segnali dalle città invisibili
 

Giro88 Palestina aprile 2002
LA MEMORIA DEL FUTURO E L'ANGOSCIA DEL PRESENTE

di dino frisullo (IN RISPOSTA AL "TERRORE CHE VOI NON CAPITE" DI GAD LERNER, SUL MANIFESTO DEL 4/4)

Ero a Nablus nella prima notte della prima Intifada, quindici anni fa.
Fuori dal dedalo della città vecchia, cuore del cuore della Palestina,
impazzavano i blindati. Non potevano oltrepassare, oggi come allora, le
barricate di rocce accatastate all'imbocco dei vicoli. Un ragazzino indicò
lo spicchio di cielo fra le casupole. "Solo da lassù ci possono attaccare"
disse, in un inglese stentato e fiero. Ora quel ragazzino è cresciuto e
invece dei sassi stringe forse in mano un inutile mitra, mentre da quel
cielo lo bombardano gli F-16 e gli Apache.
Ricordi& Vorrei che Gad Lerner avesse conosciuto quella donna che nel campo
di Kalandiya, accanto al cadavere del figlio poco più che bambino
squarciato da una micidiale pallottola esplosiva "dum-dum", ci disse
piangendo e indicando gli altri figli: "Io non odiavo gli israeliani, e
nemmeno loro. Non voglio arrivare a odiarli. Non voglio che i miei figli
uccidano un giorno i loro figli. Aiutateci voi&" Voi europei, voi mondo,
voi altrove.
Il fratello maggiore di quel bambino marciva nella terribile prigione di
Ansar, nel deserto del Negev. Pochi mesi dopo, tornati a Kalandiya, la
madre ci disse che era morto di stenti e torture. Mi regalò una pietra
rotonda incisa dal figlio in chissà quante notti insonni: l'immagine di un
veliero, e dietro in arabo la scritta "la nave del ritorno". L'ho
conservata per anni come la mia cosa più cara, prima di affidarla a mia
volta a un'esule kurda. Era, ancora, un segno di speranza.
Oggi forse uno dei figli di quella donna s'è fatto saltare in aria in una
strada affollata di Gerusalemme o di Tel Aviv. Oggi forse gli occhi di
quella donna sprizzano odio. Quanto ha sofferto in questi quindici lunghi
anni? Quante volte i soldati hanno messo sottosopra la sua baracca
all'alba? Da quando sono nati, i suoi figli non hanno conosciuto che guerra
e discriminazione e, appena adolescenti, lavoro nero nelle terre dei coloni
e nelle città degli alieni.
Anche a me, che iddio mi perdoni, quando varcavo il confine impercettibile
fra la Gerusalemme araba immersa nel silenzio buio e teso del coprifuoco e
le vetrine allegre e multicolori di Gerusalemme ovest, anche a me veniva
voglia di gridare e di spaccare tutto. Di far saltare le vetrine, certo,
non la gente innocente che vi passeggiava davanti. Ma io non sono
palestinese. Posso solo immaginare come possa crescerti dentro la
frustrazione, fino ad esplodere con il mondo intorno.
In quei giorni di fine anni '80 ci trovammo ad inventare, nelle strade e
nei campi di Palestina, una modalità di condivisione che poi, dalla Bosnia
al Chiapas al Kurdistan, è divenuta patrimonio comune. Ci trovammo a
guidare e garantire, noi europei, le prime manifestazioni con bandiere
palestinesi per le strade di Gerusalemme e di Ramallah. Più d'una volta
sentimmo fischiare i proiettili, ma non è quello il ricordo peggiore. Non
dimenticherò mai, invece, lo sputo in pieno viso e la mano alla gola di un
Rambo israeliano sceso dalla jeep di cui avevo appena annotato la targa,
per denunciare il pestaggio di una scolaresca che manifestava in Salahaddin
Street. Con un senso di repulsione fisica avvertii allora il suo potere,
quel Potere allo stato puro che ho ritrovato nei bastoni della polizia
turca. In quel momento lo odiai con tutte le mie forze. Ed io non sono un
palestinese&
Mi sono chiesto spesso, allora, come potevano i palestinesi continuare a
battersi solo con parole e pietre. Mi sono chiesto con ammirazione, allora
così come in seguito in Kurdistan di fronte a una negazione ancora più
radicale e ad un'occupazione ancora più pervasiva, quale forza morale
potesse animare il tessuto dei Comitati popolari, la rete di quotidiana
resistenza civile dell'Intifada - che in kurdo si traduce Serhildan, e in
entrambi i casi significa semplicemente: su la testa!
Hanno continuato così per molti anni, Lerner, senza armi, infine con armi
ridicole a fronte della potenza israeliana. Ancora nei primi mesi della
seconda Intifada, le vittime civili erano tutte da una parte sola, ad
eccezione dei coloni - che sono più armati e militarizzati degli stessi
militari. Infine la disperazione, ben più che un calcolo politico, ha
spinto decine, centinaia di giovani a scegliere la via dell'attentato
suicida. Una scelta atroce, certo, e da respingere. Come dice Brecht, anche
l'odio contro l'ingiustizia rende roca la voce e stravolge il viso.
Ma mentre quella disperazione e quell'odio crescevano, noi che abbiamo
fatto? Quanti di noi si sono cullati, nell'intervallo fra le due
esplosioni, nell'illusione che tutto fosse affidato ormai, nel bene o nel
male, alla diplomazia e alla geostrategia? Quanti hanno smesso di
chiedersi, se mai s'erano dati la pena di conoscerla, che vita facesse
quella donna di Kalandiya e milioni di donne come lei, sotto il tallone
dell'occupazione? Quanti hanno coltivato il feticcio consolatorio
dell'equidistanza fra oppressori e oppressi?
Ancora ricordi. Una sera d'estate, in casa di giovani israeliani in
procinto di partire per il servizio militare. Giovani acculturati e di
sinistra, una discussione serrata e appassionata. La conclusione fu che non
ci sarebbe stata pace senza il ritorno in tutto o in parte dei profughi del
'48 e il ritiro dei coloni, che al contrario crescevano in numero e
privilegi mentre i campi profughi nei paesi arabi sprofondavano nella
miseria più nera. E che queste due condizioni non potevano realizzarsi se
non a prezzo di uno scontro durissimo dentro Israele, al limite della
guerra civile. Uno scontro che quei ragazzi non se la sentivano di aprire.
Difatti c'è stato, sordo più che aperto, ma per iniziativa della destra. E
l'assassinio di Begin ha segnato la sua vittoria, che oggi Sharon celebra
nel sangue.
Posso capire il terrore in cui oggi vivono gli israeliani, e capisco che
produce nuovi mostri - il consenso crescente intorno alla tragica illusione
di soluzione finale di Sharon, così come l'angoscia esistenziale che
conduce persino un analista intelligente come Lerner a farneticare di una
possibile, anzi imminente distruzione dello stato d'Israele ad opera dei
giovani suicidi-omicidi.
Al contrario: la solidarietà con le stesse vittime israeliane ci obbliga a
tenere ferma e lucida l'analisi e la scelta di campo. Questo terrorismo
disperato non si combatte con strumenti militari, perché non è opera di una
falange di cospiratori. Si combatte mettendo fine all'occupazione e
consentendo a un popolo compresso fino all'implosione di respirare e
progettare liberamente un futuro di convivenza, sulle macerie dell'odio.
Questo ripete Arafat, checché ne dica Bush o, 'si parva licet', De
Michelis. Questo dicono Ocalan ed i suoi in Kurdistan, Marcos ed i suoi in
America Latina.
Che le loro voci si spengano o no, che ai popoli negati nell'epoca della
globalizzazione resti o no una scelta diversa dall'estremo sacrificio di sé
e degli altri, dipende anche da tutti noi. Incluso Gad Lerner.
Dino Frisullo

 

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