito per vent’anni” dice Riccardo Milani. Il regista mostra sensibilità e vicinanza. Gigi ha ricambiato. “Significa che ha capito quel che ho sempre pensato di lui. Di lui e dei suoi valori. Del rispetto per gli altri, della ritrosia a mostrare quel che non serve, del voler custodire emozioni e sentimenti con un rigore morale ed etico elevatissimo: Riva ha affermato nei fatti che non tutto si può comprare”. L’ala sinistra, la 11 messa in una teca, sforbiciate e incornate a colo d’angelo.

La punta e l’uomo. Granito puro. Onestà e valori che non ammettono intercessioni. L’attaccante che offre amicizia e attenzione solo dopo aver scelto, pensato, capito le intenzioni dell’interlocutore. “Se ci fossero più Gigi Riva, il mondo sarebbe migliore” rilancia il regista. La storia, dunque. Con l’Amsicora e lo scudetto del ’70, Scopigno e gli altri del tricolore. Un film in bianco e nero, intenso e toccante. I ragazzini dietro il tram che va al Poetto, appesi agli alberi dello stadio, pronti a imitarlo in qualsiasi cortile. Emozioni che rimarranno per sempre a colori.

Pallonate e lezioni di vita. Milani racconta l’uomo e il mito, il bomber recordman da quasi mezzo secolo della Nazionale, 35 reti in 42 partite. Mette in fila le gambe spezzate in azzurro. Narra dei tanti a cui ha sempre detto no. Anche a Franco Zeffirelli, che gli avrebbe voluto affidare il ruolo cinematografico di San Francesco. No alla Juve dell’avvocato Agnelli e di Giampiero Boniperti. No alle altre grandi del pallone. Sì ad Andrea Arrica, che lo strappò al Bologna. Sì a una Sardegna rurale, povera, umile, poco istruita e sfruttata. Sì a Martino Rocca, il pescatore, e a pochi altri. Sì alle corse in macchina, la Dino Ferrari, nel cuore della notte sulla Carlo Felice con Boninsegna che ancora oggi dice di “non aver avuto mai così tanta paura!”. Sì al giocare con un pensiero per gli altri: “Mario (Martiradonna, ndr) deve finire di pagarsi la cucina, cerchiamo di vincere”. Unico, diretto, incorruttibile.

Gigi Riva che, da team manager dell’Italia che vince inaspettatamente i Mondiali di Germania nel 2006, lascia il bus che sfila per Roma quando nota che alcuni politici colgono l’occasione per stare in vetrina. Gigi Riva che fonda la Scuola calcio. Che accetta di incontrare e di farsi intervistare da un giovane che cerca di lasciarsi alle spalle l’eroina. Gigi Riva che si commuove quando, negli anni Settanta, sulle mensola del caminetto di una anziana signora di un paesino dell’interno, vede la sua foto accanto a quelle di Fra Ignazio da Laconi e della Madonna di Bonaria.

I suoni e le voci. Con Piero Marras, Tazenda, De André per colonna sonora. I colori del mare, i tavolini di piazza Yenne, i bus e i tram per il Poetto. Riva, sposato a una squadra, una maglia, un’isola. Di più, a un’idea di sardità inossidabile. Etnico e identitario come pochi. Un volto da indio, duro e scolpito dalle smorfie quasi quanto le maschere della Barbagia. Mamuthones e voragini di tradizioni e riti, preghiere e lacrime. Schivo, riservato, fedele a se stesso. Il film, due anni di riprese, non ha mai avuto uno stop. Riva non ha mai chiesto di vedere qualcosa. Lo scoprirà solo adesso.

Si rivedrà al Poetto, cielo nuvoloso e creste di schiuma nella distesa del golfo degli Angeli. “All’ultimo ciak è consuetudine l’applauso corale che chiude le riprese. Eravamo dentro casa di Gigi, una troupe di una trentina di persona. Tutti abbiamo applaudito con sincero entusiasmo. Siamo andati via e mi accorgo di aver lasciato su il ciak. Chiamo Nicola (Riva, ndr) che era ancora con il padre. Gli chiedo di portarmelo: “Scusa, Riccardo. Papà mi chiede se può tenerlo!”. E chissà se è una coincidenza che nel film non ci sia una sola parola sul fatto che dell’attuale Cagliari in mani milanesi sia il presidente onorario. “Nel nostro cielo un rombo di tuono” arriva al cinema oggi. È vietato perderlo".

Del rapporto tra la Sardegna e Gigi Riva ne ha parlato subito Il Post:

Ci arrivò per caso e con l’idea di lasciarla subito, ma finì per giocare per tutta la carriera col Cagliari e diventò un simbolo dell’isola, rifiutando ogni trasferimento nelle grandi squadre del nord

L’elenco delle squadre per cui giocò Gigi Riva, morto lunedì a 79 anni, è molto breve: il Legnano, con cui esordì in serie C a 17 anni; la Nazionale italiana, di cui è ancora oggi il miglior marcatore, con 35 gol segnati in 42 presenze; il Cagliari. A Cagliari, in Sardegna, giocò praticamente tutta la sua carriera, fino al ritiro avvenuto quando non aveva ancora 32 anni. Negli anni Sessanta e Settanta Riva fu uno dei migliori giocatori italiani e d’Europa: immaginare oggi un giocatore di quel livello impegnato sempre con una sola squadra, peraltro non di quelle solitamente considerate “grandi” e con maggiori possibilità economiche, può sembrare molto strano. Lo era anche allora, in realtà.

Il legame fra Gigi Riva e il Cagliari, nato per caso, fu un’anomalia. E si trasformò in un rapporto strettissimo fra il giocatore e l’intera Sardegna, di cui divenne simbolo e che non abbandonò nemmeno a carriera finita. Per rimanere al Cagliari, a Cagliari e in Sardegna Gigi Riva rifiutò in più occasioni il trasferimento nei grandi club del nord Italia, dove avrebbe guadagnato di più e avrebbe probabilmente avuto più occasioni di vincere, a livello nazionale e internazionale.

Riva arrivò a Cagliari nell’estate del 1963, quando aveva 19 anni e quando l’isola era molto diversa da com’è oggi. La Costa Smeralda, ad esempio, era ancora una zona per lo più disabitata; l’imprenditore e principe Karim Aga Khan IV aveva comprato solo un anno prima i terreni con l’intento di trasformarli in una destinazione turistica. I collegamenti con il resto della penisola erano limitati, l’economia si basava su pastorizia, pesca ed estrazioni minerarie, e lo sviluppo industriale sarebbe arrivato in quegli anni. Il Cagliari giocava in Serie B, e per ridurre i viaggi in “continente” giocava due partite di fila in trasferta: fra una e l’altra faceva base a Legnano, e qui dirigenti e allenatore videro Gigi Riva giocare una partita della Nazionale Juniores. La società lo acquistò per 37 milioni di lire nell’intervallo di quella partita.

Riva, come raccontò più volte, non era entusiasta del trasferimento: nato a Leggiuno, in provincia di Varese, cresciuto in tre diversi collegi dopo la morte prematura del padre (incidente sul lavoro) e poi della madre (cancro), non era mai uscito dal territorio provinciale. Nella sua autobiografia scrisse: «L’ho sempre detto e lo ripeto qui di mio pugno: a Cagliari sbarcai con l’idea fissa di chiedere scusa a tutti e di tornarmene a casa il prima possibile». Arrivò a Cagliari con la sorella Fausta, la maggiore, che gli fece per qualche anno da seconda madre. L’impatto non fu buono, il viaggio piuttosto complesso, su un piccolo aereo che partì a Milano e fece scalo prima a Genova e poi ad Alghero prima di arrivare a Cagliari. Il giorno dopo lo portarono a vedere il campo, quello dello stadio Amsicora, oggi demolito: «Invece dell’erba c’era ’sta sabbia chiara chiara, e dove avrei scoperto col tempo che cadere non era drammatico ma nemmeno così simpatico».

L’idea di trovare un modo per lasciare presto l’isola fu abbandonata in breve: Riva trovò un gruppo giovane e ambizioso e al primo anno ottenne subito la promozione in A. Al Cagliari in quegli anni gli “scapoli”, cioè i giocatori non sposati, vivevano tutti insieme in una foresteria, si allenavano insieme, uscivano insieme, mangiavano insieme: «Ho ancora in mente il menu di una giornata tipo: l’uovo crudo a colazione, a pranzo riso, bistecca e frutta, a cena minestrone, pollo e frutta. Avrei scoperto poi quanto mi piacesse il pesce».

In Sardegna Riva avrebbe poi trovato anche una sorta di figura paterna nell’allenatore Manlio Scopigno, che lo allenò a partire dal 1966. In campo si affermò presto come uno dei migliori attaccanti del campionato, fuori dal campo iniziò ad avere un legame forte con i tifosi, con cui condivideva una sorta di spirito di rivalsa, come spiegò in seguito: «La Sardegna era considerata un’isola penale, una terra di banditi, un posto dove si veniva mandati in castigo. I sardi hanno subìto nel corso dei secoli ingiustizie e abbandono. Il nostro scudetto fu un riscatto enorme. Quando andavamo a giocare a Milano e Torino vedevo l’orgoglio dei nostri tifosi, protagonisti dopo aver subito tante umiliazioni nella vita».

Lo scudetto arrivò nel 1970, il primo e unico della storia del club: Riva era già uno dei migliori giocatori al mondo, arrivato secondo nel 1969 al Pallone d’oro dietro a un altro italiano, Gianni Rivera del Milan. Era già anche Rombo di Tuono, soprannome che gli diede Gianni Brera, noto giornalista sportivo: l’immagine è quella di un’energia che si scatena improvvisamente, «a cui non può non seguire l’acquazzone, il temporale, lo sfogo e, insomma, la liberazione del pallone che finalmente finisce in rete» (fu Riva stesso a raccontare così questa spiegazione che gli diede Brera). L’immagine del “rombo di tuono” peraltro veniva probabilmente da un libro di Grazia Deledda, scrittrice sarda premiata con il Nobel per la letteratura nel 1926. In Cenere, del 1904, Deledda scrisse: «L’ombra addensavasi, il vento urlava sempre più forte, con un continuo rombo di tuono». Brera non ha mai confermato se si fosse ispirato a quell’immagine, ma sono stati in molti a ipotizzarlo.

Lo scudetto del Cagliari non fu frutto di una stagione particolarmente fortunata e imprevedibile: l’anno prima la squadra aveva chiuso al secondo posto, in quello dopo finì settima a causa di un lungo infortunio di Riva, quello successivo chiuse quarta. La squadra, di cui Riva era simbolo e miglior giocatore, aveva tanti giocatori di talento, fra cui spiccavano Enrico Albertosi, Comunardo Niccolai, Mario Brugnera, Pierluigi Cera, Angelo Domenghini, Bobo Gori. Le grandi squadre del nord Italia provarono a prelevare gli elementi migliori.

Il più ricercato era ovviamente Riva, per cui nell’estate del 1973 la Juventus fece una grande offerta: l’avvocato Gianni Agnelli, proprietario della squadra, autorizzò a stanziare due miliardi di lire e a mandare sei giocatori a Cagliari, fra cui Roberto Bettega, Claudio Gentile e Antonello Cuccureddu, per avere Riva e Albertosi. Riva rifiutò, nonostante la promessa di uno stipendio fuori mercato: «Ricordo una manifestazione per farmi restare. E ricordo un’anziana signora, lì, in mezzo ai tifosi. Non sapeva di calcio, ma sapeva che non avrei mai tradito. E fu anche quello a convincermi».

In seguito ci avrebbero provato anche il Milan e l’Inter, ottenendo lo stesso rifiuto: Riva non vinse altro, con il Cagliari, ma stabilì un legame con la squadra e con la Sardegna che andò avanti ben oltre la fine della sua carriera. Si ritirò presto, dopo un grave infortunio, il terzo della carriera: due volte i difensori gli avevano rotto un osso della gamba, in un periodo in cui il gioco duro era molto più frequente e gli attaccanti molto meno tutelati.

L’anno dopo il ritiro entrò nello staff della società, dopo altri dodici mesi nel 1979 ne diventò dirigente e nel 1985, in anni difficili per il club a livello economico e di risultati, assunse le responsabilità della presidenza. Lasciò ogni incarico nel Cagliari nel 1986, dopo 24 anni, ma poi venne nominato presidente onorario nel 2019. Ha sempre vissuto in città e sull’isola: il prossimo stadio del Cagliari, per cui è stato approvato il progetto, porterà il suo nome.

Ciao Gigi.

Note

[1] Vedi: Gigi Riva, homine balente!.


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