Barba e capelli

sabato 25 marzo 2006, di Sergej

"Esco dal salone attraverso la porta secondaria, così come una volta si faceva la sera in tempo di guerra e di oscuramenti antiaerei, o negli Stati Uniti con il proibizionismo. E’ il 21 gennaio 2006 e a me sembra sia calato addosso il medioevo prossimo venturo".

Barba e capelli

Nel 1966 una canzone ha cominciato ad aggirarsi in Italia. “Come potete giudicar” dei Nomadi. In essa facevano capolino i capelloni, la moda dei neo scapigliati, i “giovani” che si affacciavano nel mondo sociale e ideologico per la prima volta in Italia distinguendosi dagli adulti innanzitutto con la rivolta estetica. Io all’epoca - ero ancora in età prescolare - andavo dal barbiere: si usavano allora nei saloni e barberie dell’epoca, troni giganteschi su cui noi bambini si veniva presi e issati. Uno sgabello o una tavola posta sui braccioli ci permetteva di raggiungere l’altezza giusta affinché il barbiere potesse operare sulla nostra capigliatura. Per evitare che i peli ricadessero sopra i nostri vestiti, la tovaglia enorme, una specie di mantello di Zorro che ci avvolgeva completamente. A Roma, dove abitavo, il barbiere era quello di mio nonno, vicino San Giovanni. Non ho mai capito perché il posto dove si tagliavano i capelli si dovesse chiamare salone o barbiere. Più esatto sarebbe stato un termine come capilliforbicidio o pelitoglieria. All’epoca, i barbieri utilizzavano una serie di strumenti che poi sarebbero scomparsi: la cinghia di pelle, appesa al muro, con cui si faceva il filo agli strumenti chirurgici utilizzati - le forbici, ma soprattutto le lamette per la barba dei più grandi, disposte in strumenti a ripiegatura: quasi un serramanico o un compasso. I barbieri indossavano una divisa da barbiere, in questo si differenziavano enormemente da qualsiasi altro commerciante o semplice negoziante. Il loro era un mestiere più vicino al chirurgo che al venditore da banco. Le sedie stesse su cui si veniva collocati non sono mai state semplici sedie, ma vere e proprie opere dell’ingegneria e dell’idraulica: girevoli, con un poggiapiedi, e soprattutto il portento di poter alzare o abbassare a seconda delle necessità, con l’uso di una leva. Il fascino che poteva avere un bambino per un simile giocattolo era travolgente. I grandi facevano la guardia a questi troni delle meraviglie per cui era impossibile per noi avvicinarci. E quando poi venivamo issati sopra, la nostra attenzione era compromessa dallo sfregio che subivamo, le nostre chiome che cadevano ciocca su ciocca mischiate a lacrime e strilli. Sotto i ferri del chirurgo dovevamo stare fermi, cosa insopportabilmente strana e soffocante per noi bambini. La nostra reazione era di solito al ribellione, e a niente servivano i richiami dei grandi: “Non piangere... stà fermo un attimo! Se non stai fermo ti taglio un’orecchia...”. Più che mangiare composti a tavola, quello del barbiere era uno dei riti iniziatici che serviva a avvicinare sempre di più noi bambini al mestiere di grandi. Una cosa inaccettabile, di qui l’insofferenza e la rivolta. Alla fine, tolto il mantello - divenuto una specie di camicia di forza -, sniffavamo moccolo e le ultime lacrime contemplando sul pavimento le nostre adorate ciocche, irrimediabilmente separate da noi. Nessuno ci avrebbe mai più restituito quei nostri peli. I grandi, pensavo, sono proprio così: indifferenti alle pene dei bambini, capaci di simili efferatezze. Ladri di peli.

Mio nonno si faceva la barba a casa, davanti allo specchio del bagno. Il sapone in una ciotola tondeggiante, il pennellone che si passava sul viso pieno di schiuma bianca. E poi il taglio con un rasoio piccolino, a T, dotato di lame Gillette intercambiabili. Io bambino ero affascinato da questa operazione. Ero felicissimo le volte in cui potevo guardarlo - e lui quella volta non si chiudeva dentro -. Osservavo tutti i suoi singoli movimenti, vedevo il suo volto riflesso sullo specchio davanti al lavandino del bagno, il viso simile a quello di un Babbo Natale. E poi il movimento del pennellone all’interno della ciotola per generare la schiuma, e l’odore inconfondibile di mentolo che si spargeva per tutto il corridoio. Alla fine, l’immancabile spruzzata di profumo attraverso un contenitore di vetro dotato di pompetta. In “Mamma ho perso l’aereo” (1990, regia di Chris Columbus) il piccolo Macaulay Culkin rimasto solo a casa si mette il dopobarba di suo padre: la cinepresa inquadra l’ambiente interno della casa riempito dell’urlo del bambino dolorante per il contatto del liquido alcolico contro la pelle. Negli anni della mia infanzia però il ricordo va a una delle scene di Chaplin. Ne “Il monello” (1921) credo ci sia una scena di bambino e barba. Una scena immancabile è quella de “Il grande dittatore” (1940) con l’intensissima Paulette Goddard che si fa fare distrattamente la barba dal mite Chaplin.

Negli anni Settanta scoprii i barbieri siciliani. Vivevo ora in un paese della Sicilia orientale. Dal barbiere ci andavo ora da solo, non più accompagnato sotto scorta dei grandi. Il rito era simile, solo che non c’era più bisogno che qualcuno mi issasse sopra la poltrona girevole. Sentivo il contatto della pelle di cui era ricoperta la poltrona, sulle gambe - i pantaloni corti della mia condizione di ragazzino. I saloni siciliani di quegli anni erano stanzini al pian terreno, sporchi e con gli intonaci sbrecciati. In un angolo, su un tavolino, le riviste porno. Alle pareti i calendari raffiguranti alternativamente santi e ragazze scollate. In età puberale, la visita del barbiere era una scusa per dare di sghimbescio un’occhiata alla letteratura proibita degli adulti. Quando andavo dal barbiere, mi sentivo un po’ come quei cow boy dei film western italiani dell’epoca. Da un momento all’altro mi aspettavo che sbucasse qualcuno con un fucile e io, avrei dovuto rispondere al fuoco con la pistola nascosta sotto il lenzuolo. Nel 1977 uscì “Un borghese piccolo piccolo” regia di Mario Monicelli, con Alberto Sordi. In una delle scene, Romolo Valli esibisce una innevata di forfora.

Il taglio della barba. Dalle nostre parti, si passava dall’età adolescenziale e quella giovanile attraverso un avvenimento particolare. Sotto adolescenza spuntavano i peli nel pube e sotto le ascelle, il processo si espandeva - preannunciato da una esplosione di foruncoli - fino al viso e alle gambe, le braccia: tutto il corpo subiva questa invasione. Sul viso la peluria adolescenziale richiedeva alla fine l’intervento del taglio. La mia prima barba, tagliata a casa con una lametta e una abbondante dose di schiuma da barba. C’erano già le lamette usa e getta della bic? Non ricordo: probabilmente vennero poco dopo. Avere la barba e tagliarsela, una cosa che faceva sentire grandi, già uomini. Il passo successivo: il non taglio della barba. Segno identitario e di rivolta giovanile per una generazione che in questo modo cercava di farsi riconoscere. E così con l’abbigliamento: le magliette, i jeans, i giubbotti. La lettura dei primi giornali - Lotta Continua, naturalmente, e poi subito dopo Il Manifesto e L’Unità -. I nostri nonni ci guardavano attraverso i baffi, i nostri padri attraverso la pelle rasata, e noi guardavamo tutto e cercavamo di giudicare su tutto attraverso le nostre pelurie su guance e mento. D’altra parte, Garibaldi e Marx avevano la barba mentre Stalin e Hitler esibivano i baffetti. Kennedy della Baia dei Porci e Nixon si radevano. Però Jim Morrison si radeva, mentre Che nella jungla boliviana non poteva farlo. La prima volta che sono andato dal barbiere e gli ho detto, orgoglioso: “Barba e capelli!”. Il mio barbiere mi ha guardato perplesso, ma non mi ha detto nulla. Si limitò a tagliarmi come sempre i capelli e poi, venuta la volta della barba, prese il rasoio e i due colpetti mi tolse il ciuffettino di teneri peli che mi era cresciuto sul muso. Ma come, tutto qui? Uno viene a farsi finalmente la barba e tutto si svolge in pochi secondi? Me ne tornai a casa deluso. Ma almeno ora potevo dire in giro che ormai, io, mi facevo la barba. E questa, all’epoca, era una cosa che contava: per come almeno pensavamo noi maschietti di quello che ritenevano importante le ragazze. Che era poi una delle poche cose che contasse per noi. In età di penuria, si ripiegava sugli amici, la politica, lo studio, la musica...

Dal barbiere uno ci andava come luogo di ritrovo. Nel tempo di attesa, s’ascoltava parlare di politica e di quello che succedeva, i fatti privati e pubblici delle persone. Gli scherzi, le battute. Uno dei barbieri che ho avuto era orgoglioso delle sue idee politiche, cercava di fare evangelizzazione tra i suoi clienti - ragazzi e anziani. “Popolo bue!” inveiva. Sul suo tavolino non c’erano giornali porno, ma il quotidiano e le riviste, i settimanali di varietà e di informazione. Ammucchiati, sdruciti per l’uso. I più anziani venivano per ritrovarsi: si sedevano, parlavano un po’, poi se ne andavano senza dover fare nessuna barba o capelli ma solo per il poter trovare una compagnia. Ho visto progressivamente invecchiare il mio barbiere, che decennio dopo decennio ha tenuto aperto il suo salone. Mentre tutto attorno a lui la città cambiava, i modelli delle automobili cambiavano, lui imperterrito apriva sempre alle sette e se ne andava a casa alle nove. Inverno ed estate. Solo alcuni mesi una interruzione a causa di un infarto e la convalescenza dal figlio emigrato a Bologna, ma poi di nuovo al lavoro, per quella che era la sua vita. Lui quando era giovane aveva fatto parte della banda musicale del paese. A casa aveva ancora il sax appeso nel corridoio della scala. Con il mio barbiere, abbiamo visto le piccole mutazioni di questi anni. L’arrivo delle lamette usa e getta della bic. Prima a monolama e poi a doppia e tripla lama (la risposta della Gillette contro la Bic). La ventata data dal pericolo ecologico che ha spazzato via le bombolette spray contenente sostanze pericolose per il buco dell’ozono. L’imposizione della ricevuta fiscale: anche i barbieri dovevano esibire la tariffa, segnata su un apposito cartoncino bene in vista e soprattutto rilasciare ad ogni cliente un foglietto con la cifra pagata: un atto percepito da clienti e da barbieri come una vera e propria violenza, una perdita di tempo. Poi, l’arrivo della macchinette automatiche: per un attimo il timore che avrebbero soppiantato i barbieri, invece la gente ha continuato ad andare dai barbieri che si sono dotati delle macchinette e le hanno alternato alle forbici. Perché poi l’occhio esperto di un barbiere è sempre un’altra cosa e, soprattutto, vuoi mettere il rito di andare dal tuo barbiere di fiducia, parlare e sentire la gente che si ritrova nel salone, sentire l’odore inconfondibile misto di sudore e sapone di quei posti?

Un mio amico, F., si comprò alla fine degli anni Ottanta la macchinetta tagliacapelli. Un po’ per risparmiare. Ma, soprattutto, perché aveva una segreta passione. Gli piaceva davvero tagliare i capelli. Se ne vergognava. Per famiglia, o per socialità, pensava sarebbe sprofondato nell’imbarazzo a rendere pubblica questa sua passione. La sua è rimasta una passione segreta. Un peccato. Penso sarebbe stato un buon parrucchiere. Per fare questo mestiere, come per tutti i mestieri, occorre passione e amore. E lui ne aveva. Quella del barbiere è stata finora una professione povera, trasmessa in maniera privata, senza scuole né corsi di formazione. Solo ora, nel nord Italia, si stanno organizzando corsi di formazione. Finora la cosa ha funzionato così: veniva il capo famiglia dal mastro barbiere e gli affidava il figlio bambino - allora le famiglie erano numerose e strappare il destino della terra a un bambino poteva essere il sogno di un padre - a imparare il mestiere. Questo iniziava aiutando in salone, spazzando i pavimenti al termine del taglio o passando la spazzola sul corpo del cliente appena alzatosi dalla poltrona. Solo dopo un po’ il mastro cominciava ad affidargli i primi lavori: si iniziava con lo sciacquare i capelli ai clienti che si facevano lavare i capelli. E poi, la prima barba, il primo taglio facile... La selezione avveniva in questo modo, mentre il bambino diventava grande. Senza scuola, i giovani barbieri non avevano molte occasioni per acculturarsi. L’unica occasione vera di uscire fuori dal paese era il militare. A 18 anni, la leva ti insegnava a diventare un emigrato, spostandoti in una regione che non era la tua, a imparare orari di lavoro e la vita della fabbrica - pardon, della caserma. Chi aveva iniziato a lavorare da un mastro barbiere, aveva l’occasione di proseguire l’apprendistato, diventando barbiere nell’esercito e imparando nuovi tagli - il taglio unico a spazzola per i militari di truppa, e i tagli di moda presso sottufficiali e ufficiali. Poi, quando si tornava, si era barbieri provetti. Attraverso il lavoro, si poteva sperare a mettere su un proprio salone, o si acquisiva quello di un mastro che andava in pensione - quando la durata della vita era minore di quella attuale e si aveva un più rapido rinnovo dei posti di lavoro. Il barbiere svolgeva la sua funzione, che era anche una funzione sociale. A un barbiere si richiede l’arte della discrezione. Sotto il mantello, tutti i clienti per lui sono uguali, siano essi preti o miscredenti, onorevoli o braccianti, latitanti o sbirri, buoni o cattivi. Accompagnando i maschietti dalla pubertà fino alla tomba - l’ultima barba, l’ultimo taglio dei capelli, quelli fatti alla salma prima della tumulazione.

Negli anni Novanta venne la moda del pizzo e della barbetta, distinzione per uomini e tempi che già volgevano verso la destra politica. I ragazzini cominciarono a mostrarsi con tagli arditi, a cresta di gallo o con spuntoni tenuti compatti dal gel. Io, in un’altra città, ho dovuto trovarmi un nuovo tagliacapelli. Fin dall’inizio degli anni Ottanta ho preso l’abitudine di non usare pettine. Ma il taglio, una volta ogni due mesi quando la massa dei capelli diventa insopportabilmente pesante e i ciocchi mi calano sugli occhi, è rimasto un rito obbligatorio. Nel frattempo siamo passati dalle lire agli euri. E subito il raddoppio in pratico del prezzo del taglio dei capelli, dato che nei fatti mille lire è stato equiparato a un euro. Nei primi tempi ho frequentato un salone di quelli alla moda, sulla strada principale. Tagli moderni, una certa pretenziosità, musica diffusa. Sono presto scappato da G., che aveva il salone al confine tra due vecchi quartieri popolari di Catania, tra la Civita e San Berillo. G. è magro e piccolino, i suoi clienti sono popolani, qualcuno sbraita contro sbirri e polizia, votano tutti per la Destra tradizionale. Ha un salone scrostato, che la sera usa come garage per le sue moto. Un’atmosfera che mi riporta indietro di vent’anni e passa. G. mi ha confortato dichiarandosi entusiasta dei miei capelli. Io che dei miei capelli me ne sono sempre fregato, accorgendomi di loro solo per il fastidio che provavo quando cominciavano a gravare sulla mia visuale per l’eccesso di lunghezza. Ogni volta li accarezza: “Capelli splendidi, folti... morbidi...”. Il conforto per me che li vedo diventare grigi: vedo cadere le ciocche imbianchite e penso che proprio non ci si può fare niente, la vecchiaia la morte e altre malinconie del genere. Quando si superano i 40 anni andare dal barbiere è mettersi davanti allo specchio del proprio irrefrenabile degrado. Oggi, la sorpresa. Vado al salone e lo trovo sprangato. Sono lì che mi chiedo il motivo. Si affaccia G. dall’angolo della strada, mi fa cenno. Giro l’angolo. Mi fa entrare da una porticina secondaria. Mi spiega. Ha deciso di mettere il cartello Vendesi e di restituire la licenza. Lui continua a tagliare capelli ma in privato. Troppe tasse: “Al nord possono chiedere per un taglio di capelli 30 euro, ma qui non si può. E io che debbo fare? Gli affitti sono simili a quelli che ci sono a Milano, ma non gli stipendi. E allora ho deciso di chiudere ufficialmente”. Nel salone con le imposte annerite, senza più vista sulla strada, mi taglia i capelli e canta - come faceva prima, un vecchio refrain di Sanremo -. Entra suo figlio, un ragazzo alto e in maglietta nera, che prende dalla mensola una sigaretta e se ne va: lui sicuramente non continuerà il mestiere di suo padre. Ci lasciamo, esco dal salone attraverso la porta secondaria, così come una volta si faceva la sera in tempo di guerra e di oscuramenti antiaerei, o negli Stati Uniti con il proibizionismo. E’ il 21 gennaio 2006 e a me sembra sia calato addosso il medioevo prossimo venturo.


Sergej

Racconti

Parole chiave

Home page