segnali dalle città invisibili
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«La nostra verità su Lampedusa»

«Non è vero che la nostra barca si è spezzata, è affondata intatta. La Marina militare era distante pochi metri, ci illuminava con dei fari. Poteva salvare molte persone, ma ha mandato una sola scialuppa». Parlano cinque degli undici sopravvissuti del naufragio del 7 marzo scorso nel Canale di Sicilia
di massimo giannetti, Il Manifesto, 13 aprile 2002

Il più giovane del gruppo è anche il più taciturno. Ha 20 anni ed è ancora sotto choc per la tragedia che ha vissuto. Nel naufragio ha perso due fratelli, uno di 18 e un altro di 15 anni. Si chiama Francis e viene dal Sudan, come Emmanuel, 27 anni, che di fratelli ne ha visti annegare quattro, Bright, 32 anni, e Moses, di 45, religiosissimo, che non ha ancora trovato la forza di raccontare ai suoi familiari ciò che gli è capitato. E' sposato e ha quattro figli a Juba, la città sudanese da cui erano fuggiti dalla guerra molti degli ottanta naufraghi del 7 marzo scorso al largo di Lampedusa, sessanta dei quali spariti negli abissi. Alex, anche lui ventenne, è invece fuggito dalla povertà centroafricana della Liberia. E' nerissimo e indossa lo stesso basco rosso che aveva la sera in cui lo incontrammo, scortato dalla polizia, mentre veniva portato al centro di permanenza temporanea di Agrigento dove fu trasferito, tre giorni dopo la strage, insieme agli altri sopravvissuti: appena undici. Tutti, tranne Ismail, anche lui sudanese - che dopo una lunga degenza in ospedale è ora ospite in un centro di accoglienza di Palermo - da tre settimane vivono a Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia, nel cui cimitero sono stati sepolti anche quattro dei dodici corpi senza nome recuperati nel Canale di Sicilia.

«Siamo partiti dalla Turchia»

L'inchiesta della magistratura agrigentina non ha ancora individuato i responsabili del «disastro colposo». La procura ha però più volte detto che l'indagine è «a tutto campo», riguarderà quindi anche la presunta omissione di soccorso della Marina militare italiana, accusata di «non aver fatto abbastanza» per evitare la strage. Di questo e altro parleranno i cinque miracolati. Sono ospiti, come si diceva, in un centro di accoglienza di Racalmuto, ma preferiscono incontrarci ad Agrigento, dove hanno fatto amicizia con alcuni ragazzi no global. Il drammatico epilogo del loro viaggio nel mondo dei sogni lo conosciamo, ma dalle loro testimonianze _ è la prima volta che parlano in maniera estesa _ emergono dei particolari inediti su come sono andate le cose, soprattutto sui soccorsi. Smentiscono, come invece dissero i pescatori andati in loro aiuto, che la loro barca si sia spezzata prima di affondare, ma soprattutto pongono seri interrogativi sul ruolo svolto dalla Marina, «presente sul luogo del naufragio ma rimasta a guardare». Ma tutto questo lo scopriremo strada facendo, ripercorrendo con loro il tormentato viaggio in mare di 73 uomini e 7 donne in fuga dalla fame e dalle guerre di religione. Un viaggio costato dai 1500 ai 2000 dollari a testa, cominciato verso la fine di febbraio scorso da «una spiaggia della Turchia dove fummo imbarcati su un boat di dieci metri», dopo aver attraversato, «viaggiando sempre di notte», strade e deserti con le «automobili della connection», l'organizzazione mafiosa a cui si sono affidati per raggiungere l'Europa. I sudanesi dicono di essere partiti in differenti momenti. Benché provenissero dalla stessa città, ci «siamo conosciuti in Turchia, in una casa di campagna», utilizzata dai trafficanti come centro di raccolta dei clandestini in attesa della partenza.

L'avaria dopo 15 ore di viaggio

«Quando venne il nostro turno - dice Bright - un uomo, credo uno dei capi dell'organizzazione, venne a prenderci e ci portò su una spiaggia, dove, verso le due di notte, ci fece salire sulla barca». Una barca a motore sgangherata (non è stata ancora ritrovata), così malmessa da suscitare più di qualche perplessità sul fatto che sia partita dalla Turchia per affrontare una traversata così lunga. Ma i profughi smentiscono l'ipotesi, presa in considerazione dagli investigatori, che siano in realtà partiti da una località molto più vicina alle coste italiane, forse la Libia, o l'Egitto oppure la Tunisia. E non confermano neppure l'altra ipotesi circa la presenza di una «nave madre» che, dopo averli caricati in Turchia, potrebbe averli scaricati sulla barca in acque internazionali più vicine all'Italia per poi tornarsene indietro. Non è andata così. «Abbiamo viaggiato sempre sullo stesso boat - dice Emmanuel - che dopo 15 ore di viaggio è però andato in avaria, ha fuso il motore. Sulla barca c'era anche un ragazzo che un po' si intendeva di meccanica. Tentò di aggiustarlo, ma non ci riuscì. Eravamo nei guai, non avevamo altre scelte. Decidemmo così di staccare due assi di legno dalla barca e di proseguire il viaggio remando». L'avaria allungherà notevolmente la durata della traversata. «Al secondo giorno avevamo finito anche il cibo e l'acqua che avevamo di scorta», aggiunge Alex. Per di più «il mare cominciava a diventare grosso». Sulla barca ci sono cattolici e musulmani. «Tutti insieme cominciammo a pregare, a invocare dio».

Navigano a braccia per sei giorni e sei notti, remano a turni. Sono stremati dalla stanchezza e dalla fame. Ma fin qui qualche dio li assiste. «Il settimo giorno di viaggio abbiamo avvistano un peschereccio, ci sembrava un miraggio». Sono in acque internazionali, forse più vicini a Malta che all'Italia. «Facemmo dei gesti di aiuto ai pescatori affinché si accorgessero di noi. Ma non vennero subito, proseguirono oltre, forse andarono a gettare le reti più avanti. Tornarono indietro dopo un po' di tempo. Quando ci raggiunsero, ringraziammo dio». I pescatori gettano del pane e delle bottiglie di acqua ai disperati, che ringraziano, sorridono. Erano circa le 16 del pomeriggio, l'inizio del soccorso del peschereccio Elide di Mazara del Vallo, che proseguì poi con l'aggancio della barca. Ma prima che iniziasse il traino verso Lampedusa, dall'Elide, secondo quanto raccontato dai pescatori, lanciano l'Sos alle polizie marittime, quindi alla Marina militare, presente a qualche miglio dalla zona con un proprio pattugliatore, il Cassiopea. «Arrivò anche un elicottero», confermano i superstiti. Dopo quanto tempo arrivò l'elicottero? «Non prima di 45 minuti. Lo vedemmo sopra di noi, ma poi tornò indietro. In quel momento non stavamo affondando. Eravamo preoccupati, però avevamo un po' più di fiducia. Il peschereccio era nella nostra zona».

Il soccorso dei pescatori

Più tardi arriverà anche la nave della Marina, ma intanto la barca dei profughi è già stata agganciata dai pescatori «che ci gettarono una fune e la legammo a prua». Ripartono. Il mare intanto «si era fatto sempre più grosso». La barca è instabile, le onde la sovrastano, comincia a imbarcare acqua da tutte le parti. «Il peschereccio andava molto veloce, quando l'acqua cominciò a entrare nella barca - dice ancora Emmanuel - Cominciammo a preoccuparci seriamente. Toglievamo l'acqua che entrava con dei bidoni dell'olio, ma più ne toglievamo più ne entrava. Urlammo ai pescatori di fermarsi, ma loro non sentivano». Si era fatto buio. Sulla barca è il panico. Mentre il peschereccio li traina spunta all'orizzonte il Cassiopea, che lentamente si avvicina. «Venne verso di noi da sinistra e si mise lateralmente e poi dietro la barca». Passano altri lunghissimi quarti d'ora. La nave li segue a distanza, ma quanto era distante? «Non molto, più o meno la stessa distanza del peschereccio che ci trainava - spiega Alex - La nave ci illuminava con i fari. Noi gridavamo di salvarci». La barca è come una vasca colma d'acqua piena di gente che annaspa, urla. «Finalmente dal peschereccio si accorgono dei nostri gesti, rallentano e si fermano». Un po' si tranquillizzano. Sono già diverse ore che lottano contro «il mare grosso». Davanti hanno un motopesca, dietro un pattugliatore. Possibile che nessuno si rende conto di quello che potrebbe accadere? Forse è proprio in quei momenti che i pescatori dell'Elide chiedono via radio al comandante del Cassiopea di trasbordare i profughi. Ma la risposta fu negativa. «Dopo cinque-dieci minuti sentimmo un fischio e il peschereccio inspiegabilmente ripartì, più velocemente di prima - racconta Moses - Andava velocissimo, troppo veloce... ».

Ai profughi non resta che «invocare di nuovo dio». Ma stavolta neanche lui li ascolta. E' a questo punto che la barca, secondo la versione dei pescatori, viene investita da un'onda più violenta, si capovolge e si spezza in due. Ma i profughi «smentiscono categoricamente» che sia andata così: «La barca non si è mai spezzata, non si è mai capovolta, è affondata intatta con tutti noi dentro», dicono Bright e gli altri. E' la tragedia. Ad Alex tornano le immagini davanti agli occhi, si stringe le mani sul volto. «Io non sapevo nuotare. In mare c'era tutta gente che combatteva contro le onde, urlava. Non so come ho fatto a salvarmi, non lo so. Ero aggrappato a uno dei bidoni dell'olio che erano sulla barca, ma sono stato tirato giù, ho bevuto chissà quanta acqua. Poi sono riemerso. In mare c'erano già persone morte. Altre gridavano». E' l'inferno. Dal peschereccio avevano intanto gettano in acqua tutte le cassette di polistirolo che avevano, legate con delle corde. Chi ci riesce ci si aggrappa, ma sono davvero in pochi. Alex ne agguanta una e viene tirato su dai pescatori. Stessa cosa riescono a fare, dopo vari tentativi, Francis e Moses.

«La strage sotto gli occhi della Marina»

La nave della Marina è li a poche decine di metri. La tragedia si consuma sotto ai suoi occhi. Interviene, ma sentiamo come. «Dalla nave - dicono Emmanuel e gli altri - hanno mandato giù una scialuppa con due persone a bordo. Nuotando ho cercto di raggiungere la nave e mentre nuotavo ho incontrato Bright che faceva la stessa cosa, ci siamo chiamati, gridando chiedevamo aiuto a quelli della scialuppa, ma loro ci superarono senza risponderci». «Ci sono passati accanto - aggiunge Bright - ma non ci hanno presi». Possibile che non si siano accorti di voi? «Non lo so, però il mare era illuminato dai fari della nave». Ancora Bright: «Pregavo, ma il mare mi tirava giù, sono riemerso, mi è capitato vicino il bidone e mi ci sono aggrappato, ho avuto la forza di lanciare un fischio fortissimo verso la scialuppa che finalmente tornò indietro e ci prese a bordo. Così Emmanuel ed io ci siamo salvati».

Quando siete stati presi dalla scialuppa, in mare c'erano altre persone? «In mare c'era ancora gente che urlava, sentivamo grida disperate». Ma secondo voi la Marina poteva salvare altre persone? «Secondo noi, sì. Non sappiamo perché non lo ha fatto, non sappiamo perché ha mandato una sola scialuppa». La lotta contro la morte degli ottanta naufraghi è durata «15 minuti». Solo in undici l'hanno vinta.

 

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