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Giro89
Girogirotondo se casca
la scuola...
La scuola futuribile
di Valentina Fulginiti, studentessa
bolognese (del Consiglio nazionale di ATTAC Italia),
da Granello di sabbia n.43, by Attac Italia
Approfitto degli spunti offerti
dal testo di Domenico Starnone sul mondo
della scuola, tanto duramente minacciato da questa
che viene giustamente
definita pseudoriforma.
Si parla, nella parte iniziale del testo, di un
ritorno al passato. A mio
parere, la metafora deamicisiana non è
del tutto appropriata e rischia di
essere mistificante. Abbiamo detto in molti che
la riforma rappresentava un
salto indietro di cinquant'anni: ma non è
una connessione così meccanica.
Anzi, proprio su questo si è giocato lo
scontro tra diverse componenti dalla
maggioranza e Confindustria - ora non risolto,
ma congelato -, tutti gli
aspetti connotanti della struttura e della impostazione
didattica verranno
definiti dopo. Nelle sue relazioni, fortemente
critiche dell'impostazione di
Bertagna, Confindustria criticava, paradossalmente,
la liceizzazione della
formazione professionale, e l'impostazione a mosaico
(modulare) della nuova
scuola (tratto comune anche alla riforma Berlinguer)
chiedendo quello che la
riforma non dava: i buoni, vecchi tecnici, dalla
preparazione altamente
professionalizzata e settoriale.
L'impostazione morattiana non è un salto
all'indietro, ma un ritorno al
futuro. Non si propone più il modello di
scuola di élite. L'impostazione dei
saperi parcellizzati è comune anche ai
cosiddetti alti livelli dell'
istruzione: è un progetto dequalificante
in massa: servono persone poco
qualificate da inserire nelle nuove non professioni,
gente che sappia un po'
di tutto, che sappia costruire un sito web e mastichi
un po' di inglese.
Il modello anni '50, scadente, ingiusto, classista,
è improponibile anche da
un'ottica ultraliberista: se una volta si proponeva
la distinzione tra una
scuola di élite capace di formare un 10%
di future classi dirigenti, mentre
alla maggioranza erano del tutto negati gli strumenti
critici di base, da
oggi gli strumenti saranno scadenti per tutti.
La formazione personale resta momento di discriminazione,
anche se non più
ai fini del successo: non spendibile sul mercato,
diventa una questione
privata, e chi avrà stimoli culturali validi
si sottrarrà all'impostazione
livellante, chi ne è privo si accontenterà
delle tre i, anche nel proprio
privato. Del resto, appare sempre più evidente
come l'idea che il sapere
disinteressato, non funzionale ad altro che alla
propria crescita, sia un
lusso di pochi e non un diritto come l'alfabetizzazione;
e se questo era
dominante nella prassi, d'ora in avanti sarà
la legge a stabilirlo. E a mano
a mano che la scuola si riduce a un parcheggio,
un addestramento al niente,
tanto vale affrettare l'età lavorativa.
I due fattori sono largamente
legati: del resto, spesso, quando si dice che
la scuola italiana è peggio di
quella europea, si critica il fatto che noi, a
18 anni, in larga parte ci
sentiamo ancora lontani dal mondo del lavoro,
e non che in Irpinia c'è chi
fa lezione a turno perché mancano ancora
aule e banchi.
Questo si connette a un altro aspetto fondamentale,
quello della
competizione che soppianta definitivamente i modelli
di educazione fondati
su confronto e collaborazione, intesi non come
un'ipocrita "aiutare chi è
rimasto indietro", ma intuiti nell'idea -
forse un' utopia ? - che nella
scuola non ci sia chi rimane indietro, perché
la formazione non è una gara
tra singoli, piuttosto è un processo complesso
e collettivo. Rispetto a
questo, il discorso è più vasto
della critica all'ignobile riforma degli
organi collegiali (forse il termine smantellamento
sarebbe più appropriato).
Il nodo fondamentale è proprio il ruolo
della democrazia nella formazione,
intesa come valore, pratica, cultura. Questo definitivo
tracollo di ideali
che sembravano radicati, nella scuola, è
indissolubilmente legato a un'
ottica individualizzante (altra carenza) e di
competitività. Ma, ancora una
volta, dalla logica di competitività non
si esce difendendo la qualità delle
proprie isole felici, occorre spezzare questa
logica dalla base, ad esempio
rifiutandosi di compilare i test, perché
la qualità della formazione non si
misura su un numero di crocette esatte; avere
il coraggio di affermare che
la scuola pubblica non ha bisogno di essere controllata
attraverso l'
insultante e superficiale contagio dei progetti
locali e degli stages, (che
non ne considera la reale qualità), perché
quello che deve dare in più
rispetto alla privata non è verificabile
in una gara, sta in altri tempi e
in altre relazioni.
Anche sull'aspetto della condotta, leggo critiche
giuste, condivise o
condivisibili, che però rischiano di essere
parziali. Oggi lo scontro non si
gioca più nei termini dello scontro con
i settori più retrivi della destra
cattolica: anche questa è una lettura vecchia,
adeguata all'Italia della
Democrazia Cristiana, di cui Berlusconi è
un figlio, non un prolungamento.
Le esigenze sono varie: riprendere il controllo
economico di quella che è
stata grottescamente definita l'azienda più
grossa del paese (il settore
scolastico), attraverso un'ambigua sintesi di
morale e produttivismo, in cui
l'identità cattolica gioca un ruolo secondario,
più apparente e mediatico
che sostanziale. L'attacco alla laicità
è un processo, una categoria ben più
ampia di quanto non suggeriscano l'assunzione
dei docenti di religione o il
finanziamento delle scuole private (il che pure
è scandaloso): è assenza di
autonomia del piano civile, che deve giustificarsi
rispetto a una serie di
altri valori, quali il successo economico, o un'idea
distorta di identità
culturale, aggressivamente costruita come barriera
verso ciò che è diverso.
E proprio la cultura come menzogna dell'identità,
da costruirsi attraversi
paradigmi escludenti, è un nodo particolarmente
complesso, che riguarda il
senso di ciò che si studia, o il controverso
nodo dell'obiettività storica,
come riscrittura della storia per cancellare le
parti che non sono
funzionali all'idea di pacificazione nazionale.
Da questo punto di vista, la
questione della presenza dei "figli degli
immigrati" richiederebbe un
approfondimento, a partire dal nome con cui li
designiamo (sono persone,
prima che figli di migranti); e non penso, tra
i rischi, soltanto alle
cosiddette guerre di religione, ma anche al razzismo
istituzionalizzato di
casa nostra (legge Bossi-Fini). Né dalle
colonne dei giornali, né dalle
tribune viene mai fatto un accenno in positivo
alle possibilità di
arricchimento umano e culturale che la diversità
può dare, se non è
affrontata in termini di emergenza.
In ogni caso di fronte a tutto questo, anche noi
crediamo che non si possa
stare a guardare. Ma bisogna anche saper andare
oltre altrimenti corriamo il
rischio di fermarci alla difesa dell'esistente.
Non basta difendere la
scuola dalle minacce del governo, bisogna cambiarla
in meglio, estendere i
diritti che a tutt'oggi sono garantiti in modo
comunque parziale, perché la
scuola italiana è già classista,
nei fatti. In caso contrario, la nostra
battaglia rimane elitaria, la nostra posizione
debole, inadeguata ai tempi e
alle trasformazioni in atto. Se vogliamo mantenere
la nostra dignità come un
insieme inviolabile e unico di diritti, non ci
possiamo limitare a difendere
la nostra posizione senza arretrare, dobbiamo
spostarci, scartare di lato,
cominciare ad essere un'alternativa dal basso,
a portare queste forme e
questi contenuti nelle scuole come negli altri
luoghi del nostro quotidiano.
È fondamentale, in questo momento, riuscire
a cambiare la società e la
cultura dominante con un'alternativa tangibile
e a misura delle persone, non
limitarsi a protestare verso l'alto con chi non
cambia le cose come vorremmo
noi. La classe politica che ci governa (e anche
quella che non ci governa)
ha dimostrato di non essere più attenta
alle proprie responsabilità, è ora
di richiamarli, ma, prima ancora, di trasformare
direttamente la realtà, sui
nodi essenziali. Questo processo è già
attivo, nella società e nella scuola,
dove si traduce nei numerosi momenti di incontro,
di protesta congiunta e
di elaborazione di forme, relazioni diverse. Queste
esperienze non chiedono
appoggio, devono diventare la nostra prassi.
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