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Un Capolavoro di Caravaggio tra i tesori della Mafia

PALERMO - Fino al 1981 hanno tentato di venderlo, senza riuscirci. Poi lo hanno seppellito insieme a cinque chili di cocaina e alcuni milioni di dollari, il tesoro personale di Alberti e, forse, quello della famiglia di Porta Nuova. Le certezze si interrompono qui, nel 1981, ma le tracce della Natività, rubata nel '69 e mai più ritrovata, sono state seguite sino al novembre scorso, quando la confidenza di un pentito ha condotto gli investigatori nel nord Italia.

In mezzo ci sono dieci anni di indagini dei carabinieri del nucleo tutela patrimonio culturale, guidati dal generale Ugo Zottin, a caccia di uno dei tesori dell' arte italiana in mano alla mafia, tra soffiate di confidenti, finanche uno del commissario Boris Giuliano, ricordi di pentiti, mezze ammissioni dei boss detenuti irriducibili, e tre tentativi, falliti, di vendita. Per recuperare la tela i carabinieri sono persino andati in carcere a raccogliere informazioni da boss irriducibili: hanno sentito Pippo Calò, Vittorio Mangano, Pietro Vernengo. Molti i non so e i non ricordo, ma anche uno squarcio nel muro dell'omertà: alcuni, tra cui Calò, hanno mostrato disponibilità all' aiuto, ma anche l' impossibilità ad intervenire direttamente.

La faccenda, infatti, è stata gestita dai cosiddetti perdenti e i corleonesi, della Natività, non sanno nulla. Ma il tenente colonnello Ferdinando Musella, che comanda il reparto operativo del nucleo, l' uomo che insieme al generale Roberto Conforti ha dato la caccia al quadro, non perde il suo ottimismo: «alla fine - dice - salterà fuori. Per oltre trent' anni non sono riusciti a venderlo, è ora che questa storia si concluda». Una storia che inizia a Palermo la notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969. Sulla città piove a dirotto, una motoape a tre ruote attraversa il centro storico diretta in via Archirafi, nella zona dell' Università, dove al quarto piano di un palazzo abita uno dei due ladri che hanno appena compiuto il furto del secolo: con una lametta affilata hanno staccato dalla cornice alle spalle dell' altare maggiore dell'Oratorio di San Lorenzo, nel centro storico, la Natività di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, uno dei capolavori dell' arte italiana di tutti i tempi, protetto a Palermo da un anziano custode e dalle sue due figlie. Forse i balordi hanno agito su commissione di qualcuno, forse hanno tentato il colpo grosso da soli, dopo avere visto la puntata dedicata al Caravaggio ne "I tesori nascosti d'Italia", trasmesso dal secondo canale della Rai poche settimane prima. Certo è che la mafia non ne sa nulla. Il caso vuole, però, che ospite di quell' appartamento è il fratello di un uomo d'onore, latitante per piccoli reati, che vent' anni dopo, rintracciato dai carabinieri grazie all' imbeccata di un pentito della famiglia di Porta Nuova, svelerà il mistero di quella notte e del passaggio di mano del quadro, da due imprudenti ladri a Cosa Nostra.

«Il Caravaggio me lo ricordo bene - ha detto all'ufficiale dei carabinieri che lo ha interrogato in un paese della Calabria, dove adesso fa il commerciante - ci ho pure passeggiato sopra, visto che lo avevano srotolato nella stanza dove era sistemata la mia brandina. Ricordo che era rovinato in uno degli angoli, lo hanno strappato leggermente tirandolo fuori dall' ascensore». In quella casa la Natività resta solo una notte. L' indomani viene portata in ponte Ammiraglio, regno del boss nascente Pietro Vernengo. Dopo un' indagine veloce di Cosa Nostra, e l' intercessione del latitante testimone occasionale del quadro, i ladri hanno salva la vita e perfino una ricompensa. Il quadro passa di mano altre due volte: da Vernengo a Rosario Riccobono e, poi, a Gerlando Alberti u paccarè, trafficante di droga titolare di una raffineria nel palermitano che lo terrà con sè, fino al suo arresto, nel 1981, e, probabilmente anche dopo. Sarà suo nipote Vincenzo La Piana, collaboratore di giustizia, a raccontare di avere scavato egli stesso la fossa nella quale fu seppellita una cassa di ferro, con la droga ed il quadro, avvolto in un tappeto.

L' indiscrezione è stata confermata in ambienti investigativi e giudiziari. Ma lì, la cassa non c' è più. L' andarono a cercare tre anni fa i carabinieri con lo stesso La Piana, che li aveva comunque avvertiti: «difficilmente mio zio ha lasciato lì il suo tesoro». Proprietario di uno dei gioielli della pittura italiana, u Paccarè cerca immediatamente di venderlo. Ci tenterà almeno tre volte, nell' arco di dieci anni, la prima ad un collezionista svizzero. In quell'occasione il quadro fu portato a Milano, e a raccontare il contatto è stato un collaboratore di giustizia. La seconda volta, nel 1974, nell' area di Torino, e un paio di carabinieri infiltrati arrivarono ad un passo dal recuperare la tela. La terza nel 1979, poco prima dell'omicidio di Boris Giuliano, il capo dalla Mobile assassinato dalla mafia. E in questo caso i carabinieri si imbattono nel secondo testimone diretto del quadro, un personaggio che fu infiltrato in Cosa Nostra per conto di Boris Giuliano, fingendo di rappresentare le famiglie americane.

Quando uccidono il commissario fugge dall' Italia e, una volta tornato, è stato rintracciato da carabinieri ed interrogato 5 anni fa in un luogo segreto. «Durante una riunione in cui si parlò di droga, nel '79 - racconta il misterioso personaggio - fu Alberti a mostrarmi la foto del quadro. E mi disse: 'tu che sei americano, ti interessa questo quadro?'». Ma la trattativa fallisce, il quadro scotta e Alberti forse rinuncia alla vendita, anche perchè nel 1981 viene arrestato e poi condannato all' ergastolo per l'omicidio del titolare di uno stabilimento balneare. Interrogato in carcere dai carabinieri, u Paccarè ha alzato il consueto muro di omertà, cadendo dalle nuvole. E se il quadro l' ha ancora lui, sarà difficile che lo tiri fuori. Il boss, comunque, sa dov' è.

Fonte:
http://www.lasicilia.it/articoli.nsf/(AntennaSicilia)/A2B19ED1C1A1673DC1256CC70054CEDE?OpenDocument

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