mercoledì 1 giugno 2005, di Serena Maiorana
La morte. Il sogno. Il lutto. Lutto stretto prevedibile e previsto. Lutto per un figlio morto. Per un figlio bambino. Figlio di madre siciliana. Vita di madre, vita sua.
Emma Dante con “Vita mia”, il suo ultimo lavoro, ha provato a mettere in scena la tragedia di una madre (Ersilia Lombardo, stupefacente e bravissima) che subisce la sua perdita peggiore. E che quasi non è più madre.
È una strana veglia “Vita mia”. Una veglia sospesa in uno spazio sgranato, onirico, doloroso ed incosciente. lo spazio dell’attesa e dell’abbandono.
In quello spazio tutto attende. Attende il letto al centro, già “cunzato” a lutto, chissà per chi. Attende la madre mentre ti guarda con occhi sgranati, tutta di nero anche lei. E attendono i figli, tre in tutto: Gaspare, Uccio e Chicco. Anche loro ti guardano, mentre tu stai seduto intorno a loro, e mentre anche tu aspetti.
Loro però forse già sanno anche se non vorrebbero sapere. Sono pigri, sembrano stanchi, sono in pigiama ed è tardi. Solo Chicco, il più piccolo, è energico e non si ferma mai. Solo lui pare non sapere e non aspettare. Forse perché tutto sta aspettando lui.
Ed ecco che la veglia precipita nel dramma peggiore, e che la morte si fa carne giovane su quel letto, e che il pianto della madre si fa forte, anzi fortissimo. Disperato.
Una disperazione che piange in dialetto palermitano e che alla fine esplode trasformando il luogo dell’attesa nel luogo del sogno. E la morte sul palco balla il sirtaki. Balla la danza nera dell’ultimo addio. Balla la danza rossa dell’ultima festa.
E solo alla fine si scopre che quel letto e fatto per raccoglierli tutti. Per raccogliere l’ultimo abbraccio, mentre il palco si spegne.