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La 25ª ora di Sergio Di Lino



Regista: Spike Lee

L’ultima giornata da uomo libero di uno spacciatore newyorchese, nel nuovo, applauditissimo film di Spike Lee.



Accolto quasi all’unanimità come un semicapolavoro, giunge in Italia “La 25ª ora”, ultima fatica di Spike Lee, un film che trasuda tragedia quasi ad ogni fotogramma e conferma la vocazione introspettiva delle ultime opere del cineasta.

Le ferite dell’11 settembre sono ancora fresche nella memoria del regista, newyorchese D.O.C., innamorato della sua città non meno di altri cantori della stessa (Woody Allen, Martin Scorsese): in tal senso vanno interpretate le inquadrature iniziali su Ground Zero. Ma “La 25ª ora” non è un film politico: anzi, a ben vedere si tratta di una delle opere più dolorose e pervase di tensioni melodrammatiche di Spike Lee.

Edward Norton tratteggia con indubbia efficacia (e qualche punta di maniera, come tutti gli attori di vaglia) il personaggio di Monty Brogan, tranquillo pusher di New York che si trova da un giorno all’altro a scontrarsi con l’imminente incombenza del carcere. Le sue ultime ventiquattro ore di libertà, in attesa della venticinquesima ora del titolo che naturalmente non arriverà, sono un viaggio a ritroso nella memoria, alla riscoperta di volti e luoghi che hanno segnato la sua esistenza, ma anche un viaggio alla ricerca delle radici comportamentali intrapreso da Lee con il piglio dell’entomologo. Con il consueto pessimismo, ma con una furia sommessa e controllata capace di stemperarsi nel dolore trattenuto, il regista si concentra sui volti degli attori e sui lividi paesaggi urbani desaturati dalla fotografia sperimentale di Rodrigo Prieto (alla sua prima collaborazione con Lee, dopo i consensi ottenuti con “Amores Perros” e più recentemente con “8Mile”), crea intere sequenze che coniugano gusto per la densità di racconto e fascino nei confronti dell’inquadratura insolita e ad effetto (ma mai a rischio di formalismo estetizzante: nel cinema di Spike Lee tutto ha una propria funzione specifica), privilegia la sincope, l’irregolarità, l’ellissi. “La 25ª ora” è il cinema di Lee nella sua forma più pura, anche nei momenti di apparente stallo, anche in quel finale sin troppo consolatorio (consapevolmente? Ambiguamente? Ironicamente? Lee lascia in sospeso l’interrogativo, mettendo in discussione il tono complessivo dell’intera opera), anche quando un eccesso di sentimentalismo sembra prendere la mano al regista, soprattutto nelle parentesi familiari fra Monty Brogan e suo padre.

Rimane il sospetto che la materia trattata non sia stata sviscerata in tutte le sue sfaccettature, ma si tratta comunque di una presunta incompiutezza che arricchisce il testo anziché depauperarlo, innestandovi all’interno una fondamentale ambiguità di senso: la stessa ambiguità che permea la figura di Monty Brogan, sospeso fra epicità da anti-eroe ed esistenzialismo da “loser”. Film ipertrofico e generoso, “La 25ª ora”, che sfrutta le sue stesse distonie in maniera estremamente produttiva; in più, con una macrosequenza centrale, all’interno di una discoteca, da mandare a memoria per complessità e stile.

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