Filosofia ad alta quota. Sul libro di Francesco Tomatis

sabato 8 aprile 2006, di Giuseppe Pulina


C’è un termine, “alpimistica”, di cui confesso non aver mai sentito pronunciare il suono prima della lettura della Filosofia della montagna di Francesco Tomatis(Milano, Bompiani, 2005, pp. 222, € 8,00). Un termine che si lascia concettualizzare solo dopo una lunga riflessione intorno al grande richiamo che la montagna può esercitare sul pensiero. Montagna vista e vissuta non come sterile e formale metafora di un mondo altro da quello in cui viviamo, ma montagna vissuta e concepita come luogo, dimensione, condizione e spazio in cui il pensiero può liberamente esercitarsi e verso il quale deve necessariamente tendere. Sempre che aspiri realmente a superare sé stesso, a farsi pensiero in carne, e non vuota, pneumatica astrazione. Pensiero che mira ad alte quote, lambisce l’abisso, esperimenta il senso di vertigine che potrebbe schiudere le porte allo scacco e che, una volta attraversato indenni, si fa, invece, liberazione e nuovo guadagno. E perché così sia, non è nemmeno necessario che la montagna sia sempre più alta, buona per nuovi traguardi da iscrivere nel guinness dei primati. Le imprese dello spirito, se così vogliamo chiamarle, sono sempre fini a sé stesse, almeno nella misura in cui possono essere intese come sfide al mondo dell’ovvietà e dell’ordinario. Poco rassicuranti, naturalmente, come tutte le sfide, in cui ciò che si scommette comporta inevitabilmente anche il rischio di una perdita.

Ridotto in estrema sintesi può essere riassunto nelle poche parole sopra riportate il senso attorno al quale gravita La filosofia della montagna di Francesco Tomatis, un libro in cui la speculazione diserta di proposito i profili piatti di tante tematiche che trasudano l’urgenza di una cogente contemporaneità e in cui lo sguardo del pensiero (quello che molto platonicamente potremmo chiamare anche “intellezione”) prende le proprie misure per proiettarsi in un mondo che si può dire nostro solo in misura della sua difficile e oggi sempre più rara attingibilità. Chi guarda la montagna e la scala a mani nude, con un armamentario di pensiero ridotto all’essenziale (concetti nudi come duri calli), può aspirare a quel grado della vita che Simone Weil chiamava “grazia”, “leggerezza”, e che Tomatis, molto alpimisticamente, chiama invece ascesi. Ascesi che, in riguardo alla montagna da scalare, è anche ascesa. «Senza ascesi - leggiamo nella Filosofia della montagna - non si dà ascesa, senza ascesa non c’è vera ascensione». La soluzione segue immediatamente: «Soltanto nel compiersi ascetico della kénosis dell’io - scrive Tomatis - svuotamento non solo interiore, apriremo il cuore ad ascoltare la montagna - la quale da sempre attende aperta il nostro libero, aperto amore ascensivo». Il linguaggio della montagna non è clamore assordante, ma silenzio udibile, come il respiro che parla a suo modo il linguaggio del corpo, sospeso «fra soffio spirituale e ispirativo cammino».

La montagna è anche misura di ciò che nell’esistenza ordinaria sarebbe indecifrabile. È una nuova prospettiva, un point of view sul mondo che molto raramente si lascia guardare, temporaneamente abbandonato a sé stesso, dall’alto. «La montagna - afferma l’autore - purifica dai sogni della ragione e dai suoi incubi conseguenti, ridimensiona alla luce della mortalità naturale, ma anche delle grandi possibilità dei piccoli passi umani, ogni velleità spropositata, già eccessiva in quanto soltanto egoisticamente autoproiettata». Misura e unità dell’autosuperamento, la montagna si trova a «mezzo fra terra e cielo, radicamento e liberazione, al di là di autoaffermazione e autonegazione, proprie alla piattezza dell’identificazione». È indicatrice di una via: «né la metà né l’elisione, piuttosto la trasformatrice somma fra gli estremi», hóros e óros, limite e monte, confine e asperità. Altra sintesi di cui la montagna può essere espressione è quella dell’orizzontalità che si fa vertice, verticalità avvolgente, itinerarium mentis che si costruisce passo dopo passo senza l’ausilio di mappe, cartine, guide esplorative. La montagna è pensiero itinerante, ma anche, come sa bene lo sciatore e lo stesso Tomatis, un esercizio di traiettoria.

Tanti sono gli insegnamenti che la montagna, se ascoltata e scalata, può trasmettere. La certezza che una volta nel mondo non vi fossero città diventa assoluta in montagna. L’artificiosità dell’esistenza che caratterizza il nostro stile di vita (e il riferimento va al nostro mondo occidentale) diventa un’imbarazzante certezza in montagna, dove la tecnologia non può essere di casa. Al campo base bisogna abbandonare il superfluo, e tale è anche «ogni pesante apparato tecnologico che voglia sostituirsi al tuo corpo libero e al nostro spirito puro». La vetta, altrimenti, non sarebbe conquistata, ma estorta, abusata, fintamente posseduta. Anche se il vero possesso sembra essere la rinuncia, conditio sine qua non per accedere alla leggerezza e alla libertà. Campioni di questa filosofia della montagna (che non sarebbe forse tanto corretto porre in stretta e antagonistica competizione con un’ipotetica filosofia del mare, come nella sua pur apprezzabile Prefazione sembra voler fare Armando Torno) sono Juan de la Cruz, Nietzsche, Milarepa, Schelling e, fra tutti, e c’è da capirlo, Reinhold Messner, l’uomo che della montagna ha fatto un’aspirazione e una condizione di vita.


Giuseppe Pulina

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