Cultura politica

mercoledì 15 gennaio 2020, di Piero Buscemi

La cultura è sicuramente un investimento. La politica riesce anche a farne campagna elettorale

Non è vero che le nuove generazioni non siano avvezze alla cultura, quanto meno nella totalità di un giudizio. Guardandosi intorno, ma soprattutto cercando gli eventi organizzati nelle nostre città, dialogando e ascoltando quanto sta fuori dal nostro orgoglio, ci accorgeremmo di quanti giovani si dedichino alle varie forme di arte e intrattenimento e quanti di loro meriterebbero maggiore attenzione dai consolidati intellettuali per antonomasia.

Il problema non è focalizzarsi sul disamore e l’apatia che, sicuramente, molti contemporanei dimostrano nei confronti di qualsiasi stimolo che stia troppo distante da uno schermo di telefonino, ma piuttosto sostenere ed incoraggiare le giovani menti pensanti che hanno qualcosa da dire e da mostrare, senza necessariamente assillarli con il peso della scarsa esperienza o della ipotetica banalità delle loro proposte.

Se abbandonassimo, intendiamo gli appartenenti alla generazione degli "anta", un po’ di prosopopea e di semplicistica arroganza, ci rammenteremmo un’analoga esperienza di crescita che anche noi abbiamo vissuto. I tempi in cui era troppo presto per parlare perché altri più adulti avevano la saggezza per farlo, frutto di chissà quale bagaglio di rodaggio originata. Col passare degli anni, il "troppo presto" si è spesso trasformato in "troppo tardi" e aggiungeremmo anche "inutile".

Le situazioni si ripetono per quanto un’ingenua presunzione ci faccia pensare di vivere momenti esclusivi che, con maggiore umiltà, ci farebbe prendere coscienza che nelle relazioni umane difficilmente c’è ancora molto da scoprire. Con queste premesse, vogliamo analizzare l’approccio di un giovane verso la cultura, bistrattata e spesso strumentalizzata, nel tentativo di esternare un modo diverso di essere "giovane" rispetto agli stereotipi sul mondo giovanile, alibi di una rassegnazione che nasconde un’inerzia ingiustificata.

Nello specifico, l’elemento che sembra non si possa mai prescindere ideando, realizzando o soltanto proponendo un evento culturale, è quell’infiltrazione politica senza la quale ogni cosa si arena e trasforma la creatività in un sogno interrotto. Se ad esempio una giovane intellettuale decidesse di riunire delle coetanee e dei coetanei, appassionati di libri e avviare un gruppo di lettura da far incontrare a cadenza settimanale o mensile, si ritroverebbe a chiedere l’utilizzo di un luogo di incontro, quale un circolo, una biblioteca e, comunque, una struttura dove condurre l’attività culturale prescelta.

Non disponendo - situazione non così remota - di mezzi economici tali da rendere gestibili in autonomia le iniziative e gli eventi atte allo sviluppo dell’idea di partenza, questa nostra ipotetica intellettuale sarebbe costretta a chiedere l’uso di strutture comunali. Una situazione apparentemente normale e rientrante nei più semplici diritti di qualsiasi cittadino alla disponibilità di beni comuni per i quali, la demagogica frase "realizzati con i soldi pubblici" è più che uno slogan di protesta da recitare nelle discussioni di piazza.

In una situazione di normalità, lo ribadiamo, un’amministrazione comunale avrebbe tutto l’interesse affinché un gruppo di aggregazione culturale si attivasse a nobilitare l’intera città con le proprie attività, oltre che a gratificare la nostra ipotetica giovane intellettuale. Ma la politica è un gioco sporco e, come qualcuno ebbe anche a dire, per non sporcarsi basta non giocare.

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Un momento di cultura

Ed ecco che la perversione dell’uomo trova la forza e la meschinità di traviare quella che alcuni dizionari definiscono "arte del governo" in un tornaconto personale, dove l’unico scopo diventa quello di trovare gli espedienti per quell’illusoria detenzione di un potere a tempo indeterminato. Ed ecco che la sindrome dell’apprensione per i cani sciolti o, per meglio dire, la ritrosia verso chi ad inutili giochi di potere, preferisce contrapporre la nobiltà della parola scritta, la sublimità di uno scambio di idee e di un confronto, con il quale ritrovarsi attorno ad un tavolo a parlare di libri e storie, diventa appagamento.

Il politico di mestiere non riesce a liberarsi di questo suo autocompiacimento. Finisce così per mostrarsi anche disponibile ad appoggiare le idee e le proposte culturali della nostra giovane intellettuale, ma niente si fa per niente. E’ curioso come scrivere di queste considerazioni si finisce per utilizzare frasi fatte e scontate, ma la politica spesso ha mostrato questo volto ripetitivo e scontato, da non lasciarci altra forma espressiva per descriverlo.

Ad una semplice richiesta di collaborazione e sostegno, di un luogo di condivisione, non obbligatoriamente di aiuto economico, il mondo politico fallisce miseramente finendo per chiedere in cambio un’appartenenza, una tessera di partito, un coinvolgimento della cultura alla perversione che fare politica, implica quasi necessariamente una sorta di compromesso. Una corsa al potere, dentro la quale, la nostra giovane intellettuale potrebbe non avere voglia di partecipare. Un privilegio, nato dalla purezza di un pensiero di condivisione, forse anche ingenuo, non viene raccolto come uno stimolo a creare in ogni caso una società migliore. Un concetto troppo semplice per essere compreso da un politico.

L’aberrazione della situazione appena descritta si raggiunge quando, analizzando le giunte comunali, non può mancare mai l’assessore alla cultura che, nella tipologia di incarico stessa che ha ricevuto dovrebbe contenere la sua predisposizione a pensare, ideare e suggerire gli eventi culturali, senza obbligatoriamente attendere che tutto questo gli venga dall’esterno. Per fare un discorso terra-terra, forse più comprensibile al mondo politico, lo stipendio all’assessore dovrebbe essere riconosciuto solo a condizione di un’operosità comprovata sulla materia da gestire.

L’elemento disarmante che nei nostri giorni dobbiamo fronteggiare, è questa atavica, sorpassata ed inconcludente filosofia di vita delle nuove classi politiche, rampanti ma con la presunzione di rappresentare una nuova e moderna alternativa, assuefatte ad una passiva e nociva eredità culturale, si dimostra vecchia e deleteria da supportare. Se non da sopportare.


Piero Buscemi

:.: Città invisibili

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