I neoretrivi sono arrivati

domenica 8 maggio 2022, di Sergej


L’onda lunga del neoretrivismo è arrivata (da qualche anno a questa parte) e noi non possiamo farci niente. In pratica, siamo spacciati. Loro si chiamano (molto impropriamente) “neoliberisti”, ma è proprio nel momento stesso in cui accettiamo l’uso improprio che fanno di una tradizione cui in realtà non appartengono affatto se non per sentito dire, che la cultura borghese e la sinistra sono destinate a essere sconfitte sul campo. È in atto da sempre una battaglia culturale, in cui i diversi gruppi culturali e ideologici lottano per l’egemonia. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso una nuova ondata ha colpito prima i Paesi anglosassoni e poi gli altri Paesi. Anche qui da noi, a partire dal 1989 con la resa incondizionata degli sconfitti della "sinistra" comunista, ma soprattutto dopo la mattanza della Diaz, che ha (temo per sempre) decapitato una intera generazione della possibilità di una terza via globalista. Un altro mondo non è più possibile, e il futuro è definitivamente orwellizzato - almeno per i prossimi decenni.

In questi giorni viene pubblicato anche in Italia, portato gioiosamente in braccio dal gruppo ideologico de Linkiesta, un pamphlet che appartiene al neoretrivismo statunitense. Per noi è il segno della vittoria definitiva, culturale e ideologica, di questo movimento culturale anche in Italia. Il libro si intitola "La nuova intolleranza", a opera di di Helen Pluckrose, James Lindsay - prefazione prestigiosa di Guido Vitiello (Linkiesta Books)

Alcune considerazioni, a fronte di un estratto del pamphlet.

EstrattoConsiderazioni
Negli anni Sessanta è emerso un fondamentale cambiamento nel pensiero umano. Questo cambiamento viene associato ad alcuni Teorici francesi che, seppur non sempre familiari, fluttuano ai margini dell’immaginazione collettiva, tra i quali Michel Foucault, Jacques Derrida e Jean-François Lyotard. Una nuova concezione del mondo e del nostro rapporto con esso ha radicalmente rivoluzionato la filosofia sociale e forse tutto ciò che è sociale. E, nel corso dei decenni, ha modificato drasticamente non solo il che cosa e il come pensiamo, ma anche il come pensiamo al pensiero.
Questa rivoluzione – esoterica, accademica e apparentemente lontana dalla realtà dell’esistenza quotidiana – ha comunque avuto profonde implicazioni sul modo in cui interagiamo con il mondo e tra di noi. Al suo centro c’è una visione radicale del mondo, nota con il nome di postmodernismo. Il postmodernismo è difficile da definire. Rappresenta un insieme di idee e di modi di pensare che si sono accorpati come risposta a delle specifiche condizioni storiche, tra cui l’impatto culturale delle guerre mondiali e il modo in cui esse si sono concluse, la diffusa disillusione nei confronti del marxismo, il declino della credibilità delle varie visioni religiose nei contesti postindustriali e il rapido progresso della tecnologia.
Può essere utile intendere il postmodernismo come rifiuto sia del modernismo – un movimento intellettuale che ha predominato per tutto il tardo Diciannovesimo secolo e per la prima metà del Ventesimo – sia della modernità – quell’epoca nota come età moderna che, per come è intesa negli Stati Uniti, inizia dopo la fine del Medioevo e continua (forse) fino ai nostri giorni. Questo nuovo tipo di scetticismo radicale nei confronti della possibilità stessa di ottenere una conoscenza oggettiva è fuoriuscita dal mondo accademico, per sfidare il nostro pensiero sociale, culturale e politico con modi intenzionalmente sovversivi.
I pensatori postmoderni hanno reagito al modernismo (e alla modernità) negando le basi di alcuni aspetti del pensiero moderno, ma affermando che invece altri aspetti del modo di pensare moderno non si sono spinti abbastanza in là. Questi pensatori hanno respinto, in particolare, il fondamentale desiderio modernista di autenticità, di uniformità delle narrazioni, di universalismo e di progresso, risultati che sono stati raggiunti soprattutto attraverso la conoscenza scientifica e tecnologica. E, allo stesso tempo, hanno portato all’estremo lo scetticismo, relativamente moderato anche se pessimista, dei modernisti nei confronti della tradizione, della religione e delle certezze dell’Illuminismo, insieme con la loro spiccata tendenza verso l’autocoscienza, il nichilismo e le forme ironiche di critica. Il postmodernismo ha sollevato dubbi così radicali sulla struttura del pensiero e della società che può essere definito, in sostanza, una forma di cinismo. Il postmodernismo è anche una reazione e un rifiuto della modernità, intesa come «la profonda trasformazione culturale che ha visto l’ascesa della democrazia rappresentativa, l’età della scienza, la vittoria della ragione sulla superstizione e l’instaurazione della libertà individuale di vivere secondo i propri valori». Sebbene il postmodernismo respinga apertamente la possibilità dei fondamenti che hanno costruito la modernità, ha comunque avuto un profondo impatto sul pensiero, sulla cultura e sulla politica di quelle società che sono state costruite dalla modernità stessa.
Come sottolinea il teorico letterario Brian McHale, il postmodernismo è diventato «la tendenza culturale dominante (sarebbe più prudente dire una tendenza dominante) durante la seconda metà del XX secolo nelle società industriali avanzate dell’Occidente, diffondendosi poi in altre regioni del globo».
Dalle sue origini rivoluzionarie, il postmodernismo si è evoluto in nuove forme che hanno conservato i suoi principi e temi iniziali, guadagnando al contempo una crescente influenza sulla cultura, l’attivismo e gli studi accademici, soprattutto nelle scienze umane e sociali. Comprendere il postmodernismo è quindi una questione di una certa urgenza proprio perché esso rifiuta radicalmente le basi su cui sono costruite le civiltà sviluppate di oggi e ha di conseguenza il potenziale per minarle.
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C’è da dire che il postmodernismo è difficile non soltanto da definire, ma anche da riassumere. Era ed è un fenomeno multiforme, che comprende vaste aree intellettuali, artistiche e culturali. Per rendere le cose ancora più complicate, ci sono sempre state controversie riguardo a quali fossero i suoi confini, la sua natura, la sua forma, il suo scopo, i suoi valori e i suoi sostenitori. Tutto questo sembra essere perfettamente coerente con un modo di pensare che si fa vanto delle sue pluralità, delle sue contraddizioni e delle sue ambiguità ma non è molto utile quando si cerchi di comprendere che cosa esso sia e quali ne siano gli eredi filosofici e culturali.
Le difficoltà di definizione del postmodernismo non sono solo filosofiche, ma anche spaziali e temporali perché non è stato un movimento unitario. Le prime manifestazioni del fenomeno culturale chiamato postmodernismo sono artistiche e risalgono agli anni Quaranta, ma già dalla fine degli anni Sessanta si sono allargate ad altri campi delle scienze umane e sociali, tra cui la psicanalisi, la linguistica, la filosofia, la storia e la sociologia. Per di più, il postmodernismo ha assunto in questi ambiti forme diverse in momenti diversi.
Di conseguenza, nulla del pensiero postmoderno è del tutto nuovo e i suoi pensatori originali attingono costantemente ai loro precursori nei regni dell’arte surrealista, della filosofia antirealista e della politica rivoluzionaria. Il pensiero postmoderno ha seguito inoltre un’evoluzione diversa da Paese a Paese, producendo variazioni distinte su temi comuni. Gli interpreti italiani del postmodernismo tendevano a mettere in primo piano i suoi elementi estetici e lo consideravano una continuazione del modernismo, mentre i postmodernisti americani pendevano verso approcci più diretti e pragmatici. I postmodernisti francesi, invece, erano complessivamente più concentrati sul sociale e sugli approcci rivoluzionari e decostruttivi del moderno. Ed è proprio il postmodernismo francese quello che ci interessa di più, perché alcune delle sue idee, in particolare sulla conoscenza e il potere, si sono evolute nel corso delle successive varianti di quello che è il fulcro del postmodernismo e che è spesso chiamato semplicemente Teoria. In forme più accessibili, attuabili e concrete, queste idee sono state incorporate nell’attivismo e negli studi della Social Justice e nella coscienza sociale tradizionale, sebbene, cosa interessante, ciò sia avvenuto più nel mondo anglofono che in Francia.
Il meccanismo è semplice: viene individuata una etichetta, il più possibile indefinita e indefinibile, e le si dà realtà. E la si indica non solo come esistente, ma la si addita come responsabile di tutti i mali del presente (e del passato).
Per la cultura (retriva) statunitense il “male” sono i “francesi” in genere; in particolare: “gli accademici”. E qui si rivela quanto di retrivo e di servile è in queste espressioni culturali: i “sapientoni” vanno sempre demonizzati e, se è possibile, bruciati come stregoni o come streghe. L’anti-francescismo ha una lunga, sotterranea storia, all’interno del pensiero retrivo statunitense; in parte importato dall’Europa, ma fatto proprio nel momento stesso in cui la Francia contro l’Inghilterra dell’epoca agiva nelle lotte imperialiste sette e ottocentesche sul suolo americano. L’insofferenza verso il mondo francese, da parte degli Stati Uniti, passa anche attraverso la visione imperialista ereditata dalla Gran Bretagna. In reatà, quando i neoretrivi dicono o scrivono "Francia" non intendono solo Europa tout court, ma soprattutto le élite del proprio mondo che ritengono "contaminati" dal Nemico.
Ecco dunque, per i neoretrivi, il (facile) bersaglio, molto tradizionale (oziosamente tradizionale, direi).
I neoretrivi non hanno bisogno di analizzare i problemi o definire dei concetti (“il postmodernismo è difficile da definire”), a loro basta indicare il Nemico, e lanciare qualche sassolino: perché poi a lanciare i sassi ci penseranno i loro “bravi” aizzati allo scopo.
L’empietà del Nemico è sempre lo stesso: chi la pensa diversamente, chi osa dire che la terra è rotonda e non è piatta.
“Questo nuovo tipo di scetticismo radicale nei confronti della possibilità stessa di ottenere una conoscenza oggettiva è fuoriuscita dal mondo accademico, per sfidare il nostro pensiero sociale, culturale e politico con modi intenzionalmente sovversivi.”
Il pamphlet ha tutte le caratteristiche proprie della produzione dei neoretrivi, di chiamata alle armi (culturali) in attesa di poter sgomberare il campo dal Nemico (magari con un bel rogo).
La superficialità e l’indeterminazione concettuale è funzionale alla possibilità d’uso della polemica contro tutti i nemici che, di volta in volta, si parano loro davanti. Basta etichettarli come “postmodernisti” e il gioco è fatto. Parte il “buuuuh” della claque addestrata pavlovianamente a partire ogni qualvolta si profila all’orizzonte una cosa chiamata “dubbio” o “riflessione”. La semplificazione è funzionale al pubblico (semplificato) verso cui il pamphlet si rivolge.
Essi scrivono contro il mestiere e la funzione stessa degli intellettuali: contro “la loro spiccata tendenza verso l’autocoscienza, il nichilismo e le forme ironiche di critica. Il postmodernismo ha sollevato dubbi così radicali sulla struttura del pensiero e della società che può essere definito, in sostanza, una forma di cinismo.”
In questo modo i neoretrivi operano una scissione all’interno del modernismo. Operano in un’epoca oltre e diversa. Sono in realtà essi stessi post-modernismo.
Un’era che vede la sconfitta della borghesia, e la creazione di una nuova classe sociale post-capitalistica che non mette più al centro della propria attività e della propria attenzione l’industria, e la produzione manifatturiera. Una oligarchia in parte transnazionale, che oggi si trova a ridurre la propria sfera d’azione al risicato mondo occidentale avendo perso l’egemonia globale.

Sergej

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