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Seabiscuit - Elegia del vincitore annunciato

Regia: Gary Ross

Ci sono almeno due livelli di lettura in un film come “Seabiscuit”.
Il primo, più elementare e apparentemente epidermico, riguarda la vicenda di formazione su cui si costruisce il testo, il canonico bildungroman a due (il cavallo del titolo, bizzoso, ribelle e apparentemente inadeguato all’attività agonistica ad alto livello; e il giovane fantino che lo conduce, gara dopo gara, al trionfo e all’immortalità) ammantato di un edonismo tipicamente Made in USA, che si muove lungo le coordinate di una canonica vicenda di self-made men riuniti per un progetto comune; non a caso, il ruolo del proprietario del cavallo viene opportunamente affidato a Jeff Bridges, il quale cesella da par suo una versione appena più bolsa e attempata del Tucker da lui interpretato da Francis Ford Coppola.
Il secondo, forse più interessante e profondo, riguarda la ritrattistica dimessa e al tempo stesso vigorosa dell’America post-Depressione, fra rimandi diretti ad alcune pagine di Steinbeck punteggiati da freeze-frames fotografici dal chiaro significato di rievocazione nostalgica. È in questi momenti che il film di Gary Ross (reduce dall’incursione nel fantastico-metalinguistico di “Pleasantville”) acquista una propria verità, una sua esatta coscienza, un’intima ragione di essere. Perché, al di là dei toni vagamente elegiaci di una sceneggiatura costruita per magnificare le gesta (con, a quanto pare, numerose “licenze poetiche” rispetto alla realtà storica) dell’animale protagonista, “Seabiscuit” regala alcuni squarci di puro cinema classico davvero notevoli, nonché una ricostruzione degli ambienti e soprattutto dell’atmosfera dell’epoca, i quali, pur cedendo spesso e volentieri alla nostalgia fine a se stessa, possiedono un’impagabile sincerità d’intenti.
Gary Ross, che possiede una particolare sensibilità nei confronti del racconto a più voci (e in ciò gioca un ruolo determinante il suo passato da sceneggiatore), si affida a ben tre characters principali, il proprietario del cavallo, il suo allenatore (Chris Cooper) e il fantino (Tobey Maguire, anche produttore esecutivo della pellicola), e ad una figura archetipica e a suo modo mitica, quella del cavallo predestinato al trionfo e alla gloria, a dispetto di una morfologia apparentemente mortificante per un atleta; Seabiscuit diviene così il simbolo di un paese in cerca di un riscatto, capace di risollevarsi a più riprese dalla polvere in cui viene ripetutamente scaraventato, indomito e orgoglioso.
Ciò che apparentemente manca al film è una reale adesione empatica a ciò che racconta. Al di là della mera illustrazione, infatti, il film appare freddo, distante, asfittico, decisamente povero di emozioni. Se a ciò si aggiunge la fatale distanza culturale che separa il pubblico d’Oltreoceano dagli eventi narrati, non è poi così difficile ipotizzare che “Seabiscuit”, campione d’incassi negli USA e serio candidato nella corsa agli Oscar, potrebbe non riscuotere esattamente la medesima pletora di consensi all’estero. E questo malgrado la pregevolezza della fattura complessiva e l’innegabile bravura del regista e degli interpreti. Ma quando a mancare è soprattutto un’autentica passione per ciò che viene raccontato, anche il film più calligraficamente corretto rivela un’irriducibile aridità

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