Regista:
Spike Lee
L’ultima giornata da uomo libero di uno spacciatore
newyorchese, nel nuovo, applauditissimo film di Spike
Lee.
Accolto
quasi all’unanimità come un semicapolavoro,
giunge in Italia “La 25ª ora”, ultima
fatica di Spike Lee, un film che trasuda tragedia
quasi ad ogni fotogramma e conferma la vocazione introspettiva
delle ultime opere del cineasta.
Le ferite dell’11 settembre sono ancora fresche
nella memoria del regista, newyorchese D.O.C., innamorato
della sua città non meno di altri cantori della
stessa (Woody Allen, Martin Scorsese): in tal senso
vanno interpretate le inquadrature iniziali su Ground
Zero. Ma “La 25ª ora” non è
un film politico: anzi, a ben vedere si tratta di
una delle opere più dolorose e pervase di tensioni
melodrammatiche di Spike Lee.
Edward Norton tratteggia con indubbia efficacia (e
qualche punta di maniera, come tutti gli attori di
vaglia) il personaggio di Monty Brogan, tranquillo
pusher di New York che si trova da un giorno all’altro
a scontrarsi con l’imminente incombenza del
carcere. Le sue ultime ventiquattro ore di libertà,
in attesa della venticinquesima ora del titolo che
naturalmente non arriverà, sono un viaggio
a ritroso nella memoria, alla riscoperta di volti
e luoghi che hanno segnato la sua esistenza, ma anche
un viaggio alla ricerca delle radici comportamentali
intrapreso da Lee con il piglio dell’entomologo.
Con il consueto pessimismo, ma con una furia sommessa
e controllata capace di stemperarsi nel dolore trattenuto,
il regista si concentra sui volti degli attori e sui
lividi paesaggi urbani desaturati dalla fotografia
sperimentale di Rodrigo Prieto (alla sua prima collaborazione
con Lee, dopo i consensi ottenuti con “Amores
Perros” e più recentemente con “8Mile”),
crea intere sequenze che coniugano gusto per la densità
di racconto e fascino nei confronti dell’inquadratura
insolita e ad effetto (ma mai a rischio di formalismo
estetizzante: nel cinema di Spike Lee tutto ha una
propria funzione specifica), privilegia la sincope,
l’irregolarità, l’ellissi. “La
25ª ora” è il cinema di Lee nella
sua forma più pura, anche nei momenti di apparente
stallo, anche in quel finale sin troppo consolatorio
(consapevolmente? Ambiguamente? Ironicamente? Lee
lascia in sospeso l’interrogativo, mettendo
in discussione il tono complessivo dell’intera
opera), anche quando un eccesso di sentimentalismo
sembra prendere la mano al regista, soprattutto nelle
parentesi familiari fra Monty Brogan e suo padre.
Rimane il sospetto che la materia trattata non sia
stata sviscerata in tutte le sue sfaccettature, ma
si tratta comunque di una presunta incompiutezza che
arricchisce il testo anziché depauperarlo,
innestandovi all’interno una fondamentale ambiguità
di senso: la stessa ambiguità che permea la
figura di Monty Brogan, sospeso fra epicità
da anti-eroe ed esistenzialismo da “loser”.
Film ipertrofico e generoso, “La 25ª ora”,
che sfrutta le sue stesse distonie in maniera estremamente
produttiva; in più, con una macrosequenza centrale,
all’interno di una discoteca, da mandare a memoria
per complessità e stile.
|
|