Partenza e Spartenza (5)

domenica 27 dicembre 2009, di enza


All’improvviso il treno comincia a rallentare, quasi avesse ricevuto un tacito ordine; la sua andatura si fa più morbida e rilassata, si ha la possibilità di ammirare il paesaggio intorno, un paesaggio invernale molto diverso da quello siciliano; colori che vanno dal verde scuro dei prati, al marrone intenso dei terreni, più ricchi e più fertili di quelli siciliani. Tutto è sovrastato da un cielo terso, dai colori più freddi rispetto ai cieli del sud. Arbusti, alberi, cespugli spogli e tristi nel grigiore invernale, foglie rosse, gialle e marroni, cadute sui prati o lungo i fossi.

Ogni tanto un gruppo di pecore, intente a pascolare, ci rende più familiare questo panorama bucolico, quasi fermo e sospeso nel tempo. Tutto cambia. Il paesaggio siciliano coi suoi colori aspri e forti è oramai lontano. Ma il mare azzurro cobalto, il verde dei giardini di aranci e limoni che improvvisi allietano l’inverno, le coste brulle e frastagliate, i muri a secco, quasi sorretti dai filari di fichidindia, sono ancora lì nella mia mente e fanno parte di tutta me stessa. Tutti questi colori che hanno accompagnato fin qui la mia esistenza non voglio chiamarli ancora ricordi, per non allontanarmi definitivamente da essi.

La gente, come presa da una certa impazienza, comincia a muoversi e a preparare la propria roba; tanti si avviano verso il corridoio. La campagna man mano comincia a sparire e si cominciano a vedere case, palazzi, fili della luce che si fanno sempre più fitti e rotaie che s’intersecano in un gioco veloce e senza fine. Mi rendo conto che ci stiamo avvicinando alla città; stiamo per arrivare a Roma e mio padre di lì a poco me ne da la conferma. Ci cominciamo a preparare anche noi, ma rimaniamo composti nella nostra cabina, aspettando che il treno si fermi del tutto e che la gente, ammassata lungo il corridoio per raggiungere l’uscita, defluisca.

Sono un po’ confusa, ma nello stesso tempo curiosa di vedere questa grande città, finora conosciuta solo attraverso i libri di storia e di geografia. Si sente tutto un trambusto intorno: gente che scende frettolosa, gente che agita la mano, facchini che caricano e scaricano valigie. Ci è venuto incontro Gino, il nipote di mio padre che da anni fa il carabiniere a Roma; ci saluta sorridente ed affettuoso, col suo sorriso largo e gli occhi grandi color nocciola che s’illuminano ogni volta che sorride. E’ in divisa e sembra proprio un bel ragazzo; alto, autorevole e imponente. Con Gino accanto non ci può succedere niente e alla sua vista mi sento rasserenata.

Vedendo che mio padre è tranquillo e anche mia madre sfoggia una certa sicurezza, cerco di imitare gli adulti. A zio Vincenzo e consorte è venuto incontro un amico siciliano conosciuto in Africa; vive ormai da anni a Roma, lavora in uno dei tanti Ministeri. Questo signore, dall’aria molto precisa e scrupolosa, ci dà mille informazioni su tutto: sul tempo, sulla città, sull’albergo, dove di lì a poco arriviamo. L’albergo, pulito e confortevole, si trova in via Torino, nei pressi di piazza dell’Esedra.

Dopo tante ore di viaggio, non ci pare vero di poterci lavare, cambiarci e andare a fare colazione al vicino bar. Si sente un buon odore di caffè che inonda l’aria invernale e penetra nelle nostre narici. Mi guardo in giro incuriosita e stupita: tutto mi sembra enorme e stupendo. La spartenza si è sopita dentro di me, di fronte a tutte queste novità, a questa grande città che brulica di traffico, di gente indaffarata che corre e ci guarda distrattamente, mentre passa oltre frettolosa. Mio padre conosce bene Roma per esserci stato diverse volte, perciò, nella tarda mattinata ci guida in giro per il centro.

Mentre ci avviamo verso Villa Borghese, rimango abbagliata da una donna bionda, piuttosto appariscente, vestita di azzurro, un azzurro tendente al turchese direi, che posa per un fotografo nel bel mezzo di via Bissolati. Mi sembra un’apparizione, una figura quasi finta, una bambola animata, questa donna alta, sofisticata e truccata che si fa riprendere in varie pose. Cammino, ma continuo a voltarmi per guardarla, perché sono quasi sicura che è un’attrice, una di quelle dive che finora ho visto solo al cinema. Mio padre, che mi tiene per mano, mi dà quasi uno strattone e mi trascina via, perché io sono ancora intenta a guardare la diva dei miei sogni.

Arriviamo a Villa Borghese, incuriositi e un po’ frastornati, attenti a stare uniti per timore di perderci nella grande città; mio padre e Gino ci illustrano i luoghi a loro noti: il laghetto, la casina dell’orologio, il Pincio. Non ho mai visto un parco così rigoglioso in vita mia, con i magnifici viali alberati di magnolie e di tigli: ovunque statue e fontane. La gente passeggia allegra e felice in questa giornata invernale, allietata da un tiepido sole; le coppiette, mano nella mano, si guardano felici negli occhi e non chiedono nulla di più alla vita, se non di amarsi e vivere questo momento per l’eternità, perché tutto sembra dominato da una magica serenità universale.

C’è una pace e una bellezza intorno che lasciano ben sperare nella vita e nel futuro. Ma noi rimaniamo spettatori non partecipi, timidi viaggiatori del sud, nei nostri vestiti nuovi e un po’ fuori luogo, di fronte a questo perfetto quadro cittadino di gente a proprio agio in questa città e nella vita di tutti i giorni. Sì, siamo proprio noi fuori luogo in questa città. Estranei, diversi e di passaggio. Ma sono ancora una bambina, le mie sono solo sensazioni; una vaga, impercettibile tristezza in fondo al cuore.

Guardo tutto con aria incantata e rimango attratta dalle bellissime aiuole ricoperte di fiori; non ho mai visto i giacinti in vita mia, fiori profumati, dai colori viola, rosa, bianchi. Vorrei raccoglierne qualcuno, ma non oso neanche chiederlo, perché so che è proibito. Cerco d’imprimere nella mia mente i giacinti di Villa Borghese ed il loro inebriante profumo. Chissà se li potrò mai vedere in Africa. Trascorriamo la giornata, girando per Roma e quando verso l’imbrunire torniamo in albergo, siamo piuttosto stanchi.

Non ricordo più dove abbiamo cenato l’ultima sera della nostra permanenza a Roma, probabilmente nei dintorni dell’albergo, perché tutto è trascorso velocemente, così velocemente da cancellarne persino il ricordo. Ricordo una cena frugale e subito dopo la nostra stanza d’albergo, dove ci apprestiamo ad andare a letto, perché l’indomani mattina bisogna stare presto all’aeroporto di Ciampino, per prendere l’aereo. L’amico pignolo e preciso di mio zio nel frattempo è sparito; credo che sia tornato a casa sua, nei pressi di San Giovanni, dove vive insieme alla moglie, una veneta piuttosto ciarliera e petulante.

Gino, mi sembra un po’ più triste, ma riesce a camuffare il suo stato d’animo, elargendo sorrisi. Affettuoso e premuroso come sempre ci abbraccia, promettendo di accompagnarci all’aeroporto l’indomani. All’alba siamo già in piedi, mentre mia madre è intenta a chiudere borse e valigie. Senza rendercene conto, ci ritroviamo all’aeroporto di Ciampino; passeggeri in fila intenti a mostrare biglietti e passaporti, doganieri, polizia, gente che si avvia al cancello d’imbarco. E’ arrivata l’ora di salutarci. Abbraccio Gino e poi mi stringo a mio padre che è molto serio e cerca di non far trapelare i suoi sentimenti, mentre ci abbraccia e ci saluta, promettendo di venirci a raggiungere presto.

All’improvviso, non so come, siamo sull’aereo, un quadrimotore dell’Alitalia. I motori cominciano a rombare e dal finestrino vedo mio padre e Gino, nella sua divisa di carabiniere, che ci salutano con la mano; queste due figure diventano sempre più piccole, minuscole, man mano che l’aereo si allontana dall’aereoporto e decolla, sorvolando il mare. Siamo sospesi nell’aria, voliamo. Sia mio padre che Gino non sono che un puntino lasciato alle nostre spalle. Lasciamo l’Italia, la nostra terra madre e per tanti di noi matrigna, volando in alto nel cielo alla volta della nostra prima tappa: Karthoum.


enza

Vento mare pioggia

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