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Giro88
Movimento
Un secolo in sciopero
Dal 1901 a oggi La storia degli
scioperi generali è storia di passaggi
decisivi, in cui le lotte dei lavoratori hanno
sempre assunto un valore politico con cui tutti
hanno dovuto misurarsi
Adolfo Pepe, Il Manifesto
14 aprile 2002 (seconda parte) -
leggi prima parte.
Tra il dicembre 1900 e il
settembre 1904 due scioperi generali, uno a Genova
e in Liguria, il secondo esteso all'intero paese
(il primo sciopero generale nazionale in Europa),
segnano l'entrata dell'Italia nella storia del
Novecento. Lo sciopero generale di Genova fece
precipitare la crisi del Governo Saracco (che
si dimetterà nel febbraio 1901) e spostò
radicalmente i termini stessi della discussione
e delle proposte politiche sia tra le forze di
Governo che nei diversi settori della sinistra
parlamentare. La scelta obbligata per uscire dal
«decennio infausto» e aprire una stagione
liberale e moderna non fu più tra un progetto
autoritario di riformismo sociale ed uno di riformismo
politico, bensì il riconoscimento della
libertà di associazione delle forze sociali,
della funzione positiva che riveste l'azione rivendicativa
e conflittuale del sindacato e dei lavoratori,
fattori decisivi della modernizzazione del paese.
La classe dirigente politica ed economica si divise
tra coloro che si ostinavano a negare questa nuova
realtà e le forze che invece intuirono
che il liberalismo doveva allargare la struttura
dei diritti sociali ed economici delle classi
lavoratrici e modificare quella concezione stessa
dello Stato, classista e proprietaria. Di non
minore rilievo furono le ripercussioni nel campo
delle opposizioni, a loro volta paralizzate dal
dilemma tra minimalismo filo-governativo e radicalismo
agitatorio e predicatorio. Lo sciopero generale
di Genova, le sue modalità d'azione e i
suoi obiettivi rilevarono che nella società
moderna il punto cruciale era la formazione, la
gestione e la finalizzazione della forza organizzata
nella relazione con le altre classi sociali e
con le istituzioni pubbliche.
Giolitti e Turati, comprendendo
questa profonda innovazione della politica nell'età
del sindacato, «utilizzarono» la forza
d'urto dirompente che scaturì da quello
sciopero generale, per rinnovare le coordinate
storiche dell'Italia. Anche essi, tuttavia, furono
ben presto travolti dall'illusione che sarebbe
bastata quella semplice operazione di apertura
di credito reciproco e una alleanza tra le ali
liberali e socialiste del riformismo politico,
per realizzare un controllo permanente dello sviluppo
e delle trasformazioni dell'Italia, relegando
le strutture sindacali ad una limitata funzione
prepolitica.
Lo sciopero generale nazionale
del 1904 fece tramontare questa illusione. Il
lavoro e il sindacato, ormai radicati nel tessuto
sociale e produttivo, non erano forze transeunti
utili solo per ridisegnare un equilibrio politico-parlamentare,
ma una realtà ormai permanente con cui
occorreva confrontarsi sistematicamente nel processo
legislativo e decisionale, mettendo nel conto
la necessità di modificare il profilo e
l'ambito stesso della politica e della sua funzione,
al di là del vecchio sistema oligarchico
e censitario. Il Governo Giolitti continuò
a sparare sui lavoratori (i famosi eccidi proletari)
soprattutto nelle campagne e nel Meridione spingendo
allora la Camera del Lavoro di Milano, nel settembre
1904, a rialzare la bandiera dei diritti del lavoro
e a utilizzare lo sciopero generale contro il
Governo liberale per chiedere che lo Stato non
solo riconoscesse a parole la libertà sindacale
ma che non impiegasse la forza delle istituzioni
come strumento di repressione militare e di assassinio
dei lavoratori.
Lo sciopero generale del settembre
1904, non a caso proclamato da Milano, infranse
altresì l'illusione giolittiano-turatiana
che si potesse avere per amico un Governo che,
sul terreno economico e sociale, aveva dovuto
rinunciare alla riforma tributaria, rivedere drasticamente
il proprio riformismo economico e sociale e che
si era venuto spostando sempre più a sostegno
della riscossa della borghesia industriale e agraria
che voleva annullare le conquiste salariali e
contrattuali realizzate nei primi anni (1901-1902)
del libero dispiegamento della dialettica rivendicativa
e dell'azione sindacale.
Giolitti sanzionò la rottura
dell'alleanza con Turati e volle contrapporre
furbescamente la politica alla rappresentanza
sociale: preferì sciogliere le Camere e
indire elezioni politiche anticipate, sfruttando
le paure dei diversi ceti borghesi e proprietari
per ottenere un nuovo consenso al proprio ministero.
Sconfisse Turati, che perse le elezioni, e sembrò
vincitore al punto che la sua manovra divenne
una sorta di archetipo del comportamento del Governo
nei confronti dello sciopero generale. In realtà
la sua stagione politica finì con quell'atto.
Il destino del riformismo politico, liberale e
socialista si bruciò nell'incomprensione
del significato che l'azione e la presenza del
sindacato ormai avevano non solo nella vicenda
economica ma, direttamente, sul quadro politico
e sulla qualificazione degli indirizzi programmatici
del Governo e dei partiti. Quando nel 1906 si
costituì la CGdL Turati era nel pieno della
dissoluzione del riformismo politico e Giolitti
aveva dovuto passare la mano a Sonnino. Egli non
riuscì più ad invertire la deriva
politica della classe dirigente ormai inclinata
verso soluzioni illiberali, autoritarie, nazionaliste
e fasciste, da Sonnino a Salandra a Mussolini.
Più complesso e diversificato
è il significato che lo sciopero generale
assume nel sistema politico ed economico dell'Italia
repubblicana e nella ricollocazione della classe
dirigente liberal-fascista nel nuovo ordine repubblicano
e democratico. A differenza dell'età liberale,
nell'Italia repubblicana la tipologia dello sciopero
generale, ormai saldamente nell'ambito decisionale
del sindacato confederale, assume tre valenze
differenziate. In primo luogo, si viene codificando
una forma di azione generale volta a unificare
rivendicazioni e obiettivi di lotta economico-contrattuali
che hanno come controparte la rappresentanza degli
imprenditori o della proprietà agricola.
Rientrano, in questa fattispecie, gli scioperi
generali che da quello del luglio 1948 contro
la pretesa della Confindustria di licenziare arbitrariamente
giungono fino all'ultimo e più recente
sciopero generale unitario di 8 ore del giugno
1982 contro la disdetta unilaterale della scala
mobile. Il senso di questi scioperi generali è
quello di affermare e di preservare il diritto
della rappresentanza sociale alla contrattazione
collettiva instaurando un sistema di relazioni
stabili con le controparti, inducendole a desistere
dalla loro tradizionale cultura autoritaria dei
rapporti con i lavoratori.
In secondo luogo, gli scioperi
generali sono stati proclamati con una precisa
ed esclusiva finalità politica di contrasto
nei confronti di politiche governative apertamente
lesive della legalità costituzionale, sottoposta
a continue e ricorrenti tensioni eversive sul
fronte della violenza metalegale, istituzionale
e fascista. Sono parte di questo percorso lo sciopero
generale e la sua sapiente conduzione da parte
di Di Vittorio dopo l'attentato a Togliatti (1948),
quello contro la legge-truffa (1953), contro l'eversione
fascista a Reggio Calabria (1972), contro la strage
di Piazza della Loggia (1974), fino all'intero
ciclo di mobilitazioni generali contro il brigatismo
e lo stragismo.
Sicuramente gli scioperi generali
più densi di significato e di conseguenze
storiche sul più ampio contesto politico
e sociale del paese sono quelli che rientrano
in una morfologia assolutamente originale e per
molti versi tipica delle vicende italiane di questo
cinquantennio. In particolare due di essi, al
pari di quelli dell'età liberale, appaiono
eventi fondativi di una fase di difficile transizione
per l'intero paese. Lo sciopero generale del luglio
1960 costituisce sicuramente un evento cruciale,
al crocevia di due processi critici della società
e delle istituzioni. In quell'estate, come è
noto, maturò una prima gravissima crisi
nel funzionamento dell'ordinamento repubblicano
che mise in discussione il profilo costituzionale
italiano, riproponendo l'alternativa tra un drastico
restringimento delle libertà democratiche
e l'apertura di una più ampia prospettiva
di coinvolgimento del mondo del lavoro e del sindacato
nello Stato democratico.
Quella crisi fu resa più
drammatica dall'emergere delle tensioni e dei
conflitti sociali di una modernizzazione economica
che, ancora una volta, pur traghettando il paese
verso una società industriale, scaricava
costi sociali e contraddizioni strutturali quasi
esclusivamente sui lavoratori. Il «passaggio»
del luglio 1960 tra i rischi di involuzione autoritaria
delle istituzioni, alimentati dal Governo Tambroni
(sostenuto dai voti decisivi del Msi), e l'esplosione
di una conflittualità inedita, fu ancora
una volta governato dall'assunzione di un ruolo
di responsabilità generale da parte della
CGIL. Il sindacato riuscì, con lo sciopero
generale proclamato dopo i fatti di Genova ed
i morti di Reggio Emilia, a modificare gli orientamenti
reazionari del Governo inducendo il Presidente
del Senato a chiedere ed ottenere una tregua al
sindacato per uscire dall'impasse. Da quell'atto
scaturì quel processo di ridefinizione
degli equilibri interni al mondo politico ed economico
e si aprì quella decisiva evoluzione nel
fronte politico della sinistra che portò
al superamento del blocco politico-parlamentare
centrista e all'apertura di una nuova stagione
tendenzialmente riformatrice. Il funzionamento
della democrazia venne ancorato all'antifascismo,
valore insieme fondativo della Repubblica e presidio
della libertà del mondo del lavoro.
Il ciclo conflittuale, che si apre
con lo sciopero generale per le pensioni e contro
le gabbie salariali, raggiunge la sua massima
forza politica nel più drammatico e teso
sciopero generale dell'intero periodo: quello
del novembre 1969 per la casa e le riforme sociali.
Culmina il 6 luglio 1970 nella caduta anticipata
del Governo Rumor dopo la proclamazione di un
nuovo sciopero generale unitario per il 7 luglio
contro l'inerzia riformatrice del Governo. Anche
Rumor come Giolitti tentò di sfuggire alla
verifica dell'incapacità del Governo di
centro-sinistra di attuare una coerente politica
riformatrice e di mantenere con il sistema sindacale
una corretta relazione. Dimettendosi e passando
la mano ritenne di aggirare il problema, di indebolire
il sindacato, di preservare alla classe politica
una capacità di sintesi e di direzione
sul semplice terreno della gestione parlamentare
della crisi. Ma anche stavolta si trattò,
puramente e semplicemente, della chiusura del
ciclo innovativo apertosi dieci anni prima. La
mano passava, ma a un nuovo quadro politico nel
quale gli elementi di confusione, di debolezza
e di restaurazione conservatrice avrebbero condotto
a uno scenario di progressiva corrosione della
tenuta delle istituzioni democratiche.
L'analisi di queste esperienze
forse aiuta, in conclusione, a porre la questione
cruciale che è sempre connessa con l'effettuazione
di uno sciopero generale in Italia, quella del
«dopo». Lo sciopero generale incide
profondamente sugli assetti e sugli indirizzi
complessivi del paese e questo avviene non nell'immediato
ma a medio termine. D'altro canto sono decisivi
il comportamento e le scelte di tutti gli attori
sociali in una fase in cui si modificano le politiche
e gli equilibri così all'interno dei diversi
schieramenti che tra di essi e soprattutto gli
equilibri tra il sistema politico nel suo insieme
e la percezione che di esso hanno lavoratori e
cittadini.
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