Si può dire pompino in televisione (o a teatro)?

mercoledì 29 gennaio 2020, di Sergej

Si può dire pompino in Girodivite? Parliamo di: La fantastica signora Maisel, e di Fleabag. Entrambi su Amazon Prime.

Qualcuno ha detto che il peggior tradimento che si può commettere è quello di non fare quello per cui ti brillano gli occhi. Nel nostro percorso di vita si tratta di scoprire qual è quello che vogliamo davvero fare, spesso non lo sappiamo o equivochiamo; a volte quel che brilla nei nostri occhi dura lo spazio di una sera e non risplende più, oppure occorre passare ad altro perché torniamo a brillare ma in altro modo. Insomma, l’arte della vita, l’arte dell’incontro, è complicata e non è mai lineare.

A questo penso dopo aver visto due splendide serie televisive: La fantastica signora Maisel, e Fleabag.

La protagonista de La signora Maisel ha all’incirca la stessa età di mia madre in quegli anni Sessanta. Un tipo di bellezza simile - luminosa, moderna nel vestire e nel muoversi -, così simile a mio padre è nell’aspetto - scuro e ricciuto, problematico - il marito/divorziato. Alta borghesia nordamericana ed ebraica, rispetto alla mia famiglia, una piccolo-media borghesia di origini siciliane e trapiantati a Roma; mondo di insegnanti - le donne rigidamente casalinghe. Fin qui le somiglianze, da ora in poi le diversità culturali. La signora Maisel fa il salto, modernista e in linea con l’emancipazione delle donne (ma senza ideologia libresca) di quegli anni. L’amica preferita della signora Maisel, così come mia madre aveva (zia) Franca; persino il bambino, grassottello e viziato, che corrisponde a ciò che ero allora io. Il signor Maisel prova in diverso modo la sua strada, afflitto da una inquietudine che è quella di essere “figlio”: prima come impiegato senza scopo, poi cercandosi di darsi uno scopo, poi l’azienda del padre, e poi il locale… Lo spettatore è attratto dalle vicende dell’alta borghesia, la girandola di bei vestiti, il predominio dei colori pastello che rimanda a una realtà fatata: quella degli anni Sessanta, quando ancora non era successo nulla di “brutto”: ancora l’America era innocente, non c’era il Vietnam, non c’era la Baia dei Porci e non si sente la paura dell’era atomica: tutte queste cose sono messe fuori dalla porta. Ci sono le differenze sociali e razziali, ci sono le classi: il tutto visto con umorismo e con una battuta (la “militante comunista” che comanda a bacchetta la cameriera svedese). Anche della Francia (come dei quartieri bassi, della delinquenza ecc_) c’è una ricostruzione favolistica, da battuta - non una notazione realistica. Così Susie la manager viene rapita da due bravi che alla fine diventano suoi amici, proprio come in una storiella raccontata per allietare l’elenco delle storielle divertenti e caratteristiche di un posto o di un ambiente.

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Le scenette si succedono alle scenette, in rapida successione. Scenette comiche, brani musicali, momenti più pensati e pensierosi, piccoli drammi famigliari… Una vera e propria immersione nel pastellato mondo degli anni Sessanta. Tra aspirazioni ultra borghesi e realtà di un Paese in fermento - razziale, sessuale, sociale -. Il tutto con un tocco leggero, profumato di chanel.

Ogni elemento di dramma viene risolto dalla battuta e dalla leggerezza del vivere. È la leggerezza, e il pregio, di questa commedia televisiva. La leggerezza che non annulla il dolore, ma che permette di andare avanti, verso magari un nuovo dolore ma comunque su una strada che evita l’auto-compiacimento e l’auto-vittimismo. Una leggerezza che era possibile, sembra dire il serial tv, in quegli anni e, perché no, sarebbe simpatico riuscire a recuperare anche per il nostro grigio e monocolore oggi.

Fleabag, protagonista la stronza Phoebe Waller-Bridges, utilizza l’ammiccamento verso il pubblico, l’attrice che si estranea dalla storia, sottolinea il carattere di finzione di quello che avviene, opera lo straniamento. Scena cult: lei che si masturba guardando un discorso del presidente Obama sul portatile; il ragazzo provvisorio la sorprende e la pianta (per l’ennesima volta). Il serial cerca di essere brioso e disinibito, e prova a rompere i cliché riguardanti gli inglesi. C’è qualcosa di Cabaret in questa miniserie.

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Se per Mrs Maisel è possibile rompere i cliché trasportando tutto nel mondo pastellato degli anni Sessanta, in Fleabag la caricatura della trasgressione può avvenire perché siamo in Inghilterra e, si sa, “niente paura, sono stranezze inglesi” sempre voler dire in continuazione la rassicurante finto-sboccata protagonista. Le due protagoniste d’altra parte sembrano sorelle (brune, colorito biancastro, mimica facciale) ma una cresciuta all’ombra di Lenny Bruce - lo sceneggiato Mrs Maisel è anche un omaggio a quel mondo che ondeggiava tra servilismo e controcultura, tra Nixon e Kennedy, tra Kerouac e Miller -, l’altra dei Monthy Python. Per ricordarci che la libertà di parola passa anche attraverso la libertà interiore, e la libertà non è possibile senza libertà anche sessuale e contro il finto (o vero) moralismo.

Due bellissimi sceneggiati televisivi, che insegnano a non diventare ciò che abbiamo sempre odiato negli altri, e che consigliamo vivamente di iniettare nelle proprie vene di telespettatori e videostreamer.


«La società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie. […] È nostro dovere badare prima a noi stessi» (Margaret Thatcher)

Si ha responsabilità su quello che si dice, sulla propria voce o sulla propria scrittura? Cazzo, sembrerebbe proprio cazzo di un fottutissimo sì. In uno degli episodi della Favolosa Signora Maisel (terza stagione, dal 9 febbraio anche con audio italiano), il padre Abe glielo fa osservare alla spesso superficiale figlia Midge, e Midge che deve leggere un cazzo di un comunicato a una cazzo di radio per un cazzo di politico (femmina) reazionaria e stronza, beh cazzo Midge si rifiuta - con esilarante conseguenze nella cabina degli speaker. Ma cazzo, quella politica era proprio una stronza e cazzo certo che esiste un cazzo di responsabilità perché cazzo noi tutti - quelli che cazzo parlano, quelli che cazzo scrivono sul web, sul cazzo di Facebook, sul cazzo di Instagram e su o giù per il culo su tutti i cazzo di social fottuti network che cazzo esistono in questo cazzo di mondo, beh cazzo noi tutti che scriviamo anche sui blog o su quel cazzo di giornali e facciamo gli stronzi in televisione beh cazzo abbiamo una grande cazzo di responsabilità perché cazzo siamo come i granelli di sabbia un cazzo di granello di sabbia che cazzo, un bastardo granello di sabbia non vale un cazzo, cosa volete che sia un granello di sabbia? ma la minchia se un granello di sabbia è niente, cazzo, un bastardo granello di sabbia può essere un fottutissimo granello di sabbia che assieme a un altro fottutissimo granello di sabbia diventa due fottutissimi granelli di sabbia e così via e in poco cazzo di tempo, il cazzo di battito d’ali di una cazzo di minchia volante di farfalla, tutto diventa un gran casino, un deserto pieno di cazzo di sabbia che ti esce persino dalle orecchie. Cazzo. E ognuno di noi sa quanto cazzo sia fastidiosa la sabbia nelle orecchie. Le orecchie piene di cazzi. Per questo tutti noi, a casa come al lavoro abbiamo questa cazzo di responsabilità questa cazzo di attenzione che dovremmo mettere quando parliamo quando cazzo diciamo una cazzo di cosa o facciamo una cosa. Nella realtà, in questa fottutissima realtà che ci capita di vivere cazzo, sembra invece che tutto avvenga senza che a nessuno importi un cazzo di cosa. Cazzo l’unica cosa che sappiamo fare è riempire l’aria delle cose che cazzo diciamo, che non significano un cazzo di niente, dietro cui ci nascondiamo nel nostro fottutissimo niente la paura il terrore che abbiamo che l’altro ci ferisca che cazzo l’altro prenda una spranga e sbeng ce la tiri sui denti. E allora fanculo usiamo la parolaccia, cazzo, per difenderci, per sfuggire alla banalità della parola, per cercare di sfuggire a noi stessi e cercare di arrivare cazzo all’altro, destare l’attenzione l’attenzione di quel fottutissimo altro che sei tu, e tu, e tu. Ma avete sentito quando le ragazze dicono: Mi sono rotta i coglioni. E giù a ridere (le prime volte). Cazzo dici, e soprattutto, cazzo ridi? Ci sono quelle che sottolineano: Mi sono rotta i coglioni che non ho. Che non ho. Ma come cazzo parli? cazzo ti ha insegnato a parlare? Uno spurgo del cesso? Ma sciacquati la bocca prima di cazzo parlare! Che poi tutta questa cazzo di generazione che straparla e che dice cazzo qui cazzo là, viene tutta da genitori che cazzo quando li senti parlare non dicono cazzo neppure sotto tortura e allora cazzo per questi pompinari di figli cazzo ha valore “liberatorio” (ho appena fatto le stanghette con le dita della mano destra e della mano sinistra per imitare la presenza delle stanghette attorno alla parola liberatorio nel testo scritto) e si sentono tutti adulti e vaccinati solo perché parlano cazzo sboccato come se parlare con linguaggio pieno di cazzi e di fighe possa farli sentire più adulti oppure più sinceri di chi invece cazzo mette “cazzo” dappertutto. Chi non ha un cazzo da dire mette il cazzo dappertutto. I cazzi servono solo per allungare le frasi per avere la sensazione di parlare di più che si hanno un cazzo di cose da dire e invece non si dice un cazzo si gira a vuoto attorno al cazzo. Senza dire cazzo la gente se ne starebbe zitta. Il silenzio sarebbe insopportabile. Per questo abbiamo questa superfetazione di cazzi, la cazzificazione delle parole nella vita quotidiana, per questo viviamo in questa specie di parossismo del cazzo, una vera e proprio cazzo di malattia della parola. Siamo malati del cazzo. Le uniche che si salvano in tutto questo cazzo sono le straniere. Non sentite dentro di voi qualcosa che si smuove quando una stronza puttana pompinara con accento straniero vi dice: Cazzo? Non sentite il cazzo che tremola e la voglia di leccargliela tanto che i figli che facciamo escono con i capelli già pettinati? E invece quando sentite dire cazzo da una fottutissima normalissima persona non sentite gli emboli partirvi a razzo a sputtanarvi per sempre quel vuoto che avete al posto del cervello? Ecco in questo cazzo di mondo ci sono da una parte quelli che non direbbero cazzo neppure sotto cazzo di tortura e quelli che invece smerciano cazzi come se fossero caramelle, se le scambiano - io ti dò due cazzi, tu quanti cazzoni mi dài in cambio? -. Ci sono i cazzi semplici, i cazzetti, i cazzoni, i cazzettini, i cazzi mosci, i cazzi che più cazzi non si può. Insomma, la società post-cazzo-moderna è una società che produce cazzi, altro che automobili o telefonini o sedie. Hai le supercazzole di Amici miei pompinari immaginari e i cazzo-cazzo pilu-pilu di quello strafottutissimo di Albanese che ha molto studiato la comicità (sboccata) dei nuovi comici americani (Berlusconi). Hai cazzi dappertutto (e ovviamente anche tu-sai-dove), si annega nei cazzi, si gira con un cazzo al posto della testa e un preservativo per cappello, si fa una ingordigia di cazzi, dovrebbero mettere una tassa sui cazzi. Questo è un ottimo cazzo di suggerimento. Dici cazzo? Paghi nella nuova moneta: l’eurocazzo. Salvini diventerebbe ricchissimo, non avrebbe avuto bisogno di rubare i 49 milioni di cazzo di euro che ancora ci deve. E la sinistra, voglio dire quelle fottutissime amebe centriste e cazzi mosci che sono il PD? Tristissimi, loro e le sardine che si svegliano in branco solo per le elezioni in quel cazzo di Emilia Romagna: diventerebbero pompinari poveri, perché loro non dicono cazzo manco se li torturi. In televisione. Perché se poi li senti parlare tra di loro sono tutto un rompi coglioni di qua, rompi i coglioni di là. Perché nel mondo reale, tutto il mondo è pieno di cazzi detti, di gente incazzata, e di gente che se la piglia nel culo. Il cazzo è una metafora di quello che c’è. E cazzo, come sarebbe bello che ci fosse. Alla fine di tutto. Un grande enorme cazzo che ci attende. Che ci accoglie, in cui finiamo di inveire, di parlare, di agitarci, noi - cazzo di fottutissimi minchiatari - dentro un cazzo di Grande Madre a forma di fottutissimo primigenio vaginale sticchio. E così sia.



Sergej

Cinema - Visioni

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