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Giro88
Palestina aprile 2002
Il terrore che voi non capite
di Gad Lerner, Il Manifesto
Caro direttore, a far scattare
in me il bisogno di scrivervi in questi giorni
bui - non ti stupisca - è stato infine
il bellissimo ricordo che Valentino Parlato ha
dedicato ieri a Giovanni Forti, dieci anni dopo
la sua morte. Troppi legami, troppi ricordi ci
uniscono, nonostante tutto, a dispetto dell'estraneità
insospettita che i vostri lettori più giovani
riterranno probabilmente di dedicarmi.
Ma ciò non può valere
di certo per Gianfranco Bettin, Luisa Morgantini,
Piera Redaelli che sempre ieri hanno testimoniato
per voi dall'inferno di Ramallah dove hanno scelto
di andare volontari, disarmati, generosi e onesti
come io me li ricordo da sempre: Gianfranco insieme
dalle riunioni degli studenti di Lotta continua
fino agli ultimi anni con Alexander Langer; Luisa
abbracci e sorrisi alla Fim Cisl milanese di via
Tadino e poi in Irpinia, fra i terremotati; Piera
trent'anni fa alla Statale di Milano, dove già
lei portava quella kefiah che un po' m'impauriva
ma lo stesso sentivo il dovere di manifestare
al suo fianco perché Israele la smettesse
di rimuovere l'esistenza di un popolo palestinese
e finalmente ne riconoscesse i diritti.
Ecco, non temessi di strumentalizzarne
la memoria, vorrei trasmettervi la certezza che
le mie domande di oggi sarebbero le stesse del
vostro ribelle intellettuale newyorkese Giovanni
Forti, che volle sposare un altro uomo ma sotto
la kuppà del rito ebraico.
Credo innanzitutto che la vostra
storia vi imponga il dovere di fare i conti con
la nostra paura: la paura di quell'arma nuova
- il corpo umano dei cosiddetti «martiri»
trasformato in arma esplosiva - che ribalta in
impotenza la superiorità militare israeliana
e per la prima volta rende verosimile la vittoria
del terrorismo, cioè la distruzione dello
Stato ebraico nel giro dei prossimi quindici-vent'anni.
Se il terrorismo suicida si generalizza
come arma totale di spietata efficacia, legittimandosi
attraverso una visione totalitaria della fede
religiosa, ebbene, chi sta dalla parte degli oppressi
deve sentire per primo la responsabilità
di denunciare l'abominio che si perpetra ai loro
danni, e quindi agire di conseguenza, perché
le dissociazioni di principio non bastano. D'accordo,
la guerra peggiora chiunque vi sia coinvolto,
costringendoci a brutali scelte di campo, imponendoci
il peso delle appartenenze, irridendo i nostri
tentativi di distinguere laddove la violenza s'illude
di semplificare, spaccando in due il mondo. Eppure
io non posso rassegnarmi oggi all'idea di interpretare
una sensibilità e una visione del mondo
così distanti da quelle testimoniate da
Gianfranco Bettin , Luisa Morgantini, Piera Redaelli,
e da voi tutti del manifesto. Perché mai?
Solo perché sono nati in terra d'Israele
i miei genitori e i miei nonni, e sempre hanno
parlato l'arabo come l'ebraico? Quella semmai
è stata e resta una ragione in più
per cercare la pace, non la guerra con i palestinesi.
Sgombriamo il campo dalle ovvietà.
Le conosco anch'io le colpe della politica israeliana
dal 1993 in qua, la moltiplicazione degli insediamenti
ebraici nei territori restituiti all'Autorità
palestinese e il drammatico divaricarsi del tenore
di vita fra i due popoli. Lo so che in una visione
cinica del divide et impera si è incoraggiata
una leadership ambigua e corrotta dell'Anp, favorendo
il radicamento degli integralisti islamici e i
giochi più sporchi di Siria, Iran, Iraq.
Figuriamoci se nego le colpe dei governi israeliani,
fino all'ultima improvvida decisione di prendere
in ostaggio Arafat. Ma adesso che si fa? Possiamo
forse ignorare, in seguito a quelle colpe, l'incubo
nel quale sta precipitando l'intera società
israeliana? E' vero o non è vero che -sia
pure, anche per colpa degli israeliani, ma (siete
troppo lucidi per non accorgervene) non solo per
colpa degli israeliani- i palestinesi ormai assumono
il terrorismo suicida come la strategia vincente,
quella che alla lunga indurrà tutti gli
ebrei ad andarsene da tutta la Palestina, per
costruirvi infine uno Stato islamico?
I libri di testo arabi che recuperano
gli argomenti più ignobili dell'antisemitismo
di matrice europea, le trasmissioni televisive
che propagandano l'eroismo dei «martiri»
terroristi, lo stesso Arafat che nell'ora suprema
esalta ambiguamente questa criminale nozione di
martirio, possono forse essere ridimensionati
a conseguenze secondarie del conflitto in corso,
da parte di un giornale laico e di sinistra che
ha inscritta nei suoi cromosomi la memoria delle
tragedie novecentesche?
Riconosco con fraterna ammirazione
la nobiltà e l'utilità dell'interposizione
pacifista messa in atto da tanti amici coraggiosi,
ma pretendo che essi comprendano anche le ragioni
degli israeliani e le responsabilità della
leadership palestinese. Dopo gli attentati sanguinosi
nei giorni della Pasqua ebraica, qualunque governo
israeliano, fosse stato anche guidato dalla sinistra
e non da Sharon, si sarebbe sentito in dovere
di reagire duramente a protezione della sua popolazione
civile. Non a caso l'irriducibilità del
terrorismo suicida ha pressochè estinto
il fenomeno dell'obiezione di coscienza fra i
riservisti di Tshahal.
Oggi davvero non è lecito
schierarsi unilateralmente al fianco dei palestinesi,
fingendo di ignorare il peso assunto dentro a
quella popolazione oppressa - fin nelle strutture
militari di al Fatah - dalle posizioni fondamentaliste
e dalla strategia del terrorismo suicida.
Ero con voi, in via Tomacelli,
quel giorno del 1982 in cui i terroristi uccisero
il piccolo Stefano Tachè davanti alla sinagoga
di Roma. Ricordo lo smarrimento e il dolore condiviso
in redazione, di fronte alla ferita che sembrava
irrimediabilmente aprirsi fra la sinistra e la
comunità ebraica italiana. Quell'anno molti
di noi, ebrei di sinistra, non esitammo a manifestare
sotto le sedi diplomatiche israeliane per denunciare
la follia della guerra di Begin e Sharon in Libano.
Lo rifarei, ve lo assicuro. Ma oggi la situazione
è molto, molto diversa. Non lasciatevi
trarre in inganno dalla schiacciante superiorità
militare dell'esercito israeliano, che c'era allora
così come c'è oggi. La differenza
è che allora Israele non era in pericolo
di vita, e dunque al suo interno poteva crescere
una potente spinta pacifista che in seguito avrebbe
trascinato Rabin a stringere la mano di Arafat.
Naturalmente ancora oggi il dialogo fra le due
parti e la nascita di uno Stato palestinese a
fianco di quello ebraico restano l'unica soluzione
ragionevole al conflitto. Ma per portare gli israeliani
a non vivere più come una minaccia la nascita
dello Stato palestinese, bisogna stroncare con
tutti i mezzi, culturali, sociali, politici e
repressivi i focolai del terrorismo fondamentalista.
Per favore, smettiamola di mostrare
comprensione per il coraggio e l'eroismo dei «martiri»,
magari con l'argomento aberrante che quella sarebbe
l'unica forma di lotta consentita loro dalla brutalità
israeliana. E' un atteggiamento ricorrente, quest'ultimo,
poco importa se sussurrato o proclamato a piena
voce.
Sì, mi sento di chiedervi
comprensione e partecipazione anche al dramma,
alla paura degli israeliani e degli ebrei. Perfino
comprensione per le sue manifestazioni più
rozze, come quella dei giovani ebrei romani che
pensano di trovare un comodo bersaglio polemico
nella sede di Rifondazione comunista perché
ancora non oserebbero esternare la loro rabbia
sotto palazzi più importanti, come quelli
del Vaticano. La brutale semplificazione dei termini
del conflitto non si riscontra più solo
nelle inconsapevoli, grossolane vignette di un
Forattini che da tempo si diverte a deformarne
la portata religiosa, fornendo combustibile ai
pregiudizi più velenosi. Mi aveva rattristato,
martedì scorso, la vostra Jena che scherzava
sulle usanze: «In Italia è legale
l'ora, in Olanda l'eutanasia, in Israele il genocidio».
Ma come posso protestare con voi se l'indomani
è l'Osservatore romano a straparlare di
«un'aggressione che si fa sterminio»?
Genocidio, sterminio, sono parole
scelte con cura per fare male agli ebrei. Alludono
a contesti storici e a luttuose contabilità
inconfrontabili con la tragedia in corso. I carri
armati in mezzo alle baracche dei campi profughi
sono una visione terribile, ma nulla hanno a che
fare con il genocidio e lo sterminio di intere
popolazioni perpetrato nell'Europa del Novecento,
e neanche con l'atrocità degli stupri e
della guerra etnica nei Balcani. Spiace doverlo
ricordare, ma pur nella denuncia più vibrante
un giornale come il manifesto avrebbe il dovere
di preservare queste distinzioni, se persegue
la pace e la convivenza. Se volesse interpretare
la disperazione ebraica con la stessa attenzione
che dedica alla disperazione palestinese. Che
trovino spazio adeguato sulle pagine del vostro
giornale anche i corpi martoriati dal tritolo
a Netanya, Haifa, Gerusalemme. Lanciatelo voi
quel grido che Arafat in tanti mesi non ha voluto
far suo: «I martiri assassini non sono eroi
ma criminali inviati alla morte da criminali peggiori
di loro, bestemmiano il Corano e il popolo palestinese
deve maledirli come i suoi peggiori nemici».
Troppo facile, troppo furbo, addebitare pure loro
nel conto delle colpe di Sharon.
Cari Gianfranco, Luisa, Piera,
cari amici del manifesto. Non riesco ad accettare
l'idea che oggi noi siamo destinati a sentirci
così distanti. Che senza accorgercene precipitiamo
nell'imbarbarimento di un conflitto trascinato
ad assolutizzarsi, oltrepassando la sua dimensione
nazionale, sociale e perfino religiosa; e ciò
per colpa non solo di chi pratica ma anche di
chi legittima l'uso del corpo umano vivente come
ordigno mortifero. I teorici, i teologi del nuovo
terrorismo sono molti più di quanti non
si sospetti. Sono i primi nemici della nostra
concezione della vita. Strumentalizzano gli oppressi
ma non manterranno mai la promessa di un mondo
più giusto. Riconosciamoli e denunciamoli
anche per le strade di Ramallah e Betlemme che
in questi giorni, coraggiosamente, percorrete
con le mani in alto di fronte ai carri armati.
Lo so di chiedervi una dose di
coraggio in più. Ma non potete liquidare
come irricevibile questa richiesta: se non altro
perché in passato avete condiviso la severità
con cui tanti ebrei di sinistra come me hanno
denunciato la politica sbagliata di uno Stato
d'Israele cui pure eravamo e resteremo sempre
legati, contribuendo talvolta a sospingerlo in
direzione della pace.
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